VI
organizzazioni non lucrative di utilità sociale come soggetto giuridico tipico
per tutti gli enti non lucrativi che abbiano fini di utilità sociale.
Nell'analizzare il quadro normativo che definisce il settore del nonprofit si
cercherà di raccordare la disciplina del codice civile con quella fiscale e di
mettere in evidenza i punti che spingono verso una riforma complessiva del
settore e le sue direttrici principali.
Prima di entrare nel vivo della discussione sui soggetti giuridici che
caratterizzano il panorama di quello che viene definito il terzo settore, sarà
necessario fornire un quadro generale sulla caratterizzazione dello stesso e
dei suoi fondamenti.
Si definirà poi il settore sia in termini dimensionali che qualitativi per poi
ricercare nella Costituzione italiana i fondamenti valoriali e giuridici che
giustificano l'importanza del nonprofit in Italia.
L'intera disciplina degli enti non lucrativi si fonda, come visto
precedentemente, sulle disposizioni del libro primo titolo II del codice civile e
quindi saranno proprio le norme previste in questi articoli a costituire la base
dell'intero quadro giuridico che andremo a delineare. Si tratta di trentuno
articoli che pur non qualificando gli enti non commerciali ne dettano la
struttura ed il funzionamento. Dall'istituzione del codice civile ad oggi c'è
stato uno scarso adeguamento delle norme in esame con le reali esigenze del
settore. Il D.Lgs.460/97 viene in contro a questa esigenza di qualificazione
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degli enti non commerciali e si vedrà qual è stato il suo impatto sulla
normativa preesistente.
L'introduzione delle onlus costituisce la vera novità del decreto, in quanto
identifica puntualmente, seppur a fini fiscali, quella parte degli enti non
commerciali che svolgono attività socialmente utili distinguendoli da quelli
con scopo mutualistico.
Delle onlus si analizzeranno gli elementi costitutivi e gli organismi di
vigilanza. Verranno altresì analizzate le posizioni degli enti soggetti a leggi
speciali che rientrano di diritto fra le onlus come le cooperative sociali, le
organizzazioni di volontariato e le organizzazioni non governative.
Parlando di enti non profit nella maggior parte dei casi, si fa riferimento a
organizzazioni piuttosto semplici e dinamiche per le quali la previsione di
adeguati regimi contabili è fondamentale per non disincentivarne lo sviluppo.
L'analisi degli adempimenti contabili verrà svolta sia in relazione alle norme
civilistiche sia in relazione ai più importanti adempimenti di carattere
tributario.
La trasparenza nella gestione, che un adeguato sistema di rendicontazione
offre, è il punto cruciale per quanto riguarda il problema delle erogazioni
liberali. Le esigenze di semplicità della contabilità riscontrate prima non
possono andare a scapito delle esigenze conoscitive di tutti i portatori di
interessi esterni alle organizzazioni; in particolare chi effettua delle donazioni
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verso gli enti di utilità sociale ha diritto a ricevere un'esauriente
documentazione riguardo alla destinazione di tali liberalità.
Il problema delle fonti di finanziamento delle organizzazioni nonprofit viene
fortemente condizionato dalle previsioni fiscali in materia di donazioni e dei
relativi sgravi fiscali. Il trovare un punto di equilibrio fra contributi pubblici,
anche sotto forma di convenzioni, donazioni private ed autofinanziamento,
tramite attività commerciali secondarie, costituisce la chiave di volta per
garantire un solido futuro a questo tipo di organizzazioni e in certi casi una
scelta obbligata in tema di "welfare" pubblico.
Una volta così definiti tutti gli elementi risulta più facile valutare quali siano i
punti critici di una riforma, che così com'è è, senz'altro parziale e non è
sufficiente per dar slancio ad un settore con grosse potenzialità sia in termini
di servizi offerti che in termini di occupazione.
Dal mondo del non profit vengono mosse numerose obiezioni all'attuale
assetto normativo. Si è voluto includere tra gli spunti critici il "Manifesto per
la riforma del terzo settore" presentato dall' Istituto Kaspar Hauser per gli
Studi Economici sia perché si ritiene condivisibili le proposte presentate sia
perché costituisce un emblematico esempio dell' approccio costruttivo con cui
il settore si pone nei confronti dello stato.
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1. IL NONPROFIT NELLA REALTA' ITALIANA
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1.1) Rilevanza del fenomeno.
1.1.1) Aspetti definitori.
Prima di iniziare una qualsiasi analisi sul settore del nonprofit italiano
ritengo fondamentale capire quali siano i soggetti coinvolti e che
caratteristiche essi assumano. Cercare di dare una definizione precisa del
fenomeno non è impresa facile in quanto la realtà del nonprofit è in divenire
e la dinamicità che caratterizza il settore non aiuta certamente a qualificare
entro rigidi schemi il fenomeno.
A comprova di ciò si consideri che oltre al termine " nonprofit " esistono altri
cinque diversi modi per indicare la realtà di cui stiamo parlando:
a) Terza dimensione
b) Terzo settore
c) Privato sociale
d) Terzo sistema
e) Azione volontaria.
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1
Barbetta G.P., Senza scopo di lucro. Dimensioni economiche, legislazione e politiche del
settore nonprofit in Italia., Il Mulino 1996.
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Si tratta di espressioni che non identificano realtà diverse, ma che esprimono
semplicemente punti di vista differenti riguardo a uno stesso composito
fenomeno. La ricerca di una definizione per il settore nonprofit passa
necessariamente attraverso una correlazione dei vari aspetti (sociologico,
economico, giuridico, ecc.), implicando la necessità di un'analisi che tenga in
considerazione problematiche diverse e a volte disomogenee fra di loro.
Probabilmente proprio per questo motivo una definizione del settore che si
concentri su certe funzioni di base o su certe finalità, che sono considerate
parte della missione di una organizzazione nonprofit, richiederebbe la stesura
di lunghe liste di funzioni/scopi che dovrebbe essere continuamente
aggiornata vista l'estrema mutevolezza nel tempo delle forme assunte da
questo tipo di organizzazioni.
Per cercare di superare questi limiti definitori risulta più efficace ricercare
una definizione per principi primi basata sull'individuazione di alcune
caratteristiche basilari delle organizzazioni del terzo settore riscontrabili
empiricamente.
Questi criteri sono cinque:
1) La costituzione formale;
2) La natura giuridica privata;
3) L'autogoverno;
4) L'assenza di distribuzione di profitto;
5) La presenza di una certa quantità di lavoro volontario.
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L'organizzazione deve essere formalmente costituita. La necessità di una
costituzione formale deve venir intesa con la previsione di uno statuto, di un
atto costitutivo o di un altro documento che regoli l'accesso dei membri, i
loro comportamenti e le relazioni fra di essi. In questo modo si punta ad
evidenziare la consistenza organizzativa e la stabilità nel tempo dell'ente.
L'organizzazione non deve far parte del settore pubblico.L'indipendenza dai
poteri pubblici viene postulata dalla necessità di una natura giuridica privata
di modo che l'attività svolta e l'organizzazione interna sia a discrezione dei
membri dell'ente. Nella pratica una linea di demarcazione netta fra pubblico
e privato è difficile da tracciare, sia in relazione al processo di
privatizzazione di diversi enti pubblici in atto, sia perchè certe organizzazioni
pur avendo una natura privatistica perseguono fini di interesse pubblico.
L'organizzazione non deve essere controllata nella formazione dei suoi
processi decisionali nè da da parte dello Stato, nè dalle imprese con scopo di
lucro. La verifica di questo requisito avviene tramite l'osservazione della
composizione dei consigli di amministrazione. Nei casi in cui il numero di
amministratori nominati da enti pubblici o da imprese a scopo di lucro sia
prevalente è chiaro che il requisito non risulta soddisfatto. Proprio per questo
motivo si ritiene di dover escludere dal settore nonprofit, e quindi da questa
5
trattazione, le fondazioni bancarie
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in quanto nella maggior parte dei casi il
potere di nomina degli amministratori spetta ad organismi pubblici. Il
governo interno deve infine garantire la democraticità dei rapporti interni e la
trasparenza nella conduzione dell'attività.
L'organizzazione non deve distribuire, ai propri soci, gli utili derivanti dalla
propria attività; sia che ciò avvenga in modo diretto che indiretto. Ciò non
vieta l'ottenimento di risultati positivi nella gestione, ma obbliga il loro
pronto reinvestimento nell'attività dell'organizzazione. La legislazione
italiana, a differenza di quella statunitense, non prevede questo requisito nel
qualificare determinati tipi di organizzazioni. Si ritiene che gli enti regolati
dal libro primo del codice civile (associazioni, fondazioni e comitati) siano
quelli che, nonostante la mancanza di una previsione specifica in tal senso,
più si adattino al rispetto del criterio della non distribuzione del profitto.
Infine l'organizzazione deve poter beneficiare in qualche misura del lavoro
volontario o della filantropia. I volontari possono svolgere la loro attività a
qualsiasi livello nell'organizzazione, operativo o dirigenziale che sia. Si
qualificano come lavoro volontario anche le attività retribuite in maniera
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Sono comunque da registrare recenti cambiamenti per quanto riguarda la disciplina delle
fondazioni bancarie che puntano verso un’azione sociale e privata e allo stesso tempo
imprenditoriale delle proprie attività.
Si veda al riguardo: G. Fiorentini., Decalogo per fondazioni bancarie., Sole 24 Ore del 14
agosto 1999.
O. Carabini., Fondazioni verso il privato., Sole 24 Ore del 8 agosto 1999.
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minore, rispetto alla media del mercato per categorie professionali
omogenee.
La definizione di organizzazione nonprofit che si evince da questi criteri
risulta decisamente più solida rispetto all'eventualità di dover sviluppare una
lista di attività cui far rientrare il terzo settore. Presenta però ancora un
aspetto che deve essere chiarito in modo da non creare confusione con i temi
che andremo a trattare. La definizione a cui si è giunti tramite i cinque criteri
visti sopra porta ad includere all'interno del settore sia organizzazioni che
hanno scopi di utilità sociale sia organizzazioni che, per utilizzare la
terminologia americana, vengono definite mutual benefit. Quest'ultime si
caratterizzano perché, tra le proprie finalità, annovera l'utilità dei propri
membri. Un confine ben preciso fra utilità sociale e utilità mutualistica non
esiste sia perchè un aspetto non esclude l'altro, sia perchè il concetto di
benessere della società, da contrapporre a benessere dei membri, è difficile
da chiarire e labile nel tempo. In relazione a questo problema si ritiene di
dover porre comunque dei limiti definitori. Per far questo è necessario dover
introdurre due categorie di organizzazioni che costituiscono l'ossatura del
nonprofit italiano.
La prima di queste è quella degli enti non commerciali. Una definizione di
essi deriva dal disposto del Testo unico sulle imposte dirette, ma la forma
giuridica che rivestono è quella che deriva dal libro primo, titolo II, del
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codice civile. Enti non commerciali sono quindi propriamente associazioni,
riconosciute e non, fondazioni e comitati. Questi enti soddisfano i requisiti
definiti precedentemente e includono sia le pubblic benefit che le mutual
benefit.
Con il D.Lgs.460/97 è stato ridefinito il concetto di enti non commerciali, ma
la novità più importante è stata l'introduzione delle organizzazioni non
lucrative di utilità sociale (onlus). Le Onlus, come analizzeremo più
approfonditamente in seguito, non sono altro che quella parte di enti non
commerciali che svolgono attività di utilità sociale (pubblic benefit).
Vedremo che, da quest'ultima categoria, verranno escluse tutte le
associazioni di categoria, i partiti politici, le organizzazioni sindacali e
religiose; vi verranno incluse tuttavia quelle organizzazioni ad esse legate
che svolgano attività d'interesse pubblico. Per quanto riguarda le cooperative,
l'esclusione deriva sia dal carattere mutualistico dell'attività sia dalla
possibilità prevista di distribuire, seppur parzialmente, utili. Discorso diverso
deve essere fatto per le cooperative sociali che rientrano di diritto fra le
Onlus.
Per concludere questo aspetto possiamo dire che: una definizione
strutturale/operativa ci ha portato all'individuazione del settore nonprofit
negli enti non commerciali per cui un analisi di questo settore non potrà
prescindere da essi. Successivamente in base ad un analisi più approfondita
dei tipi di attività e un armonizzazione con il disposto del decreto legislativo
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460 del 1997 si è giunti ad individuare un concetto di nonprofit in senso
stretto che si identifica nelle organizzazioni non lucrative di utilità sociale.
1.1.2) Aspetti economico-sociali
Una volta definito il settore e quindi l'ambito in cui ci muoveremo è
importante capire perchè le organizzazioni nonprofit stanno acquistando una
certa rilevanza nel quadro economico-sociale italiano e perchè si considera
tale fenomeno in espansione.
Da un punto di vista puramente economico bisogna considerare che, già a
partire dagli anni ottanta, inizia a evidenziarsi l'insostenibiltà del sistema di
welfare pubblico italiano sia in relazione alle congiunture economiche
sfavorevoli, ma sopratutto perchè l'esigenza di una razionalizzazione dei
servizi ha messo in luce tutta una serie di inefficienze del sistema: aumento
dei costi non supportato da incrementi nella produttività; inefficienza
provocata dall'assenza di competizione e da comportamenti opportunistici
difficilmente controllabili; crescita delle retribuzioni; insoddisfazione degli
utenti per la qualità dei servizi erogati, per la limitata differenziazione
dell'offerta e per la scarsa tutela garantita alle classi più deboli.
Inoltre il mercato del welfare raramente attrae le aziende commerciali visto
che è caratterizzato da un forte localismo, scarsa remuneratività, limitato
potere d'acquisto in mano agli utenti e rischio di sovradimensionamento.
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In questo quadro si inserisce quella larga parte del nonprofit che, pur
qualificandosi come unità di offerta private, eroga servizi. Lo spazio che
viene a crearsi per questi tipi di enti si trova a metà strada fra pubblico e
privato, perchè se da un lato l'ente ha natura privatistica dall'altro il tipo di
attività svolto è di interesse pubblico ed è lo stesso Stato che il più delle volte
affida, tramite convenzioni, settori di sua competenza. La restante parte del
settore nasce e opera autonomamente rispetto al potere pubblico e nonostante
ciò fornisce ugualmente un contributo importante alla comunità in cui opera.
Pensare che il nonprofit nasca come fallimento dello stato o del mercato nei
settori di utilità sociale è piuttosto riduttivo. E' possibile considerare il
nonprofit con una propria dignità intrinseca perchè non solo è riuscito a
coniugare prodotti di utilità sociale con prezzi acessibili anche alle fasce più
deboli della società, ma soprattutto ha saputo creare un valore aggiunto sotto
forma di diversificazione dell'offerta, radicamento sul territorio e
allargamento delle aree di influenza
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. Se è vero che enti e associazioni
operano sopratutto nel settore del welfare è anche vero che costituiscono il
motore trainante di politiche e iniziative nei campi della cultura,
dell'educazione, dello sport e dell'ambiente.
L'Italia si caratterizza per la diffusione di medio-piccole imprese e per una
matrice popolare del settore nonprofit, dovuta alla rete di relazioni personali
che in questo contesto si viene a sviluppare autonomamente. Tuttavia anche
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G. Busia., Il nonprofit rilancia il localismo., Sole 24 Ore del 28 aprile 1998
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nel nostro paese tende sempre più ad affermarsi una partnership operativa fra
Stato ed organizzazioni nonprofit. Le ragioni che spingono in questa
direzione sono molteplici:
• il settore nonprofit produce servizi che meglio si adattano alle
diversificate scelte del consumatore;
• favorisce l'introduzione di meccanismi di competizione tra fornitori
(pubblici e privati), così da favorire, potenzialmente, un miglioramento
dell'efficienza e dell'efficacia;
• in virtù della più lunga fornitura di servizi in alcune aree della società,
può rivelarsi produttore di servizi " specializzati ", più economici rispetto
al settore pubblico;
• la maggior economicità deriva dall'uso del lavoro volontario, dalla
struttura burocratica più agile, dai minori vincoli nella gestione della
manodopera e da una maggiore motivazione dei lavoratori;
• il settore nonprofit attiva processi partecipativi ed è capace di offrire
occasioni di impegno che si traducono in un' assunzione di responsabilità
sociale sempre più crescente;
• grazie ai vantaggi economici riesce ad attuare iniziative fra le più varie,
pur in presenza di un aiuto modesto o nullo da parte di pubblici poteri.
L'accostamento di elementi di utilità economica ad elementi di utilità sociale
è in grado di creare un valore aggiunto tale da prospettare un processo di
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crescita e di professionalizzazione del settore. Una conferma in questo senso
ci viene dalle parole del Governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio
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: "
Destinando al privato sociale una parte, anche piccola, delle risorse rese
disponibili dal necessario ridimensionamento dell'intervento pubblico, si
potrà evitare di ridurre il livello di protezione assicurato alle fasce più deboli
della popolazione. La maggiore efficienza che il privato sociale sembra in
grado di garantire potrebbe anzi consentire di accrescerlo. L'apporto dello
stato dovrà valorizzare le tante risorse esistenti e attirarne di nuove".
E ancora "Il potenziamento del privato sociale potrà contribuire a evitare un
arretramento del grado di protezione e nei servizi offerti, in un contesto di
ridimensionamento dell'intervento pubblico; potrà anzi consentire
significativi avanzamenti nella qualità dei servizi resi e nell'efficacia
dell'azione contro l'esclusione sociale".
Oltre all'aspetto prettamente economico fin qui analizzato, le organizzazioni
nonprofit assumono un'importante rilievo anche dal punto di vista sociale. Il
problema dei servizi pubblici, soprattutto legato alla qualità dei servizi
erogati, ha riscontri anche in quest'ambito. Sempre di più si nota come
l'avvento di una società di tipo post-industriale (fondata sui servizi, su modi
di produzione flessibili e decentrati) ha fatto emergere nuove aspettative in
tema di welfare.
4
Fazio A., Ripensare lo stato sociale. Il volontariato., in "Bollettino economico della Banca
d'Italia"., Numero 28, pp.55-60., 1997.