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Capitolo II
Gabbie di genere: stereotipi, pregiudizi, sessismo
Una chiave spesso utilizzata per interpretare le cause della
sottorappresentanza femminile nella sfera pubblica è fornita dalla teoria
delle “preferenze” secondo la quale l’assenza delle donne all’interno dei
luoghi decisionali è dovuta principalmente a scelte che, seguendo la
“naturale” differenziazione di ruoli tra donne e uomini, fanno preferire alle
prime la sfera del privato e ai secondi la gestione della res publica. Tale
differenziazione di ruoli, e dunque di scelte, è davvero “naturale”?
In questo capitolo si tenterà di rispondere a questo quesito facendo luce
sugli aspetti relativi alla costruzione sociale delle differenze di genere.
Partendo dalla definizione degli stereotipi di genere e ponendo il focus
sugli effetti che essi hanno nel dividere profondamente il mercato
occupazionale, attraverso meccanismi come lo stereotype threat o il glass
slipper, si passerà ad analizzare l’effetto che essi hanno sulla formazione
di pregiudizi connessi al genere fino ad assumere forme di vero e proprio
sessismo. Infine, si analizzeranno due possibili strumenti di misura del
pregiudizio sessista: ASI e AMI, in qualità di misurazioni del pregiudizio
esplicito e IAT, come strumento di misurazione del pregiudizio implicito.
2.1 Gli stereotipi di genere
Gli stereotipi di genere sono definiti come un insieme rigido di
credenze condivise e trasmesse socialmente su quelli che devono essere i
comportamenti, i ruoli, le occupazioni, i tratti e l’apparenza fisica propri
del genere maschile o del genere femminile.
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Simone de Beauvoir sostiene che “non si nasce donne, lo si
diventa”. Lo stesso vale anche per l’uomo, in quanto “la virilità non è più
naturale della femminilità” (Perrot 2001, p. 133). Essere uomini o essere
donne, infatti, ha a che fare solo in parte con i caratteri fisici: diventare
uomini o donne significa assumere le fattezze, i modi di essere, di
comportarsi, di vestirsi, che la propria cultura attribuisce al genere
maschile e al genere femminile.
Prima di addentrarsi nella spiegazione degli stereotipi di genere,
risulta fondamentale evidenziare la distinzione tra le due dimensioni su
cui si fondano le differenze tra uomini e donne: il sesso e il genere. Pur
trattandosi di concetti fortemente interrelati, essi sono diversi: il sesso è
determinato dalla specificità dei caratteri che, all’interno della stessa
specie, contraddistinguono soggetti diversamente preposti alla funzione
riproduttiva, ossia dalle differenze biologiche e fisiche (livelli ormonali,
organi sessuali, capacità riproduttive etc.) tra maschi e femmine; il termine
genere, invece, si riferisce agli atteggiamenti, ai sentimenti, ai
comportamenti che una data cultura associa al sesso biologico di un
individuo.
2.1.1 La costruzione sociale degli stereotipi di genere
Il concetto di genere è entrato nel discorso scientifico e accademico
delle scienze umane nella prima metà degli anni Settanta. Uno dei primi
contributi teorici ufficiali si trova nel saggio The Traffic in Women
dell’antropologa Gayle Rubin: l’autrice indica con l’espressione sex-
gender system l’insieme di “processi, adattamenti, modalità di
comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la
sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione
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dei compiti tra uomini e donne, differenziandoli l’uno dall’altro: creando,
appunto, il genere” (Rubin, 1975, p.175).
Il genere, essendo socialmente definito, è un prodotto della cultura
umana, alla stregua del linguaggio, della parentela, della religione: i
sociologi Candace West e Don Zimmerman, a tal proposito, hanno coniato
l’espressione doing gender (1987) per sottolineare quanto il genere fosse
un prodotto culturale co-costruito e ridefinito durante tutto il corso della
vita. Attraverso processi di socializzazione – meccanismi attraverso i quali
“si trasmettono di generazione in generazione i valori, le norme e il sapere
pratico di una società” (Ghisleni, Moscati, 2001, p.111) – le differenze
biologiche tra uomini e donne assumono un significato culturale. La
definizione del ‘maschile’ e del ‘femminile’ è, pertanto, frutto di un
processo storico che, all’interno di diverse società e culture, ha prodotto
specifiche identità individuali e collettive connesse all’essere uomo e
all’essere donna. Tali identità si fondano sui ruoli di genere, ossia sui
comportamenti verbali e non verbali, i doveri e le responsabilità alle quali
donne e uomini sono chiamati a conformarsi. Il processo di acquisizione
dell’identità di genere, come testimoniato da Belotti, inizia già prima della
nascita e continua lungo tutto il percorso di vita. Nelle società occidentali,
bambine e bambini sono incoraggiati a comportarsi in modi differenti:
imparano a camminare, parlare e atteggiarsi nel modo prescritto dal
proprio genere secondo le aspettative della cultura di appartenenza
(Lorber, 1995). A questo processo di apprendimento contribuiscono varie
agenzie di socializzazione: la famiglia, il sistema scolastico, il gruppo dei
pari, i mezzi di comunicazione di massa, le esperienze lavorative. Tali
agenzie hanno un ruolo importante nel costruire e perpetuare i cosiddetti
stereotipi di genere, che, come detto in precedenza, sono un insieme
rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente su quelli che devono
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essere i comportamenti, i ruoli, le occupazioni, i tratti e l’apparenza fisica
propri del genere maschile o del genere femminile.
Il termine stereotipo (dal greco "stereos", ossia duro, solido, rigido
e "typos", ossia impronta, immagine) è nato in ambito tipografico per
indicare un metodo di duplicazione delle composizioni tipografiche e dei
cliché: l’originale da duplicare veniva fortemente pressato contro uno
speciale tipo di cartone resistente al calore, detto fiano, che ne riceveva
l’impronta all’interno della quale si versava la lega tipografica, da cui si
ottenevano le matrici in rilievo per la stampa. Ne “L’opinione pubblica”
(1922), il giornalista e politologo statunitense Walter Lippmann utilizzò
per la prima volta questo termine per indicare la tendenza a percepire
persone appartenenti ad uno stesso gruppo come indistinguibili tra loro,
alla stregua delle copie di un giornale che provengono dallo stesso stampo
tipografico. Lo stereotipo, pertanto, indica un modello resistente, difficile
da cambiare, avente essenzialmente due proprietà: rigidità e replicabilità.
2.1.2 Come nascono gli stereotipi di genere: il processo di
categorizzazione
Gli stereotipi di genere, alla stregua di tutti gli stereotipi sociali,
hanno le loro radici nel processo cognitivo di categorizzazione, uno dei
concetti fondamentali su cui si fonda la Social Identity Theory (Tajfel,
1969). Per categorizzazione si intende la tendenza degli individui a
raggruppare gli oggetti della conoscenza, siano essi oggetti fisici, concetti,
eventi, idee o persone, in insiemi, che vengono percepiti come equivalenti.
Questo tipo di meccanismo cognitivo viene implementato in quanto
consente di minimizzare le risorse cognitive, ordinando e semplificando
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la realtà, fatta di differenze e relazioni sociali complesse. Tuttavia, a fronte
dei suoi vantaggi in termini di rapidità ed economia di risorse cognitive,
la categorizzazione ha conseguenze importanti e potenzialmente rischiose:
unificando gli oggetti, inevitabilmente, si tende a perdere di vista la
specificità dei casi singoli, i quali, di fatto, si confondono nella categoria
di cui fanno parte. Ciò avviene a livello percettivo, prima che abbia inizio
la valutazione dell’oggetto: si verifica un fenomeno definito come
accentuazione percettiva, per cui gli individui tendono a ridurre le
differenze interne tra gli oggetti, o i soggetti, che appartengono ad uno
stesso gruppo e, contemporaneamente, ad aumentare le differenze tra gli
oggetti, o i soggetti, appartenenti a gruppi differenti. Nella prospettiva di
genere, questo vuol dire che, nel momento in cui si divide il mondo in
uomini e donne, si tende a vedere gli uomini più simili tra loro e più diversi
dalle donne di quanto non siano nella realtà e viceversa. Le categorie di
genere sono immediatamente accessibili e vengono facilmente
essenzializzate, nell’idea, profondamente radicata, che le differenze
biologiche tra i due sessi determinino le differenze psicologiche e che,
pertanto, pensieri, azioni e sentimenti di uomini e donne siano
biologicamente fissati, immutabili, “naturali”.
2.1.3 La valenza descrittiva e prescrittiva degli stereotipi di genere
Gli stereotipi di genere hanno valenza descrittiva e prescrittiva:
specificano come uomini e donne agiscono e come dovrebbero agire.
L’aspetto descrittivo si fonda sulle rappresentazioni, generalizzanti
e semplificate, di uomini e donne: esse si vengono a creare tramite i
processi di categorizzazione, che, come visto precedentemente,
semplificano la lettura e l’interpretazione dell’universo sociale a spese
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dell’accuratezza. Tramite associazioni di tipo probabilistico, fallaci, come
si vedrà successivamente, a tutti i membri delle categorie sociali, costituite
da uomini o da donne, vengono connessi determinati attributi e specifiche
caratteristiche. La maggior parte di essi, come dimostrano molte ricerche
sulla cognizione sociale, ruota attorno a due dimensioni fondamentali, i
cosiddetti Big Two: “agency” e “communality” (Bakan, 1966; Eagly,
1987). Si tratta di due differenti modalità di muoversi nel sociale:
l’“agency” è definita dalla tensione individuale verso il raggiungimento di
scopi e viene collegata a tratti quali potere, strumentalità e competenza; la
“communality”, invece, è definita dalla capacità di costruire e mantenere
delle buone relazioni interpersonali e viene collegata al possesso di tratti
quali espressività, calore e affiliazione. Nella maggior parte delle società
umane, gli stereotipi connessi al genere maschile sottolineano tratti legati
all’”agency”: gli uomini sono stereotipizzati come autocentrati, orientati
al compito, impegnati nel raggiungimento dei propri obiettivi. D’altro
canto, gli stereotipi femminili evidenziano tratti connessi alla
“communality”: le donne, infatti, sono stereotipizzate come attente alle
relazioni, empatiche, dolci, gentili e comprensive. La valenza descrittiva
degli stereotipi di genere viene dimostrata anche da uno studio condotto
negli anni Settanta da Williams e Bennett: gli autori hanno somministrato
ad un campione, composto da 50 soggetti maschi e 50 soggetti donne, una
scala di aggettivi, la Adjective Check List, che ciascun partecipante
avrebbe dovuto associare al genere femminile o maschile. Con un alto
grado di concordanza, i partecipanti convenivano nell’associare al genere
maschile aggettivi quali “affermativo”, “aggressivo”, “ambizioso”,
“autocratico”, “coraggioso”, “energetico”, “indipendente”, “razionale”,
“rigoroso”, “logico” ed altri; e al genere femminile aggettivi quali
“amorevole”, “attenta”, “umile”, “emotiva”, “loquace”, “capricciosa”,
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“nervosa”, “dipendente”, “delicata”, “attraente” ed altri (Williams &
Bennett, 1975). Come si può notare, gli stereotipi di genere vertono su
caratteristiche dicotomiche opposte quali: forza/dolcezza;
competenza/cura; indipendenza/dipendenza, etc. La rappresentazione
sociale più diffusa dei generi vede nell’uomo un essere potente,
dominante, razionale e privo di emozioni e nella donna un essere debole,
irrazionale, emotivo: la differenza tra uomini e donne non è mai pensata
come neutra, bensì come presupposto di un preciso ordine gerarchico.
L’aspetto prescrittivo degli stereotipi si fonda sui ruoli di genere,
ossia sui comportamenti, i doveri, le responsabilità connessi alla
condizione femminile e maschile e oggetto di aspettative sociali: le
prescrizioni condizionano moltissimo gli individui, al punto che possono
creare delle differenze nei tratti e nei comportamenti di uomini e donne.
La funzione prescrittiva degli stereotipi di genere contribuisce a
mantenere la struttura gerarchica di genere, basata sull’ineguaglianza e
sull’asimmetria di potere, e giustifica i ruoli maschili e femminili come
desiderabili, naturali ed etici. Gli stereotipi di genere sono più prescrittivi
di altri stereotipi sociali, come quelli etnici, perché vengono appresi sin da
piccolissimi.
2.1.4 Stereotipi di genere, euristica della rappresentatività e bias
cognitivi
L’insieme di aspettative su come devono essere e comportarsi
donne e uomini funziona come un’euristica di pensiero, scorciatoia
mentale attivata in maniera automatica, funzionale a semplificare
decisioni e problemi. Ragionare per stereotipi significa, nello specifico,
implementare l’euristica della rappresentatività, una delle euristiche
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individuate da Kahneman e Tversky, che indica la tendenza a stimare la
probabilità di un fenomeno a partire dalla somiglianza tra oggetti ed
eventi. Fondamentalmente, nel momento in cui si attivano gli stereotipi di
genere si fanno inferenze sulla probabilità che un individuo appartenga
alla categoria “uomo” o alla categoria “donna” sulla base del suo grado di
rappresentatività della categoria, ossia su quanto somigli agli altri uomini
o alle altre donne e abbia le fattezze e le caratteristiche che la propria
cultura attribuisce all’uno o all’altro genere. Tale grado di
rappresentatività, ossia di “tipicità” di un dato esemplare rispetto ad una
categoria, si viene a creare grazie al cosiddetto effetto priming
(dall’inglese “to prime”, imprimere), sistema mnemonico per il quale
l’esposizione ad uno stimolo influenza, in modo inconsapevole, la risposta
agli stimoli successivi. In termini neuropsicologici, la percezione di un
oggetto già visto attiva dei gruppi di neuroni circondati da connessioni
poco forti tra loro: il segnale diventa prioritario rispetto agli altri in arrivo,
si propaga immediatamente e vengono attivate tutte le immagini mentali
correlate all’oggetto in questione (in questo caso, tutte le immagini e le
rappresentazioni prototipiche relative al genere femminile o maschile).
Secondo la teoria degli schemi di genere proposta da Bem (1981), è
proprio tramite l’osservazione che i bambini apprendono, sin da
piccolissimi, conoscenze, che si traducono in schemi cognitivi relativi a
ciò che donne e uomini fanno e dovrebbero fare. Per esempio, una
bambina che sceglie una bambola per giocare lo fa in seguito ad un
ragionamento: ha osservato nei differenti contesti empirici che la bambola
è un giocattolo per bambine. Da questa datità osservativa discende uno
schema cognitivo: la bambina pensa che, appartenendo al sesso
femminile, deve anche lei giocare con le bambole, perché questo è un
giocattolo femminile (Olsson e Martin, 2018). Questi schemi cognitivi di
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genere influenzeranno tutte le scelte che verranno fatte anche
successivamente, ossia si effettuerà una cernita di esse in base alla
congruenza con il genere di appartenenza.
Gli schemi cognitivi di genere diventano immagini mentali e
rappresentazioni condivise e, tramite l’euristica della rappresentatività,
vengono associate in maniera automatica all’intera categoria di individui,
uomini o donne. Da questo meccanismo, si può comprendere bene come
le funzioni descrittiva e prescrittiva degli stereotipi di genere abbiano
contribuito, nel corso del tempo, a rafforzarli e a perpetuarli al punto da
essere considerati “insiti nell’ordine naturale delle cose” (Ruspini, 2003,
p.11). Le associazioni che vengono fatte tra il possedere determinate
qualità, caratteristiche o comportamenti e l’appartenere ad una data
categoria sono di tipo probabilistico ma spesso sono fallaci perché,
appunto, fondati su processi di pensiero euristici e non algoritmici.
Per comprendere meglio l’euristica della rappresentatività,
implementata negli stereotipi di genere, e la fallacia delle associazioni
probabilistiche su cui si fonda, Kahneman e Tversky (1971) hanno
proposto un esempio, noto come il problema di Linda:
“Linda, trentun anni, è single, molto intelligente e senza peli sulla
lingua. Si è laureata in filosofia. Da studentessa si è interessata molto ai
problemi della discriminazione e della giustizia sociale, e ha partecipato
anche a manifestazioni antinucleari.”
Dopo aver fornito questa descrizione di Linda, i due studiosi hanno
chiesto agli interlocutori a quale categoria associassero la figura di Linda
tra le seguenti:
a. una cassiera di banca
b. una cassiera di banca femminista.
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La maggior parte delle persone ha risposto indicando la seconda
opzione: la seconda ipotesi, dunque, risulta alla maggior parte degli
individui più probabile. Tuttavia, applicando effettivamente il
ragionamento probabilistico, si può notare che ciò è falso, in quanto la
probabilità che due eventi accadano contemporaneamente non può mai
essere maggiore della probabilità che ciascun evento accada
separatamente. Nel caso specifico, la risposta “cassiera di banca
femminista” ha una percentuale di probabilità sempre inferiore rispetto
alla risposta “cassiera di banca”. Applicando l’euristica della
rappresentatività, però, le persone tendono a dare un peso maggiore
all’informazione specifica relativa all’elemento da caratterizzare e a dare
meno peso, fino a trascurare del tutto, l’informazione statistica relativa
alla probabilità di base. Infatti, il dettaglio del femminismo risulta
coerente con l’immagine mentale di Linda e trae in inganno. Questo
paradosso viene definito da Kahneman e Tversky il meno è più: l’euristica
della rappresentatività fa sembrare più probabili descrizioni con più
caratteristiche (che sono, per definizione, meno probabili) perché si
avvicinano di più alla rappresentazione mentale di una tipologia di
individuo. Questo dimostra come l’adozione di euristiche, e dunque di
stereotipi di genere, è esposta al rischio di generare bias cognitivi, “errori
mentali”, distorsioni della realtà.
2.1.5 Reiterazione degli stereotipi di genere: creazione di
sottocategorie e auto-stereotipizzazione
Gli stereotipi di genere sono modelli rigidi e replicabili: nonostante
spesso conducano a valutazioni errate e distorte, proprio per via della loro
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natura probabilistica, sono particolarmente resistenti alla confutazione, e,
dunque, al cambiamento. Essi, infatti, non vengono abbandonati neanche
quando ci si trova di fronte ad una loro disconferma, in quanto ci si aspetta
che esista un’eccezione che confermi la regola. Nello specifico, se
l’eccezione diventa frequente, essa non va a smentire e disconfermare lo
stereotipo, bensì viene creato un sottotipo o una sottocategoria che ne
enfatizza uno specifico aspetto. Ad esempio, come evidenziato da una
ricerca condotta nel 2002 da Eckes, intitolata “Paternalistic and Envious
Gender Stereotypes: Testing Predictions from the Stereotype Content
Model”, le donne lesbiche, atlete, femministe, in carriera, poiché sono
percepite come aventi tratti più “agentic”, vengono inserite in sottogruppi
che violano la prescrizione di genere di essere emotive ed accoglienti e
sono stereotipizzate come competenti e fredde.
Gli stereotipi di genere vengono reiterati in maniera rigida ed
inflessibile anche a causa del meccanismo dell’auto-stereotipizzazione: gli
individui tendono interiorizzare, sin da quando sono piccoli, gli stereotipi
di genere e a definirsi e comportarsi in linea con le caratteristiche
prototipiche del proprio gruppo di appartenenza (Bem, 1891). Qui si
manifesta tutta la valenza prescrittiva degli stereotipi di genere: è proprio
tramite l’interiorizzazione di essi che questi vengono confermati,
perpetuando lo status quo.
Dunque, in conclusione, uomini e donne presentano certamente
delle differenze sul piano biologico, infatti i maschi della specie umana
sono, in media, più forti e più grandi delle femmine e, queste ultime, sono
fisicamente più vulnerabili, a causa delle gravidanze e dell’accudimento
di neonati e bambini (Ruspini, 2008), ma tale differenza biologica è stata
trasformata, nel corso degli anni, in differenza sociale e di ruoli, definendo
un diverso coinvolgimento dei due sessi nella sfera del lavoro familiare e
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delle attività produttive. Gli stereotipi di genere, tramite processi di
socializzazione e di auto-stereotipizzazione, si sono perpetuati nel corso
degli anni, tanto da fondare credenze profonde circa le effettive differenze
di personalità e di competenza che afferiscono ai due gruppi sociali.
2.2 Stereotipi di genere, ruoli sociali e scelte professionali
Secondo il modello teorico di Bem (1981), gli schemi di genere che
si vengono a creare nelle prime fasi dello sviluppo psicosociale
influenzano profondamente le scelte degli individui, tanto che parte di esse
vengono fatte proprio sulla base della loro congruità rispetto al genere di
appartenenza. Anche la scelta della propria occupazione professionale non
è esente dagli schemi di genere: come evidenziato dalla teoria del ruolo
sociale, proposta da Eagly e Wood (2011), i differenti ruoli sociali, svolti
da uomini e donne, si strutturano in base alle differenti credenze che le
persone hanno relativamente alle caratteristiche maschili e femminili di
personalità. Allo stesso tempo, la divisione delle attività lavorative sulla
base del genere ha contribuito, nel corso degli anni, a rafforzare gli
stereotipi.
2.2.1 Il Glass Slipper: l’allineamento simbolico tra identità sociale
e identità occupazionale
Nelle società occidentali, la maggiore partecipazione degli uomini
a posizioni di potere e status più elevati e l'assegnazione sproporzionata di
ruoli nutritivi alle donne hanno creato stereotipi che associano agli uomini
tratti “agentic” e tratti alle donne “communal”. A questi tratti, considerati
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tipicamente maschili o tipicamente femminili, sono state attribuite
competenze differenziate: le donne, avendo ricoperto tradizionalmente
ruoli attivi nella gestione della sfera privata della casa e della famiglia,
sono considerate competenti nelle relazioni e nei mestieri di cura; gli
uomini, avendo ricoperto spesso ruoli attivi nella sfera pubblica,
occupandosi di governo e di affari (Guttentag e Secord, 1983), sono
considerati competenti in ruoli in cui conta il potere, l’assertività, la
dominanza. Gli stereotipi di genere, secondo questa teoria, modellano
direttamente il comportamento dei singoli individui attraverso le
aspettative di ruolo, ossia l’insieme di caratteristiche e capacità che i
membri dovrebbero possedere per il semplice fatto di appartenere alla
categoria maschile o femminile. Le aspettative di ruolo connesse al genere
di appartenenza hanno, pertanto, un forte impatto sull’identità sociale del
singolo individuo, definita come “quella parte dell’immagine di sé che
ciascuno ricava dalla consapevolezza delle proprie appartenenze” (Tajfel,
1982). Ciascun individuo, infatti, pensa a sé stesso in parte considerando
le proprie specificità, vale a dire ciò che lo caratterizza e lo differenzia
dagli altri, e in parte considerando le proprie appartenenze, vale a dire
trasferendo su di sé le caratteristiche dei molteplici gruppi e categorie
sociali ai quali partecipa, ma anche dei ruoli che ricopre. Ashcraft sostiene
che tra identità sociale e identità occupazionale vi è una relazione
reciproca: “le persone traggono la propria identità dal lavoro” e “il lavoro
trae la propria identità dalle persone che lo svolgono”. In questo modo, le
occupazioni lavorative non sono considerate neutre, bensì, come sostiene
Ashcraft, “risultano naturalmente in possesso di alcune caratteristiche che
si adattano a certe persone ma sono improbabili per altri” (Ashcraft, 2013,
p.6).