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2.1 Aggr e ssività
L’aggressività è un comportamento complesso che viene nascosto dagli
individui in quanto è giudicato negativamente dalla società perché legato ad atti
e istinti violenti.
Per la sociologia l’aggressività deve essere considerata in base al tipo di
esperienza, vissuto o ambiente di cui ogni singolo individuo fa parte. Per
esempio, se un soggetto cresce in un ambiente dove l’aggressività è lecita e
attuata, sicuramente sarà più propenso a produrre istinti aggressivi.
Il termine aggressività deriva dal latino aggredior e oltre al significato di
aggredire, significa anche “cercare di ottenere”, “intraprendere”, ma anche
“andare verso”, (Caprara,1981), è una forma di comportamento volto allo scopo
di recare danno o ferire un altro essere vivente che è motivato a evitare tale
trattamento (Baron & Richardson, 1994).
L’aggressività è una reazione istintuale le cui dinamiche biologiche e
psicologiche hanno attenzionato e incuriosito molti autori, ad esempio Freud,
Lorenz, Dollard, Pavlov, Skinner.
Secondo Freud l’aggressività era necessaria per scaricare la tensione generata
dal non soddisfacimento di un bisogno; ma anche una pulsione di morte,
thanatos, che deve essere incanalata verso qualcosa e portata verso l’esterno per
non causare l’autodistruzione. (Freud,1920).
Mentre l’etologo Lorenz aveva individuato, negli animali predatori, energia
aggressiva che veniva liberata in funzione sia dello stimolo che la provocava sia
di quanta ne fosse accumulata. Il comportamento aggressivo nel regno animale
èunistintofondamentaleaifinidellasopravvivenzadellaspecie.(Lorenz,2008)
Dollard, invece, afferma che l’aggressività varia in proporzione diretta alla
quantità di frustrazione; infatti, secondo la teoria della frustrazione-aggressività:
“Un comportamento aggressivo presuppone sempre uno stato di frustrazione e,
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inversamente, l’esistenza di una frustrazione conduce sempre a qualche forma
di aggressività”. (Dollard et al., 1939).
Pavlov con i suoi studi sull’apprendimento, il Condizionamento Classico,
riesce ad individuare anche quelle che sono le risposte fisiologiche aggressive e
l’associazione di stimoli che possono scatenarle o inibirle. (Thoma et al.,2016)
Mentre Skinner ha una visione completamente differente sull’aggressività.
Egli vede due tipi di aggressività quella filogenetica e ontogenetica.
L’aggressività filogenetica è istintuale e finalizzata a far del male ma per la
propria sopravvivenza; quella ontogenetica invece, è utilizzata per far del male
in quanto rinforzato o previsto dalla società stessa. (Skinner,1971)
Nellesueformepiùestreme,l'aggressioneèunatragediaumanainsuperabile.
La ricerca sull'aggressività si concentra sulla scoperta di quali fattori
biologici, ambientali, psicologici e sociali influenzano il comportamento
aggressivo e su come utilizzare queste scoperte per ridurre l'aggressività
ingiustificata.
La violenza è “ogni costrizione di natura fisica o psicologica che provochi
danno, sofferenza o morte di un essere animato” (Héritier, 1996);
Il modello generale di aggressione (GAM) figura 2, permette di individuare
e conoscere i vari input che vengono elaborati, introiettati e possono portare
l’individuo ad avere comportamenti aggressivi o non. (Anderson &
Bushman,2002).
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A lungo termine questi stimoli rafforzeranno le strutture legate ai temi
riguardanti l’aggressività, come raffigurato nella figura 2, che identifica cinque
tipi di strutture legate all’aggressività. La creazione e l’automazione di queste
strutture e gli effetti di desensibilizzazione modificano la personalità
dell’individuo. Alcune ricerche hanno riportato come l’esposizione dei bambini
a determinati stimoli, come la violenza vista nei media o nei contesti familiari,
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comporterà l’acquisizione di questi stimoli tali da diventare degli adulti
aggressivi (Huesmann & Miller 1994, Patterson et al. 1992).
D’altronde la nostra cultura, basata sulla produzione e sul consumismo, non
valorizza la funzione di chi si occupa della crescita e dell’educazione dei
bambini. La permanenza a casa dal lavoro in maternità, ad esempio, non è affatto
incentivata (nonostante quello che ci hanno insegnato gli studi di psicologia
dello sviluppo), ed è noto quanto poco siano pagati e socialmente considerati gli
insegnanti e gli educatori (Baldoni 2001).
2.2 Diffe r e nz a di ge ne r e ne l figlic idio
Quando si parla di figlicidio, l’ipotesi comune è a sostegno che ciò sia
avvenuto per mano della madre. Questo perché i media tendono a focalizzare lo
scandalo delle donne aggressive ed assassine, contribuendo alla diffusione e
all’associazione dell’atto come un crimine commesso prevalentemente dalle
madri.
Il figlicidio in realtà può essere commesso sia dal padre che dalla madre.
L’età media delle madri che uccidono i figli è compresa tra i 20 e i 50 anni;
mentre i padri che commettono figlicidio hanno un’età compresa tra i 25 e i 35
anni (Resnick,1969).
I genitori figlicidi, secondo la ricerca condotta da Valença et al. (2011) non
hanno un adeguato sostegno sociale, solide capacità genitoriali, sono
psicologicamentefragiliperaffrontareifattoridistressintensichehannoportato
all’evento figlicida, spesso presentano gravi disturbi di personalità e possono
abusare di droghe o alcool.
Resnick (1969), riporta le diverse diagnosi individuate nelle relazioni sui casi
di figlicidio, notando come principalmente le madri soffrivano di schizofrenia,
mentre per i padri la diagnosi principale riscontrata era di tipo non psicotica.
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Uno studio di Kunz e Bahr (1996), ha individuato che le madri uccidono i
figli nella prima settimana di vita del neonato, mentre i padri uccidono i figli
quando sono più grandi ovvero dai 13 ai 18 anni d’età.
In quest’immagine (Resnick,1969) è possibile rilevare che la percentuale più
alta di figlicidi, nelle sue varie forme, avviene per mezzo della madre mentre il
padre ricopre solamente una piccola percentuale nelle varie forme tranne per
quelloaccidentale;questeformeverrannoapprofonditeneiparagrafisuccessivi.
2.2.1 F iglic idio pate rno
De Pasquali (2007) individua cinque dinamiche principali che possono
aiutare a comprendere le dinamiche che stanno alla base di questi atti orrendi
compiuti dal padre:
1. La malattia mentale, ovvero gravissime forme di depressione o
di schizofrenia possono alterare le funzioni mentali del soggetto tanto da
portarlo ad uccidere i figli. I soggetti che soffrono di schizofrenia hanno
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sintomi come interpretazione erronea della realtà, deliri persecutori e
allucinazioni di comando. Mentre i soggetti che soffrono di depressione
acuta, tendono a vedere tutto nero, sono molto negativi e pessimisti e
spesso uccidono i figli perché credono che non possano farcela senza di
lui.
2. Gli stati emotivi estremi, si tratta di situazioni cariche di stress
come, per esempio, il continuo litigio col figlio o con il partner, possono
toccare quella vulnerabilità che può innescare un omicidio.
3. I padri uccidono i figli per ritorsione, lo fanno per vendetta contro
la moglie e questo accade perché il padre utilizza il figlio come arma,
incapace di rispettarlo come una persona avente i propri diritti. Viene
individuata come la sindrome di Medea al maschile.
4. Il padre può uccidere il figlio a causa della tossicodipendenza.
Spessoifigliimpossibilitatiadusciredalcosiddetto“tunneldelladroga”,
usano violenza nei confronti dei genitori per avere del denaro che gli
permetta di comprare la droga.
5. L’omicidio compassionevole ( me rc y k illing) verso figli con
handicap fisici o psichici. Si tratta di azioni disperate compiute dai padri,
che non avendo nessun tipo di sostegno, uccidono il figlio perché col suo
handicap inizia ad essere un peso o un ostacolo nella vita del genitore.
Nonostante i pochi studi relativi al figlicidio paterno, si evince da questa
categorizzazione di De Pasquali che in realtà vi sono diverse categorie di
padri assassini che bisogna attenzionare soprattutto quando si presentano
sintomi psicopatologici gravi come il ritiro sociale, voci allucinatorie,
comportamenti violenti e mancanza di vitalità, o in caso di rottura coniugale
o separazione dalla moglie e dalla famiglia, questi potrebbero innescare una
serie di comportamenti che porterebbero il soggetto all’uccisione del figlio
comedispettocontrolamoglieoancoraadutilizzarlocomecaproespiatorio.
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Una ricerca condotta su 5 casi di figlicidio paterno, ha individuato che
gli uomini avevano mancanza di capacità genitoriali e meccanismi di coping
e un senso di inadeguatezza personale (Palermo, 2002). Altre ricerche
condotte da Resnick sullo stato mentale di soggetti cha hanno ucciso i propri
figli, individuano il 44% degli uomini con problemi psicotici mentre il 33%
con alte dosi depressive. Molti ricercatori invece riscontrarono anche psicosi
acuta o cronica durante l’omicidio, disturbo dell’umore, distimia,
schizofrenia, disturbi della personalità e tentato suicidio post omicidio.
(Bourget, 2007)
2.2.2 F iglic idio mate rno
Nel figlicidio materno invece, le cause che sono state identificate sono di
carattere psicosociale, l’esser il principale caregiver di riferimento, avere
conflitti con il partner o con i membri della famiglia, riscontrare dei problemi
di carattere finanziario, l’essere disoccupata, la mancanza di supporto
sociale, sono tutte cause che fanno in modo che il soggetto provi intensi
livelli di stress che si ripercuotono sullo stato emotivo e mentale, con episodi
di depressione acuta e psicosi.
Uno studio condotto da Lewis e Bunce (2003) ha evidenziato
caratteristiche comuni in queste donne con psicosi, ovvero culturalmente
molto istruite ma erano separate o divorziate e con maggiori probabilità di
abuso di sostanze, ricoveri psichiatrici e tentativi di suicidio.
Dare una classificazione del fenomeno è importante per comprendere
cosa può spingere una madre ad uccidere il proprio bambino. Lo psichiatra
Resnick (1969) si è occupato di studiare e di stilare una classificazione delle
motivazioni principali che spingessero la madre a commettere il figlicidio,
inoltre ha individuato che il periodo più a rischio per il minore è quello fino
ai primi sei mesi di vita.