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INTRODUZIONE
Nel presente elaborato si discute su di un tema molto attuale, il tema del
politicamente corretto, e della sua applicazione quotidiana non limitata più
esclusivamente al settore del marketing, ma insidiatasi sempre più anche in
piccoli gesti o enunciazioni che accompagnano la vita di ogni individuo.
L’elaborato si divide in tre parti - più precisamente le prime due teorico-
concettuali e l’ultima invece relativa al caso aziendale della Walt Disney
Company – la prima parte si propone dapprincipio di far addentrare il lettore
in materia di corporate communication, analizzando l’etimologia del termine
e spiegando quanto esso sia fondamentale per il successo di
un’organizzazione, sia mediante le sue azioni/enunciazioni sia mediante la
mancanza di quest’ultime; si illustrano poi i diversi modi di comunicare,
facendo una prima distinzione tra messaggi chiari e messaggi oscuri –
attuando confronti senza ricorrere esplicitamente alla pubblicità comparativa
- con i relativi esempi per citarne alcuni: Sfogliagrezza di Giovanni Rana, o
ancora gli spot pubblicitari lanciati dalla casa automobilistica Opel in cui si
sottolinea la qualità del prodotto senza direttamente confrontarsi ad altri brand
appartenenti al medesimo settore; tuttavia, si precisa che i messaggi non sono
esclusivamente verbali o visuali, poiché anche il comportamento dell’azienda
o del suo organico può trasmettere un messaggio relativo all’azienda stessa.
In un secondo momento si analizzano invece i concetti considerati cardini
della corporate communication, vale a dire la corporate personality, la
corporate identity, la corporate image e la conseguente reputation.
Il primo cardine esaminato è la corporate personality, la quale rappresenta il
fulcro delle caratteristiche durevoli e distintive di un’organizzazione, ritrae
dunque il modo in cui un’azienda opera – vale a dire ciò che l’azienda è
realmente –; il secondo cardine esaminato è la corporate identity, che indica
la natura immateriale dell’azienda, erroneamente ridotta all’identità visiva
della marca, successivamente invece associata ai valori e al comportamento
che l’azienda intende veicolare presso gli stakeholder/resource-holder,
avente dunque importanza fondamentale. I due concetti appena citati hanno
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in comune un fattore, sono entrambi al di sotto del totale controllo aziendale,
al contrario degli ultimi due cardini, vale a dire la corporate image termine
introdotto dagli studiosi a partire dagli anni ‘50 – strettamente connessa alla
corporate identity – e la corporate reputation da essa derivante. Proposta,
infatti, un’identità aziendale starà poi ai pubblici sviluppare quella che è la
propria percezione dell’azienda, vale a dire appunto la corporate image,
dipendente da una serie di fattori, tra cui l’esperienza personale, le emozioni,
i sentimenti e le impressioni, derivanti dall’impresa emergente. Come
affermato precedentemente i concetti di corporate identity e corporate image
dovrebbero convergere al fine di sviluppare una buona corporate reputation,
tuttavia non è sempre così, basti pensare alle aziende appartenenti ai brand di
lusso proclamatesi cruelty-free nel corso degli anni, che però ad oggi
svolgono ancora la sperimentazione animale per sviluppare cosmetici,
rendendo così dissonanti i concetti sopra indicati e facendo subire alla
reputazione aziendale un sostanziale calo. L’obiettivo finale della
comunicazione aziendale è volto all’ottimizzazione della corporate
reputation, affinché ciò accada la comunicazione deve seguire dei criteri
quali: trasparenza, autenticità, coerenza, distintività e visibilità; tuttavia, è
importante precisare che ad essi vanno aggiunti ulteriori criteri, vale a dire:
condotta aziendale, esperienza diretta degli stakeholder e infine ma non meno
importante la comunicazione dei terzi che al giorno d’oggi è sempre più
fondamentale; se tali criteri non sono rispettati si può incorrere in un errore
comunicativo come accaduto al marchio D&G che ha subito un improvviso
crollo di vendite, oltre all’estromissione dei propri prodotti nei negozi a
dettaglio e sulle piattaforme di e-commerce in Cina a seguito dello spot
lanciato nel 2018 accusato di ritrarre un’ immagine antica della Cina non
corrispondente più all’immagine attuale, episodio conclusosi poi con le scuse
di Domenico Dolce e Stefano Gabbana.
Nonostante come affermato precedentemente la reputazione sia conseguente
alla percezione dell’azienda da parte dei pubblici, occorre distinguere i due
concetti, image e reputation, troppo spesso utilizzati impropriamente; al
contrario della corporate image che può essere modellata rapidamente
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attraverso un buon programma comunicativo, la corporate reputation è molto
più profonda, essa rappresenta un giudizio di valore lungo un ampio corso
temporale fondato sull’esperienza dell’azienda, un errore comunicativo può
tuttavia minarle entrambe definitivamente, basti pensare al caso del Ratners
Group, il quale a seguito di un colossale strafalcione si è visto costretto a
chiudere, lasciando così evincere la crescente importanza assunta dai due
concetti sopra citati.
Le azioni di corporate communication, non sono mai svolte per caso, ma
sempre dettate da strategie di marketing ben precise e mirate, in rispetto del
continuo cambiamento di background; nella seconda parte dell’elaborato si
darà la definizione di marketing e si esaminerà l’evoluzione subita da
quest’ultimo nel corso degli anni, volgendo poi uno sguardo a come esso si
sia piegato alle dinamiche del “politically correct”. Una delle definizioni di
marketing più accreditate in campo economico è quella data da Philip Kotler,
il quale lo definisce come un “processo sociale” l’utilizzo del termine
processo non è lasciato al caso, il marketing, infatti, non è frutto di una singola
azione, ma di un insieme di azioni coordinate intraprese da un’azienda volte
al raggiungimento di un obiettivo finale; quest’ultimo come precedentemente
affermato ha subito una serie di evoluzioni nel tempo, andando a modificare
il target di riferimento. Si può infatti affermare che il marketing definito 1.0
era focalizzato alla vendita dei prodotti, nel suo primo avanzamento il
marketing 2.0 - in concomitanza all’avvento di internet - si nota una
variazione d’interesse, si passa infatti dalla mera vendita alla relazione, così
da spingere il cliente alla fidelizzazione; tuttavia, quest’ultimo lascia ben
presto spazio al marketing 3.0, volto ai valori, in questa fase il cliente non è
considerato come un semplice consumatore, ma come un individuo dotato di
mente, cuore e spirito. L’evoluzione della tecnologia e l’aumento di
connettività cambiano gradualmente gli assetti di potere, si passa così al
marketing 4.0, in cui il consumatore vuole di più, preferisce prodotti
personalizzati ed è consapevole del potere acquisito; con l’avvento del Covid-
19 la digitalizzazione ha subito un’inaspettata impennata dando così vita al
marketing 5.0, il quale riprende gli elementi di human centricity del marketing
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3.0 ed elementi digitali potenziati del marketing 4.0 dando vita ad
un’economia volta sempre più all’inclusività.
Il marketing classico appartenente alle evoluzioni 1.0 e 2.0 ha ricevuto
numerose critiche, tra le quali la scarsa considerazione verso il cliente
valutato unicamente ai fini dell’acquisto, tale pratica è risultata molto
infruttuosa nel corso degli anni, poiché non considera una parte che è
fondamentale per gli individui, vale a dire la loro emotività, cioè quel
processo inconscio che li avvolge e gli permette di vivere un’esperienza più
che un semplice acquisto; nasce così un nuovo tipo di marketing in
contrapposizione a quello precedente: il marketing esperienziale.
Il marketing esperienziale agisce mediante i SEM (acronimo di moduli
strategici esperienziali) ed è supportato dal marketing emozionale, il quale ha
l’obiettivo di indebolire qualsiasi resistenza psicologica mediante la
produzione di emozioni, coinvolgendo il cliente in un’esperienza totalizzante,
così da renderlo protagonista e conseguentemente indurlo all’acquisto di un
prodotto/servizio, un esempio può essere la Disney stessa, la quale ha da
sempre basato il suo marketing sull’emozione e sul senso di magia e felicità
provata da adulti e bambini all’entrata di un parco, di un punto vendita o
tramite la fruizione della piattaforma streaming; come precedentemente
affermato i perni su cui fa leva il marketing esperienziale, facenti parte dei
SEM, sono i moduli di: Sense, Feel, Think, Act e Relate. Ognuno di essi mira
ad un’esperienza diversa, il modulo del sense punta alla creazione di
un’esperienza sensoriale ne è un esempio l’azienda di cioccolato Richart, la
quale mira al soddisfacimento non solo del gusto ma anche di altri sensi quali
vista e olfatto; il modulo feel invece si rivolge alla parte più intrinseca
dell’individuo, mediante la creazione di esperienze affettive, esso raggiunge
la sua piena realizzazione attraverso il brand Coca-Cola; segue poi il modulo
del think, che mira alla creazione di esperienze cognitive, spingendo
l’individuo a differenziarsi dalla massa, è impossibile non far riferimento al
brand Apple che ha fatto del termine il suo payoff; il modulo dell’act punta
alla persuasione del cliente mediante esperienze corporee, spingendolo
appunto ad agire, ne sono esempi i brand sportivi come ad esempio Nike e
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infine il modulo relate che coniuga i precedenti moduli, con lo scopo di
rafforzare le relazioni degli individui aventi aspirazioni e interessi comuni,
brand emblema di questo modulo è la Harley Davidson. Come
precedentemente affermato il marketing volge lo sguardo sempre più verso
un mondo inclusivo e lo fa utilizzando le strategie appena citate, le quali fanno
leva sul coinvolgimento emotivo; si pone dunque l’attenzione sul modo in cui
l’inclusività, proposta dal fenomeno del politicamente corretto, abbia
influenzato dapprima l’ambiente circostante e conseguentemente le
pubblicità e il mondo del marketing in generale. L’espressione anglosassone
“politically correct” è nata come un orientamento ideologico che mostra
estremo rispetto verso tutti evitando potenziali offese, ma al giorno d’oggi
appare come un’ideologia più interessata alla forma utilizzata che al
contenuto delle argomentazioni che muovono un dibattito; le vittime mietute
nel corso degli anni sono state molteplici, ne sono un esempio aziende del
calibro della Walt Disney Company – che inserisce incessantemente nuove
etichette sulla sua piattaforma streaming - , o termini sino ad oggi utilizzati
ingenuamente nel settore beauty come “capelli normali”, “pelli grasse” etc
considerati oggi offensivi. Il fenomeno del politicamente corretto non mira
unicamente alla creazione di un nuovo mondo inclusivo, ma anche alla
cancellazione di ciò che è stato fino ad oggi mediante la riscrittura e la
rimozione di determinati personaggi – Hercule Poirot, Miss Marple - o di
statue risalenti alle Guerre di Secessione americana, è dunque opportuno un
riferimento alla pratica della damnatio memoriae di cui parla Orwell nel suo
1984; i brand che sottolineano i loro valori inclusivi sono sempre più
numerosi, soprattutto per evitare eventuali accuse, basti pensare alla Mattel,
azienda creatrice della famosa Barbie, o ancora alla Barilla, entrambe finite
nel mirino del politicamente corretto per essersi mostrati poco inclusivi; ed
ecco che anche aziende da sempre esclusive come Victoria’s Secret, celebre
brand di lingerie - a seguito di un vertiginoso calo di vendite - piegano il capo
dinanzi alla nuova ideologia, nata paradossalmente per aumentare il rispetto
ed eliminare le diversità che però rischia di sfociare in una sorta di dittatura
velata o come lo definiscono alcuni “totalitarismo light”. Si giunge così
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all’ultima parte dell’elaborato, totalmente fondato sulla Walt Disney
Company, dapprima se ne danno i cenni storici, così da capire la realtà
socioculturale vissuta dal suo creatore Walter Disney, raccontando la nascita
dell’impero che noi tutti oggi conosciamo, non dimenticando che, come ogni
grande protagonista, è stato coinvolto in numerosi “scandali” dovuti
principalmente al cambiamento di sensibilità che va evolvendosi giorno dopo
giorno. Tali scandali hanno portato questo grande impero che è la Disney alla
continua ricerca di un’immagine inclusiva, dapprima mediante etichette e in
seguito vietando i suoi stessi cartoni animati al pubblico per i quali questi
erano destinati: i bambini.
Si farà poi riferimento a quanto accaduto recentemente nello Stato della
Florida – Stato fortemente dipendente dalla Walt Disney Company sotto il
profilo economico - a seguito dell’emanazione della legge conosciuta come
“Don’t say gay” e di quanto in questa circostanza, nonostante la
proclamazione di valori volti all’inclusività, la compagnia si sia mostrata
mancante. Analizzata quindi, quella che è la storia dell’impresa sino ai giorni
nostri si farà riferimento all’evento che ha suscitato grande scalpore, il remake
live action de La Sirenetta avente come protagonista l’attrice di colore Halle
Bailey; naturalmente prima di cimentarsi nell’analisi del lungometraggio,
occorre fare un piccolo excursus partendo dalla fiaba di Hans Christian
Andersen, mostrandone dunque divergenze e concordanze con il cartone
animato del 1989, il quale trae un semplice spunto dalla fiaba originaria,
adattando la storia diversamente e conformemente al proprio target –
eliminando la parte cruenta della fiaba e ponendo in primo piano l’amore di
Ariel verso il suo principe Eric, il tutto concluso dal classico happy ending
disneyano - così come già accaduto per altri cartoni animati come ad esempio
Biancaneve. Il presente studio si pone come obiettivo di dimostrare come
primo punto se la scelta di ingaggiare un’attrice dalle caratteristiche così
diverse dalla classica Ariel dai capelli rossi a cui tutti siamo abituati,
intrapresa dalla Walt Disney Company, sia stata percepita dal pubblico come
un’azione di marketing o come una scelta intrapresa per sottolineare
ulteriormente i valori inclusivi dell’azienda; il secondo obiettivo che lo studio
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si pone è invece quello di dimostrare che i commenti di dissenso legati alla
protagonista, non sono imputabili a ragioni di tipo razziale, ma
esclusivamente alla discrepanza estetica con il cartone originale. Tali analisi
verranno eseguite sia su scala nazionale, mediante l’analisi delle risposte
effettuata a seguito della compilazione di un apposito questionario, che su
scala internazionale, mediante l’analisi dei commenti degli utenti pubblicati
su Twitter all’uscita del trailer di The Little Mermaid il 13 marzo.
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CAPITOLO I
CORPORATE COMMUNICATION: I VOLTI DELL’IMMAGINE
AZIENDALE
1.1 INTRODUZIONE ALLA CORPORATE COMMUNICATION
Il presente paragrafo si pone come scopo di far addentrare in maniera
graduale, il lettore all’interno del concetto di corporate communication,
fornendone inizialmente la definizione accademica, esplicando in seguito in
che modo, dunque, è possibile nel concreto comunicare - mediante diverse
tipologie di messaggi - e conseguentemente introducendo i pilastri cardini sui
quali si fonda la corporate communication.
Il termine corporate si riferisce all’organizzazione, l’azienda, dunque con
l’espressione corporate communication ci si riferisce alla comunicazione
aziendale, la quale, ha per oggetto:”La totalità delle attività e dei flussi di
comunicazione aziendale che un’organizzazione mette in atto e sviluppa per
raggiungere i suoi obiettivi.”
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Si può quindi affermare che essa racchiuda
comunicazioni pianificate ed emergenti, intenzionali e non intenzionali, off-
line e on-line, che l’azienda rivolge al pubblico sia interno che esterno per
accrescere e fortificare le sue risorse e la sua competitività.
Tale attività è svolta (se pur inconsapevolmente) da tutti i tipi di
organizzazione (organizzazione for-profit, organizzazione non-profit e
Pubblica Amministrazione) è rivolta al contempo agli stakeholder, portatori
di interessi, e ai resource-holder, portatori di risorse. L’affermazione fatta
precedentemente “seppur inconsapevolmente” ci riporta a quanto citato nella
Pragmatica della comunicazione umana:
“è impossibile non comunicare: qualsiasi interazione umana è una forma di
comunicazione … non è possibile non avere un comportamento… ne
1
Siano A., Vollero A., Siglioccolo M., Corporate communication management, Accrescere
la reputazione per attrarre risorse, G. Giappichelli editore, 2015, Torino, pag.4.
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consegue che non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o
il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri”.
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Ne consegue che non occorre necessariamente dire o fare qualcosa, in quanto
anche il non dire o il non fare avrà un effetto sull’interlocutore e comunicherà
ugualmente il punto di vista dell’organizzazione. Comunicare, dunque, vuol
dire trasmettere un messaggio a qualcuno: la scelta del destinatario, la scelta
del messaggio, la scelta del mezzo con il quale effettuare la trasmissione, sono
tutti componenti di quella che possiamo definire strategia globale di
comunicazione.
Un aspetto sul quale vale la pena soffermarsi riguarda le caratteristiche dei
messaggi pubblicitari – che possono essere trasmessi sia tra un interlocutore
ed un altro che tra un interlocutore, in questo caso l’impresa, e i suoi
stakeholders - questi infatti, possono essere costituiti da un insieme di parole
o da frasi strutturate opportunamente secondo le normali regole grammaticali
e sintattiche. Tali costruzioni spesso si basano anche sul “non detto…ma
lasciato intendere” non ricorrendo quindi esplicitamente alla cosiddetta
pubblicità compartiva , si ricordi ad esempio una serie di spot lanciati da Opel
nel 2014 (fig.1) aventi come testimonial la modella tedesca Claudia Schiffer,
la quale, al termine di ciascuno di essi, esclamava (riferendosi all’auto): “È
una tedesca!” lasciando intendere appunto implicitamente che i prodotti
tedeschi siano i più affidabili sul mercato; o ancora lo spot pubblicitario di
Sfogliagrezza di Giovanni Rana del 2013 (fig.2), il quale alla fine esordisce
dicendo: “Si sente che è Rana” lasciando appunto intendere la qualità e la
differenza dei suoi prodotti.
2
Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatica della comunicazione umana,
Astrolabio editore, Roma, 1971, pagg.41-42.