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Capitolo 2
La politica monetaria prima della unificazione europea
1 La politica monetaria italiana negli anni’80 e’90
Il 16 settembre 1992 vide l’Italia- vinta dalle pressioni speculative, dall’assenza di un efficace
coordinamento tra i partner comunitari, dai ritardi della politica economica- sospendere la
partecipazione della lira agli Accordi europei di cambio. A tre anni da questa non fausta
ricorrenza, è opportuno tentare una riflessione sui mutamenti strutturali avutisi dopo quel
cruciale passaggio della recente storia economica del nostro Paese. L’ambito di una simile
riflessione appare, tuttavia, estremamente vasto, procedendo dal terreno finanziario a quello
economico, dall’attività bancaria alla politica monetaria. Seguendo un approccio da tempo
consolidato (Tinbergen 1952), si articolerà l’analisi per obiettivi e strumenti. Ciononostante, la
revisione non sarà breve, soprattutto perché il modus operandi della politica monetaria negli anni
’80 e ’90 si è trasformato radicalmente. Il rapporto tra strumenti e obiettivi rappresenta il cuore
della politica monetaria, come di ogni altra politica. Su mercati complessi e globalizzati il
percorso tra le leve operative e gli obiettivi viene reso più ampio e incerto da molteplici fattori:
shock inattesi, imperfezioni informative e ritardi di trasmissione, incoerenze temporali e
interdipendenze strategiche. Certis paribus, la rimozione dell’ancora intermedi costituita dalla
partecipazione della lira allo SME ha reso la navigazione tra strumenti e obiettivi meno facile e,
inevitabilmente, meno trasparente. Il confronto con la fluttuazione controllata tende, tuttavia, a
spostare l’enfasi, nell’analisi della politica monetaria, dal legame strumenti-obiettivi al nodo
centrale del compito della banca centrale, al suo assetto strutturale, alla sua cornice istituzionale.
In questo senso, la sospensione della partecipazione della lira ai meccanismi dello SME ha reso
più evidenti le manchevolezze o le anomalie della situazione italiana. A differenza della
Costituzione germanica che affida alla banca centrale il compito di << rendere sicura la
moneta>>, la costituzione repubblicana, che pure ha tanti pregi, recita all’art. 47 che << La
Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla
l’esercizio del credito>>. Non solo non è indicato qual è l’organo deputato a tali bisogni, ma
non è nemmeno ictu oculi chiaro se la tutela del risparmio è da intendersi limitata all’espressione
nominale o al valore reale. È solo col Trattato di Maastricht sull’Unione Economica e Monetaria
che vengono affrontati anche dal Parlamento italiano, che con gli altri Parlamenti nazionali e con
quello Europeo è stato chiamato ad approvarlo, i fondamentali problemi di quale obiettivo debba
perseguirsi nel governo della moneta e chi ne abbia la responsabilità. Perciò, la ratifica del
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Trattato di Maastricht e la preparazione per entrare un giorno nell’Unione Monetaria hanno
rilanciato il processo mirante ad affermare anche nel nostro Paese il ruolo della banca centrale
come autorità indipendente, responsabile verso la pubblica opinione (accountable), impegnata
nella ricerca della stabilità (Padoa-Schioppa 1995). Una stabilità da ricercarsi, in primo luogo,
nella riduzione dell’incertezza circa il valore presente e futuro della moneta, del suo prezzo in
termini di altre valute (cambio), di beni (inflazione), di sé stessa (tasso d’interesse). Così
interpretando o, meglio, costruendo la nostra costituzione monetaria, la tutela del risparmio
acquista un significato ben più preciso e pregnante voluta dalla carta fondamentale della
Repubblica Italiana. Non si può far meno di rilevare, tuttavia, che quella citata è
un’interpretazione autorevole, ma basata su un modo di sentire e affrontare le responsabilità della
banca centrale, perciò su una prassi, e non su una norma.
2 Gli obiettivi
1 Il cambio
Tra il 1979 e il 1992 l’Italia ha aderito agli accordi europei di cambio. In quei tredici anni
l’ancoraggio della lira – ancorché modulato da una successione di sette riallineamenti della parità
contro ECU di cui cinque prima del 1987 – ha svolto la funzione di obiettivo intermedio nei
confronti dell’obiettivo finale del rientro dell’inflazione. Movendo dalle punte di oltre il 20
percento toccate all’inizio degli anni ’80, il saggio annuo di incremento dei prezzi al consumo si
è progressivamente ridimensionato per raggiungere il 6 per cento già nel 1986 e stabilizzarsi
nell’intorno del 5 nel 1992. Anche se esistono voci dissenzienti (Frattini e von Hagen 1990), si
registra un vasto consenso (CER1995, Visco 1995, Padoa—Schioppa 1995) circa il ruolo
importante svolto dalla semi-fissità del cambio quale veicolo intermedio per disciplinare le attese
del mercato e per avviare un lento processo di accumulazione di reputazione anti-inflazionistica
a vantaggio dei responsabili della politica economica. Un riscontro di questa fase di
stabilizzazione è offerto dal dimezzamento del differenziale tra i tassi sui titoli governativi a
lungo termine italiani e tedeschi, sceso dal 10 per cento dei primi anni ’80 al 5-6 nel periodo
1987-91. L’ ancoraggio del cambio divenne ancor più credibile per l’assenza di riallineamenti
durante un quinquennio, per il restringimento della banca di oscillazione della lira al 2,25 per
cento e per la piena liberalizzazione del movimento dei capitali. Se si aggiunge che la politica
monetaria sostenne la stabilità della relazione di cambio nominale, si comprende come
l’approvazione del Trattato di Maastricht abbia potuto generare l’illusione che quest’ultima
avrebbe condotto in breve all’Unione monetaria.
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La maggiore inflazione italiana richiedeva il mantenimento di più alti tassi di interesse che
finivano col richiamare ingenti capitali a breve, pronti a lucrare un differenziale di rendimento
non compensato da un rischio di perdita in conto cambio. Ciò si traduceva in un’accumulazione
di riserve valutarie e talvolta in una pressione al ribasso sui tassi a breve, non coerente con la
lotta all’inflazione senza aggravare, almeno per qualche tempo, l’afflusso di capitali. Se si fosse
rivalutato il cambio, si sarebbe peggiorata ancor più la bilancia delle partite correnti e si
sarebbero svantaggiate le esportazioni italiane che già soffrivano per l’apprezzamento del
cambio reale. Ne segue la conclusione classica: per essere efficace la politica monetaria in una
situazione di alta e cronica inflazione deve imporre costi socialmente molto elevati, che è difficile
far pagare specialmente quando il mandato ad assicurare la stabilità della moneta è incerto o
assente; oppure deve essere coadiuvata da una politica di bilancio e da una politica dei redditi
coerente. Queste ultime tardarono a materializzarsi e si ebbe il Mercoledì Nero del settembre
1992. Anche se il cambio non si rilevò essere il punto fermo in grado di permettere da solo un
completo e irreversibile cambio di regime monetario, l’ancoraggio a esso modificò in qualche
misura il comportamento degli agenti economici e diede alla Banca Centrale la possibilità di
assicurare in una particolare eccezione la stabilità monetaria. Poiché il cambio è uno dei prezzi
della moneta, esso può essere considerato una sorta di obiettivo quasi-finale, oltre un obiettivo
intermedio rispetto all’inflazione, a combatterla è chiamata la Banca Centrale che emette la
valuta di riferimento se si versa nell’ipotesi di un’unione monetaria (Sarcinelli 1985).
Paradossalmente, il venir meno del vincolo valutario servì a completare la svolta
antinflazionistica: alla deindicizzazione dei salari portata a compimento del luglio 1992 si
aggiunse, sempre ad opera del Governo Amato, l’agognato avanzo primario nei conti pubblici.
La realizzazione di una “staffetta virtuosa” tra l’impegno a difendere l’obiettivo di cambio e
l’avvio di una sana e solida politica dei redditi ha contribuito non poco a mitigare, nel periodo
successivo al 1992, gli effetti perniciosi dell’abbandono dell’ancora della SME. Ugualmente
determinante nel trattenere i rimbalzi inflazionistici dello sganciamento della lira può dirsi il
concorso della fase di recessione sperimentale in Italia, come pure nell’Europa continentale, nel
biennio 1992-93. Nel nostro Paese il periodo successivo all’uscita dagli accordi europei di
cambio ci ha consegnato i risultati di inflazione più bassi degli ultimi 25 anni: 4,5 per cento nel
1993, 3,9 per cento nel 1994. Questi risultati appaiano assai positivi se si considera che, nello
stesso biennio, la lira ha accusato un deprezzamento dell’ordine del 25 per cento nei confronti
del marco come pure della media ponderata tra le valute dei principali Paesi con i quali si hanno
importanti relazioni commerciali. Molto incauto, sulla base di questi elementari riscontri,
sarebbe inferire spunti circa la possibile diluizione dei rischi inflazionistici di una protratta
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svalutazione. Al contrario, l’apparente paradosso del biennio 1993-94 – inflazione che scende,
lira in continua caduta – induce a riflettere sui margini di ulteriore decelerazione dei prezzi al
consumo che la sopravvivenza dell’impegno a difendere l’obiettivo di cambio avrebbe potuto
dischiudere a parità di altre condizioni. In un esercito “controfattuale” alcuni studiosi (Locarno
e Rossi 1995) sono giunti ad affermare che, se il cambio della lira fosse rimasto costante dal
terzo trimestre 1992 alla fine del 1993, in quell’anno l’inflazione in Italia si sarebbe praticamente
annullata. L’instabilità della valuta, pertanto, rappresenta un costo per il benessere del Paese.
Allo stesso modo, l’assenza di un ancoraggio formale del cambio non è irrilevante per
un’economia caratterizzata da un’elevata apertura sull’estero. Il punto di rilievo per la politica
monetaria è, tuttavia, un altro. Come la crisi del 1992 aiuta a comprendere, un ruolo isolato del
cambio come obiettivo non è sostenibile. La lira fu costretta a uscire dallo SME nel momento in
cui divenne impossibile protrarre una situazione in cui la rigidità del vincolo valutario suppliva
all’orientamento non stabilizzante o insufficientemente tale di importanti determinati del
processo inflazionistico. I progressi consolidati – ma non certo irreversibili – sul fronte della
politica dei redditi potrebbero ora permettere di guardare con minor scetticismo a una futura
rivitalizzazione del cambio quale obiettivo della politica monetaria in Italia, a patto che non
venga meno l’azione di risanamento nelle dinamiche dei conti pubblici, il cui miglioramento è
oggi palese. Ripristinare in maniera credibile una forma di ancoraggio della lira richiederebbe,
oltre al rispetto delle descritte condizioni interne, la realizzazione a livello comunitario di un
miglior coordinamento tra le politiche monetarie ed economiche. Tuttavia, sarebbe illusorio
ancora una volta ripetere, o peggio pretendere, che quest’ultimo possa essere chiamato a
compensare le deficienze che si dovessero riscontrare nelle prime. Solo in questi termini, in un
contesto di coordinamento tra più obiettivi intermedi (cambio, tasso di variazione dei redditi,
disavanzo pubblico) e di migliore cooperazione sovrannazionale, lo scenario di un futuro rientro
della lira nello SME potrebbe durevolmente servire a rinsaldare il recupero del cambio come
vincolo, ridurre le attese di inflazione e agevolare il rientro dei differenziali dei tassi di interesse.
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2 La Moneta
Nel passaggio da un regime di cambi semi-rigidi a quello di libera fluttuazione della lira un
elemento di continuità nella condotta della banca centrale è stato rappresentato dall’indicazione
di valori obiettivo per la crescita della massa monetaria, l’aggregato M2. A un primo esame
questo comune denominatore tra la situazione antecedente e quella successiva all’uscita dallo
SME potrebbe suscitare perplessità soprattutto in relazione alla difficile convivenza tra obiettivo
monetario e àncora valutaria nel periodo di partecipazione agli Accordi europei di cambio. In un
sistema a cambi semi-fissi la crescita della moneta diviene largamente endogena e, quindi,
difficilmente controllabile tenendo conto dei costi, in termini di eccessiva variabilità dei tassi di
interesse, di una puntuale e continua opera di sterilizzazione delle variazioni della base monetaria
estera. Su questa linea, è stato lucidamente osservato (Spaventa 1995) come tra il 1988 e il 1991
la politica monetaria italiana abbia proceduto con un obiettivo intermedio e mezzo: il cambio e,
condizionatamente a esso, la moneta. È vero che ex ante si possono sempre definire valori della
moneta coerenti con dati obiettivi di cambio, ma è dubbio che l’indicazione di un obiettivo che
tale non è aiuti a comprendere l’intelaiatura della politica monetaria che la Banca Centrale
intende perseguire. La trasparenza sulla quale si fa tanto affidamento non ne viene accresciuta.
Il riscontro di un simile schema di interpretazione è avvalorato dalla “prestazione” non proprio
brillante realizzata dall’obiettivo monera nel periodo compreso tra il 1988 e il 1991: nel
quadriennio la crescita di M2 si collocò una sola volta all’interno della fascia obiettivo, anche se
in vari anni se ne discostò di poco. Forse, gli obiettivi non furono sufficientemente ambiziosi;
forse, l’ampiezza dell’intervallo rimase inalterata per lunghi periodi, senza tener conto dei
risultati conseguiti di anno in anno.