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I. INTRODUZIONE
La motivazione che mi ha spinto nella scelta di un tema che può apparire per
certi versi inconsueto, nel suo essere comunque ampio e dunque potenzialmente
dispersivo, non è univoca: dapprima sono stato umanamente ed artisticamente
incuriosito dall’inedito approccio alla scrittura pianistica di Kapustin, affascinato
com’ero dalle sue scelte stilistiche da un lato così radicali ed anticonformiste, ma
dall’altro così sommesse e zelanti, come si avrà modo di approfondire.
Di qui la scoperta dei preludi op. 53, grazie all’ascolto della sua discografia,
progressivamente rimpinguata ed arricchita da un numero sempre crescente di
interpreti che vi si accostano.
Successivamente, però, l’interrogativo che spontaneamente è sorto in me non
poteva non concernere le radici squisitamente pianistiche della scuola, quella russa,
nella quale Kapustin ha mosso i primi importantissimi passi, e di cui non ha mai
rinnegato le origini, tentando di affrancarvisi.
Ecco dunque che il pensiero si muove spontaneamente verso gli altri due
“giganti” russi ormai consegnati alla Storia – Rachmaninov e Scriabin – che hanno
fatto dei preludi il pezzo forte del proprio catalogo destinato agli interpreti del
pianoforte.
Così si è corroborato il proposito di indagare, a partire da un excursus storico
sul preludio, la maniera in cui i tre autori sopracitati hanno inteso e declinato questo
genere, arrivando - anche grazie al prezioso apporto di Chopin e Debussy - a
consacrarne definitivamente ed irrevocabilmente l’indipendenza e la dignità, grazie
all’autonomia formale.
Infine, la scelta di un ulteriore “collante” è ricaduta sulla provenienza
geografica che accomuna i tre compositori, nella misura in cui si cercherà di far luce
su come, in una terra sottoposta a drastici cambiamenti storico-sociali nel corso del
XX secolo, tutti e tre abbiano saputo trovare una strada autonoma e quanto più
affrancata dai vincoli culturali e politici, conformemente a quella dimensione di
assoluta libertà – interiore ed espressiva - cui ogni artista degno di tale nome dovrebbe
assurgere.
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I. EVOLUZIONE DEL PRELUDIO
1. Etimologia e carenza di fonti letterarie
Il termine preludio, dal latino medievale praeludium, derivato del
latino praeludere, indica, nel senso più ampio del termine, una breve parte
introduttiva collocata all’inizio dell’esecuzione di una certa composizione
musicale – in genere senza forma codificata - ma le modalità di impiego, gli aspetti
stilistici e formali, e il senso stesso del preludio sono mutati costantemente nel
corso dei secoli.
Volendo brevemente ripercorrere - sotto il profilo storico – l’evoluzione
dell’utilizzo del termine preludio rispetto alle svariate forme compositive cui è stato
accostato, va tenuto presente che il preludio è stato per molto tempo una pratica
improvvisativa, ma, a differenza di altre prassi ugualmente diffuse, come basso
continuo, abbellimenti, e cadenze, rappresenta il terreno di indagine che, fra tutti, meno
è stato approfondito dalla storiografia, sebbene, al pari degli altri, racchiuda e conservi
tutta una serie di abituali regole cristallizzate dalla prassi.
La motivazione di questa carenza di fonti letterarie, che ne illustrino le prassi
esecutive, è probabilmente da rinvenire nel fatto che, da un certo punto in poi, si iniziò
a mettere i preludi per iscritto, cosa che non avvenne per le altre pratiche.
2. Dall’antichità al Seicento
Il preludio compare a partire sin dai greci, dove era di frequente usato dai
cantori, gli aedi, per trovare l’intonazione, e analogamente nella pratica cristiana,
laddove il canto religioso era avviato con l’ausilio dell’organo.
Ma l’utilizzo del termine, nell’accezione moderna, va precisandosi nei
secoli XVI e XVII.
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Nel cinquecento il preludio era un componimento strumentale – e, più
precisamente, organistico – in forma libera, se non spesso a carattere completamente
estemporaneo ed improvvisativo, svolto su elementi del cantico sacro che ci si
apprestava ad eseguire immediatamente dopo.
Si pensa che, verosimilmente, la prassi esecutiva dei preludi fosse dettata dalla
naturale esigenza del musicista di prepararsi tecnicamente, di “riscaldarsi”, con
qualcosa di simile ad un esercizio tecnico, per poi passare al vero repertorio, fornendo
già, allo stesso tempo, una collocazione armonica di ciò che sarebbe stato ascoltato.
La pratica di precedere – introducendolo – il componimento vero e proprio si
allargò, in seguito, non solo a tutti gli strumenti a tastiera ed al liuto, ma anche nella
liturgia protestante, in apertura dei corali, oltre che in ambito profano, come ad
esempio nel contesto operistico, dove, pur senza assumere la forma della ouverture o
della sinfonia, il brano doveva garantire sufficiente autonomia formale.
Dalla toccata iniziale dell’Orfeo di C. Monteverdi del 1607, passando per
Donizetti, Verdi e Bizet, il preludio sarà impiegato fino a Wagner.
L’esempio del Preludio in Do maggiore del I volume del Clavicembalo ben
Temperato rappresenta un plastico esempio dei caratteri appena descritti, poiché nel
moto oscillante del semplice arpeggio spezzato e alternato fra le due mani risiedono:
la matrice introduttiva e preparatoria, laddove il brano preannuncia già
il contesto armonico nel quale si muove la fuga;
il riscaldamento tecnico, proprio appunto dell’arpeggio;
la matrice chiaramente improvvisativa, laddove il brano è frutto solo
della frammentazione di accordi che si susseguono.
Dal XVII sec. in poi, i musicisti barocchi iniziarono a mettere su carta i propri
preludi e a implementarli nelle loro raccolte di brani come suite e toccate, oppure
associandoli alle fughe; così, anche gli editori cominciarono a pubblicarli nelle
raccolte a stampa, consegnandoli agli interpreti coevi e non.
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3. Il persistere della prassi improvvisativa del Settecento
Nel settecento vi fu poi una breve parentesi, quella del periodo classico, quando
- fatte salve le eccezioni di Clementi e Hummel, i quali continuarono ad associare
l’idea di preludio all’esercizio tecnico per tastiera - i tre grandi della scuola di Vienna
(Haydn, Mozart, Beethoven) lasciarono momentaneamente nel dimenticatoio la forma
del preludio, dedicandosi principalmente a comporre in forma Sonata.
Tuttavia, non bisogna pensare che la prassi di improvvisare i preludi, pur senza
scriverli, si sia interrotta bruscamente, perché, nella trattatistica dell’epoca, i termini
con cui vi si fa riferimento - “preludio”, ma anche “capriccio” o “fantasia”, prima che
se ne formalizzasse una rigorosa distinzione – continuano a comparire fino a Carl
Philipp Emanuel Bach, nel XIX secolo, alludendo a quelle forme di brani più o meno
brevi che anticipavano l’esecuzione vera e propria del brano, presentandone già i tratti
melodici, ma soprattutto armonici. Nel trattato di “Metodo per clavicambalo” del
1812, redatto dal milanese Francesco Pollini, vengono proprio elencati e spiegati i
principali “Giri d’Armonia”, come l’autore stesso li nominava.
A questa prassi consolidata fa riferimento anche Czerny, ne “L’arte di
improvvisare”:
“Un pianista darà prova di buon gusto, specialmente nell'esecuzione di un
pezzo assolo in una sala privata, se non comincerà subito col medesimo, ma si
proverà dapprima con un preludio, che gli serve a preparare gli uditori, e nel tempo
stesso ad assicurarsi delle qualità dello strumento, che d'ordinario gli è straniero”
Non è da escludere che il rafforzamento di questa tendenza, avvalorato anche
dalle testimonianze citate, sia da rinvenire nella diffusione a mezzo stampa di tutti i
preludi scritti fino a quel momento, che potrebbero poi aver indotto gli interpreti ad
improvvisare sulla scorta di quei modelli già creati, nonostante per i preludi si trattasse
di un periodo poco florido quanto a produzione compositiva vera e propria.
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Molteplici sono dunque i riscontri nella letteratura che attestano come l'abilità
di improvvisare un preludio, fosse indispensabile nel bagaglio culturale di un qualsiasi
strumentista: oltre quelli già menzionati, i numerosi trattati del Settecento e
dell’Ottocento riferiscono direttamente sulle strategie migliori da adottare
nell’improvvisare estemporaneamente un brano, anche solo sulla scorta della basilare
conoscenza della scala di riferimento e di pochi altri rudimenti dell’armonia, così come
per un basso continuo: a partire da un esiguo materiale musicale (come un frammento
di scala diatonica) si suggerivano, ad esempio, processi imitativi alla quarta o alla
quinta inferiore, come nel processo di costruzione delle Fughe, nonché progressioni
armoniche precostituite e reiterate al basso e la segmentazione degli accordi in arpeggi
spezzati.
L’ampia produzione trattatistica, destinata a un pubblico di interpreti variegato
in termini di preparazione richiesta, porta inoltre a presumere che la consuetudine del
“preludiare” fosse motivo di apprezzamento a tutti i livelli, tanto tra i concertisti quanto
tra gli allievi alle prime armi, per cui venivano redatti trattati appositi, congrui al loro
livello.
Il carattere estemporaneo e improvvisativo è quello che però faceva da collante,
prescindendo dalle capacità di partenza, non solo perché è acclarato nei vari trattati,
ma anche per il tipo di scrittura - spesso quasi aleatoria o stenografica – con la quale,
talvolta, i compositori si prendevano la briga di confezionare appositamente le idee
per l’introduzione ad un certo brano, senza lasciare completamente carta bianca
all’interprete.
Inoltre, è interessante sottolineare come il carattere non premeditato dei preludi
- che spesso si trasformavano in veri e propri primi tempi di suite - offrisse “diritto di
cittadinanza” ad una fantasiosa varietà armonica, ma soprattutto ritmica, che è
l’opposto diametrale rispetto a tutto ciò che di caratterizzante c’era invece nelle forme
compositive premeditate, più ordinate e geometriche, come la forma sonata, connotata
da una maggiore precisione, direzionalità e - dunque - prevedibilità.
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Al contrario, pare che la diffusa propensione del tempo, nell’improvvisare
preludi, capricci o fantasie, fosse quella di mettere in secondo piano il tactus, optando
per una maggiore libertà agogica, e questa convenzione pare anche che stesse
propagandosi in altri ambiti estranei all’improvvisazione, come documentato dal
seguente estratto dal Méthode de piano du conservatoire di Jean Louis Adam (1804).
“Vi è una classe di persone che hanno preteso di introdurre l’uso di non più
suonare in tempo e di eseguire qualunque composizione come se fosse di fantasia,
preludio ο capriccio. Si figurano costoro di dare una maggiore espressione ad un
pezzo di musica, mentre non fanno che alterarlo in tal modo da non riconoscerlo
più.”
Riassumendo, nell’epoca del tardo Settecento e nei primi due lustri
dell’Ottocento, ci si riferiva ai preludi come a brevi brani, da non più di cinquanta
battute, che, pur non essendo più messi per iscritto (almeno temporaneamente),
comunque sopravvissero nella prassi non scritta, sulla scorta di tecniche svariate a
seconda dello stile e dell’abilità dell’interprete, proseguendo su quel filone della
musica strumentale libera ed improvvisata, che era iniziato nel Rinascimento e che,
con il Romanticismo, andrà definitivamente esaurendosi.
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4. Periodo romantico
A partire dall’età romantica, ed in particolare dagli anni ’30 del XIX secolo,
il preludio venne non solo riscoperto e riportato alla luce, ma soprattutto esplorato
in tutte le sue potenzialità, e, di conseguenza, consacrato come genere affermato
e autonomo: le regole dettate dalla forma Sonata iniziarono infatti a “stare strette” ai
compositori romantici, i quali necessitavano di forme espressive al contempo più brevi
e libere; dalla pubblicazione della raccolta dei 24 preludi di Chopin in poi, questa
forma compositiva acquisì dunque uno scopo completamente differente: non si trattava
più di brani in supporto ad una composizione strutturalmente più articolata, ma
completamente indipendenti ed a sé stanti, in quanto l’elemento di “preparazione”
venne a mancare, al punto tale che, nei due volumi di preludi di Debussy,
l’indiscutibile potenza evocativa di ogni singolo preludio fu tale da garantirne
un’indipendenza sugellata dal titolo: ogni preludio ha infatti un titolo che l’autore si è
curato di segnare alla fine del brano.
L’esigenza di una forma libera si mescolò poi con un’altra tendenza, figlia dello
spirito del tempo: la scomparsa dell’improvvisazione.
Difatti, l’ottocento è irrefutabilmente riconosciuto come il secolo durante il
quale la generale propensione dei compositori era quella di ridurre in maniera
progressiva ogni fattore soggetto all’aleatorietà ed all’estemporaneità, e di acquisire
un maggiore controllo dell’esecuzione dei brani, limitando perciò l’inventiva
dell’interprete ad un ventaglio di possibilità sempre più ristretto, mediante una scrittura
che si fece via via più accurata e scrupolosa in ogni aspetto, dalla dinamica all’agogica.
Va però precisato che, sebbene venga a mancare l’estemporaneità, i caratteri di
varietà formale, e talvolta anche di virtuosismo, permasero, e poiché il preludio
divenne una forma compositiva articolata, l’elemento distintivo di ogni singolo
componimento va ricercato in un peculiare tratto, sia esso di natura tecnica, melodica,
o imitativa, che lo connota e che fa da leitmotiv.
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Un altro fattore che accomuna tutti coloro che scelsero di comporre raccolte di
preludi a partire dall’ottocento risiede nella scelta del numero e dell’organizzazione
dei preludi stessi: da Hummel a Kessler, da Chopin a Rachmaninov, da Scriabin a
Debussy, da Shostakovic a Kapustin, tutti gli autori restarono affascinati dalla
possibilità di comporre in ognuna delle tonalità maggiori e minori corrispondenti ai
dodici semitoni, e si cimentarono perciò nella suddetta produzione– chi interamente,
chi in maniera segmentata – scrivendo sempre e rigorosamente 24 preludi nelle relative
24 tonalità del sistema temperato moderno.
Si può affermare con buon margine di probabilità che la motivazione della
scelta ricada sul peso e sull’influenza della tradizione Bachiana delle raccolte di
preludi e fuga. Difatti, nessun altro autore – né nel periodo barocco né nel periodo
classico - scrisse ventiquattro brani in ventiquattro diverse tonalità, e, per di più,
nessuno mai usò tutte e ventiquattro le tonalità nel corso della sua attività creativa. È
quindi altamente probabile che, all’inizio del XIX secolo - quando finalmente furono
pubblicati i due volumi del Clavicembalo ben Temperato che prima circolavano solo
in forma manoscritta - la fama e l’ascendente dell’esempio bachiano, che seguirono
alla sua tardiva riscoperta, colpirono fortemente l'immaginazione e dei compositori e
del pubblico.
Nel lento processo di rivalutazione dell’impostazione formale ereditata da
Bach, il primo a ritentare l'impresa fu, nel 1811, Muzio Clementi, con i Preludi ed
Esercizi, in cui regolarmente si alternano tonalità maggiori e minori, ma secondo un
disegno geometrico diverso da quello di Bach, con l’incremento costante delle
alterazioni, in modo da essere didatticamente più progressivo, mentre un altro
ambizioso progetto, ma mai portato a termine, fu quello dei Quarantotto esercizi di
Liszt, di cui però questi pubblicò solo i primi dodici, quando aveva quindici anni.
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Ad onor del vero, storicamente, furono poi Hummel e Kessler a scrivere, per
la prima volta una raccolta da 24 preludi, tra il 1810 e il 1830 ca., ma il merito di aver
sviluppato un’idea architettonica che simboleggiasse la musica (tonale) stessa nella
sua interezza, è indiscutibilmente di Chopin, poiché questi non costruisce una semplice
raccolta ma un ciclo organico, alternando - nei ventiquattro brani – caratteri, stili,
andamenti diversi e attentamente calcolati affinché si bilanciassero, con l’idea di poter
sondare le peculiarità di ogni singola tonalità.
Il percorso delle tonalità divenne così anche percorso formale, e fu proprio
questa la novità che ha pesato su tutti i compositori che ritentarono l'impresa.
L’organizzazione del circolo
delle quinte in Liszt e Chopin