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3.2 La percezione del dolore nel bambino
La capacità di comunicare una situazione di dolore o sofferenza può favorire l’adozione di
strumenti farmacologici e procedure analgesiche atte a combattere il dolore. L’incapacità
dell’assistito a esplicitarlo o a esserne cosciente, lo espone a sofferenze che possono
prolungarsi nel tempo. Il neonato e più in generale i bambini, sono da questo punto di vista
una categoria particolarmente vulnerabile.
Il problema nell’identificazione e nella misurazione del dolore nel bambino può e deve essere
affrontato e superato soprattutto ora che evidenze sperimentali in modelli animali dimostrano
che l’esperienza precoce di situazioni o procedure dolorose può provocare effetti a lungo
termine quali un’iper o ipoalgesia, disturbi del sonno, difficoltà nell’apprendimento, problemi
del comportamento alimentare e difficoltà a controllare il comportamento.
Dal punto di vista del bambino, una ridotta sensibilità al dolore può favorire lesioni, mentre
un’ipersensibilità potrebbe portarlo ad evitare situazioni quotidiane che possono provocargli
dolore.
Nel corso della malattia oncologica in età pediatrica vi è un’alta incidenza di dolore: in più del
50% dei casi è presente fra i sintomi d’esordio e la percentuale aumenta durante il decorso
della malattia. Sono diverse le cause di dolore che spesso tendono ad essere coesistenti: nella
maggior parte dei casi il dolore è dovuto alla neoplasia stessa, può essere un sintomo che
accompagna le terapie antitumorali o può essere conseguente alle procedure diagnostiche
e/o terapeutiche che costituiscono una parte importantissima nella “quota” di dolore provato
nel corso della malattia oncologica: prelievi e biopsie sono procedure frequenti e dolorose
che portano il bambino a caricarsi di ansia e paura.
Le Linee guida dell’OMS per la gestione del dolore nell’assistito oncologico in età pediatrica
suggeriscono che in tutti i casi è necessario utilizzare una combinazione di approcci psicologici
e farmacologici. Tra gli interventi di tipo psicologico vanno incentivati tutti quelli in grado di
distrarre il bambino come: la terapia del sorriso, l’uso del gioco, la pet-therapy e approcci
psico-educativi. Questi metodi possono essere utilizzati sia per il trattamento del dolore acuto
che per quello cronico.
Questi approcci fanno acquisire al bambino una sensazione di controllo che facilita
l’accettazione di una procedura dolorosa. Nel caso del dolore cronico, la terapia
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comportamentale-cognitiva ha dimostrato di avere un certo beneficio permettendo di
individuare tutti quei modi di pensare che sono poco costruttivi o dannosi, rimpiazzandoli con
modelli positivi e adattivi.
La mancanza di formazione e informazione, un diffuso e anacronistico retaggio culturale per
cui la sopportazione del dolore viene incoraggiata, la paura o la scarsa conoscenza rispetto
all’uso dei farmaci analgesici e la carenza di risorse sono alla base di un inadeguato e talvolta
assente trattamento del dolore in tutte le età pediatriche. Tutti questi fattori spiegano perché
esistono evidenze nella letteratura medica che i bambini ricevono meno attenzione e minori
interventi analgesici rispetto agli adulti. (Cirulli, 2009)
Gli operatori sanitari in questo contesto hanno la responsabilità di ridurre il più possibile il
dolore e di rilevarne i segni e i sintomi nei diversi gruppi di età mediante l’utilizzo di strumenti
specifici.
Attualmente vengono utilizzati tre metodi principali per misurare l'intensità del dolore:
autovalutazione, misure comportamentali e fisiologiche. Le misure di autovalutazione sono
quelle che in relazione all’età del bambino dovrebbero essere maggiormente utilizzate
siccome sono le più valide e le più accurate. La capacità dei bambini di descrivere il dolore
aumenta con l'età e l'esperienza e cambia durante le loro fasi di sviluppo. L’utilizzo della
valutazione con misure comportamentali richiede una capacità critica e valutativa da parte
dell’operatore. Le misure comportamentali consistono nella valutazione del pianto, delle
espressioni facciali, delle posture del corpo e dei movimenti. Sono usati più frequentemente
con neonati e bambini più piccoli dove la comunicazione è difficile. Le misure fisiologiche
comprendono la valutazione della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna, della
respirazione, della saturazione di ossigeno, della sudorazione del palmo della mano e talvolta
delle risposte neuroendocrine. Sono solitamente utilizzate in combinazione con misure
comportamentali e di autovalutazione, poiché di solito sono validi per il dolore acuto di breve
durata e differiscono in base alla salute generale e all'età di maturazione del neonato o del
bambino. Risposte fisiologiche simili si verificano anche durante lo stress, il che si traduce in
difficoltà a distinguere lo stress rispetto al dolore.
A seguito di ciò, capiamo l’importante che ha l’utilizzo da parte degli operatori sanitari di un
approccio centrato sul bambino o individuale nella valutazione e nella gestione del dolore e
delle procedure dolorose. Questo approccio promuove il diritto del bambino a essere
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pienamente coinvolto nella procedura, a scegliere, associarsi e comunicare. Consente ai
bambini la libertà di pensare, sperimentare, esplorare, interrogarsi e cercare risposte. È
essenziale concentrarsi sul bambino piuttosto che sulla procedura ed evitare affermazioni
come "facciamola finita".
Il bambino e la famiglia dovrebbero essere partecipanti attivi nella procedura; consentire ai
genitori di agire come assistenti positivi piuttosto che come restrizioni negative aiuta a ridurre
lo stress sia nei bambini che nei genitori e riduce al minimo l'esperienza del dolore.
L’impostazione di un programma terapeutico farmacologico, quindi, non può prescindere da
alcune considerazioni quali la scelta terapeutica che deve valutare l’entità del dolore e
scegliere il farmaco adeguato per potenza analgesica. Il dolore è classificato secondo l’OMS in
lieve, moderato e forte; per ciascun livello d’intensità, vengono indicati dei farmaci adeguati
per potenza secondo un principio di gradualità d’intervento. La scelta terapeutica deve inoltre
valutare sia la tipologia del dolore (nocicettivo, neuropatico, misto) che le condizioni cliniche,
la durata prevista della terapia e le capacità di adattamento del bambino e della famiglia alla
proposta. Da non sottovalutare la via di somministrazione scelta che deve essere la più
semplice, la più efficace e la meno dolorosa, rappresentata quasi sempre dalla via orale. È
necessario effettuare una profilassi ben delineata che si basa sull’insorgenza del dolore
prevedibile e somministrare gli analgesici a orario fisso, in modo da evitare l’insorgenza di
episodi di dolore. L’intervallo fra le dosi dovrebbe essere determinato in accordo con
l’intensità del dolore e la durata dell’effetto analgesico del farmaco utilizzato. La dose al
bisogno deve essere prescritta solo dopo avere programmato un piano analgesico, nel caso in
cui il bambino dovesse provare dolore durante la giornata nonostante la terapia a intervalli
regolari. È importante che il programma terapeutico scelto sia presentato e discusso con il
bambino, quando possibile per età e situazione clinica e i genitori.
Alla terapia antalgica farmacologica dovrebbe sempre essere associata quella non
farmacologica che comprende molti tipi d’intervento molto diversi fra loro, che tendono a
modificare molti di quei fattori che aumentano o rendono più angosciante e drammatica la
sensazione dolorosa. Alcune tecniche sono molto semplici e tutti noi le mettiamo in atto,
anche spontaneamente, quando vediamo un bambino piangere o stare male, altre più
complesse richiedono competenze e risorse specifiche. La ricerca conferma l’efficacia delle
Tecniche Non Farmacologiche (TNF) per il trattamento del dolore pediatrico-neonatale, di
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origine sia organica che funzionale. La riduzione dell’ansia e della paura associate al dolore,
l’utilizzo di strumenti adeguati ad affrontare la condizione dolorosa, il coinvolgimento delle
figure genitoriali nella gestione del sintomo risultano elementi essenziali di cura e vanno
sempre integrati all’utilizzo del farmaco.
La clown terapia è un TNF cognitivo/comportamentale di semplice e immediata applicazione.
La distrazione conferita dalla figura dei clown non è una strategia passiva orientata a divertire
il bambino, ma è un modo per focalizzare la sua attenzione su uno stimolo alternativo e ciò
permette un’alterazione della sua percezione sensoriale. Il bambino, concentrandosi su
qualcosa di diverso dal dolore, può riuscire ad allontanare l’ansia e la paura.
I meccanismi d’azione attraverso cui le TNF espletano l’azione antalgica sono riconducibili
all’attivazione delle strutture nervose centrali e/o periferiche che inibiscono la nocicezione, la
liberazione di encefaline ed endorfine endogene andando a potenziare il sistema di
modulazione anti-nocicettivo discendente. (Messeri, 2010)
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4 IL RUOLO DELLA RISATA
“Far ridere, oltre ad essere una forma del dare
amore a chi ne ha bisogno, è di per sé atto
terapeutico, poiché da un lato muta la chimica
delle emozioni e contribuisce al miglioramento
dell’immunità, e, dall’altro, opera un radicale
mutamento della sfera emotiva, della socialità,
dell’autostima, della forma mentis.” (Catarsi, 2008)
Nei capitoli precedenti è stato illustrato come la malattia e l’ospedalizzazione abbiano un
impatto importante sulla sfera psicofisica del bambino oncologico e della sua famiglia.
Lo stress che si associa a questo vissuto doloroso modifica gli equilibri fisici e biologici
innescando meccanismi comportamentali alterati. L’essere umano, in effetti, è un insieme
indissolubile di mente e corpo, che non possono essere trattati separatamente, come troppe
volte avviene nella nostra società, ma devono essere “curati” di pari passo, poiché la malattia
colpendo l’uno, agisce anche sull’altra.
La scienza lavora quotidianamente per sviluppare nuove terapie e trattamenti che possano
debellare il cancro. Di fronte a termini come immunoterapia, polichemioterapia, trapianto di
cellule staminali ematopoietiche parlare della terapia del sorriso può far sorridere. Ma in una
visione olistica della persona questo aspetto contribuisce in modo efficace nella riduzione
degli effetti negativi dello stress correlato alla malattia.
Molte ricerche scientifiche hanno dimostrato come le emozioni positive incidano
favorevolmente sul sistema immunitario, contribuendo potentemente a migliorare la salute.
Si tratta, dunque, di un valore aggiunto alle diverse terapie. Nel rapporto “Traditional
Medicine Strategy 2014-2023”, l’OMS sollecita gli Stati ad integrare le medicine
complementari nei sistemi sanitari nazionali. L’infermiere, grazie alla formazione che basa le
sue fondamenta su una visione olistica che valuta la persona in un’ottica globale e in una
connessione reciproca con le varie componenti fisiche/biologiche, psicologiche e sociali,
culturali e spirituali, deve rappresentare il facilitatore per tutte quelle terapie complementari
che possono aiutare la persona ad affrontare il percorso della malattia nel modo migliore.
A questo proposito il buon umore ed un pensiero positivo contribuiscono notevolmente al
processo di guarigione ristabilendo il benessere nell’individuo; da queste basi nasce una
scienza complementare innovativa chiamata Gelotologia. Questa scienza studia ed analizza il
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rapporto tra il riso e il sistema immunitario, riscontrando uno stretto rapporto tra i due aspetti.
Infatti, se un assistito è di buon umore, ha la capacità di pensare in positivo, attuando strategie
di coping più proficue e adeguate così che l’evento traumatico viene vissuto e affrontato in
modo diverso e con maggiori successi di guarigione. La disciplina della PNEI
(Psiconeuroendocrinoimmunologia) ha dimostrato come la mente possa influenzare il corpo
quindi, se mentalmente si è sereni più veloce sarà la guarigione e minore il tempo di
ospedalizzazione, aspetto fondamentale per un bambino che viene allontanato dalla sua
abitazione. Infatti, secondo la PNEI, vi è una connessione tra le emozioni provate da una
persona e le malattie e quindi di conseguenza anche il processo di guarigione. (Bottaccioli,
2015)
In questa sezione, riporterò alcuni degli studi più rilevanti che hanno testato l'efficacia del
clowning, andando ad avvalorare l'efficacia che questa pratica ha nel migliorare la salute
psicofisica dei bambini ricoverati. Verrà illustrato come la risata sia in grado di scaturire tutta
una serie di potenti benefici; migliora la circolazione sanguigna aiutando a prevenire le
malattie cardiovascolari, contrasta ansia e depressione, migliora la socialità ed il rapporto con
gli altri, rafforza il sistema immunitario ed è in grado persino di renderci più efficienti sul
lavoro, per cui attraverso le emozioni positive di risata e di linguaggio o atteggiamento
scherzoso non solo il bambino può trarne benefici ma anche l’equipe medico-infermieristica.
All’interno dell’autonomia e della responsabilità del suo agire professionale e delle relative
decisioni/valutazioni (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana/ Dipartimento
sanità, 2011), l’infermiere deve basare la sua attività sulle Evidence Based Nursing e sulle
prove di efficacia in modo da avere le giuste competenze per poter valutare se la terapia del
sorriso, in quel momento e in ogni situazione specifica, sta dando beneficio al bambino e se
così non fosse, responsabilmente, dovrebbe trovare un'altra strategia.