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2. La filiera agroalimentare alternativa e le pratiche di consumo
virtuose
2.1 L’impatto del sistema agroalimentare
2.1.1 Misurare l’impatto
L’uso intensivo del suolo dovuto alle attività umane è oggi una delle principali cause del
cambiamento climatico e dell’aggravamento del nostro benessere (Turner et al., 2007).
Infatti, secondo i dati della FAO (2021) l’industria agroalimentare è solo seconda
all’industria energetica per inquinamento; nel 2019 ha prodotto il 31% dei 54 miliardi di
tonnellate di CO₂ equivalente globali, con un aumento del 16% rispetto al 1990.
L’agroalimentare è altamente inquinante anche a causa del numero elevato di fasi
produttive che coinvolge: più i prodotti alimentari sono lavorati e più incidono sulle
emissioni. Infatti, nel misurare l’impatto del settore è importante considerarlo nell’interezza
della filiera; oltre all’agricoltura e all’allevamento, bisogna tenere conto di tutti i processi di
pre- e post-produzione, come la fabbricazione dei fertilizzanti e del packaging dei prodotti,
la trasformazione delle materie prime, la successiva distribuzione e conservazione, e la
gestione dei rifiuti prodotti in ciascuna di queste fasi.
Gli studi sull’impatto ambientale della filiera agroalimentare sono una logica
conseguenza delle preoccupazioni legate al deterioramento del capitale naturale nate
intorno agli anni Settanta. Al fine di implementare una produzione più sostenibile sono stati
sviluppati numerosi strumenti di valutazione degli impatti (van der Werf e Petit, 2002), che
si differenziano tra di loro in base agli elementi che decidono di prendere in considerazione.
La differenziazione si basa principalmente su:
1. la selezione dei segmenti della filiera produttiva;
2. la tipologia d’impatto indagata;
3. l’approccio macroeconomico o microeconomico (Marletto e Sillig, 2010);
Una delle metodologie maggiormente consolidate per la misurazione dell’impatto
ambientale di prodotti e processi è il Life Cycle Assesment (o LCA). Il suo approccio è
innovativo perché misura gli impatti potenziali lungo tutto l’intero ciclo di vita, “dalla culla
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alla tomba” (Ispra, s.d.). La sua applicazione è molto più frequente all’interno dei sistemi
industriali manifatturieri, dove i processi in azione sono legati alle decisioni e alle azioni
dell’uomo; mentre, sebbene la moderna filiera agroalimentare possa essere paragonata ai
sistemi industriali, i processi che la caratterizzano sono meno prevedibili e solo guidati in
parte dall’uomo. Per questa ragione la progettazione LCA nel settore agroalimentare è più
complessa e richiede una particolare attenzione nel delineare non solo i processi umani, ma
anche quelli naturali. Nonostante ciò, negli ultimi anni la sua applicazione è sempre più
diffusa (Blengini e Busto, 2008).
L’LCA è regolamentato dalle norme ISO 14040 (2006), che ne definiscono le fasi
principali:
1. Definizione degli obiettivi e dei confini dell’analisi: viene delimitato lo spazio intorno al
quale l’oggetto dello studio deve essere inquadrato e gli impatti da analizzare, inoltre si
stabiliscono le modalità di rilevamento, le fonti e i requisiti di qualità dei dati.
2. Inventario del ciclo di vita: viene creato un indice contenente gli input e output legati
alle fasi produttive considerate.
3. Valutazione del ciclo di vita: tramite i dati ottenuti sull’impatto generato dagli input e
output.
4. Interpretazione dei risultati: i dati vengono accorpati in un unico indicatore
rappresentativo dell’impatto totale generato e nell’analisi vengono individuati i
maggiori punti di interesse per una programmazione strategica (Blengini e Busto, 2008;
Ispra, s.d.).
L’impostazione dei confini è decisiva e molto delicata per il risultato dell’indagine, se i
parametri fossero troppo limitati, ad esempio, l’effettivo impatto generato potrebbe non
essere rilevato. Inoltre, emergono altre problematiche come la reperibilità dell’elevato
numero di dati necessari o la determinazione della percentuale di impatto tra i prodotti
generati da un processo comune (Marletto e Sillig, 2010).
L'utilizzo della metodologia LCA si configura come una risorsa di grande utilità per le
aziende orientate alla sostenibilità, consentendo di pianificare le strategie produttive in
modo più efficace; inoltre, può fungere anche da supporto nell’Etichettatura Ambientale per
comunicare con trasparenza il valore della propria produzione ai consumatori.
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2.1.2 L’impatto delle nuove tendenze del settore agroalimentare
Nel contesto della globalizzazione sono tanti i cambiamenti che hanno influenzato il
panorama economico e commerciale. Ad esempio, la riduzione del prezzo dei trasporti ha
alterato la scala geografica delle filiere produttive, che, se in passato erano organizzate a
livello regionale o al massimo nazionale, oggi sfruttano una scala sovrannazionale;
producendo in luoghi anche molto distanti, tengo conto di fattori come il costo del lavoro o
la presenza di leggi favorevoli alla produzione. Questo fenomeno ha provocato
inevitabilmente una forte intensificazione degli spostamenti intermedi e finali dei beni,
generando a sua volta un aumento delle emissioni delle filiere produttive. Inoltre, la
delocalizzazione è indirizzata principalmente verso paesi in via di sviluppo, dove i
lavoratori, privi di adeguate protezioni sindacali, subiscono spesso condizioni di lavoro
inumane. La libera circolazione delle merci mette le imprese in forte competizione tra di
loro e questo si traduce in un gioco al ribasso, che punta solo alla redditività economica,
mentre sacrifica il rispetto dei diritti umani e la tutela dell’ambiente (Liberti, 2016; Marletto
e Silling, 2010).
Esistono alcune peculiarità della globalizzazione che hanno influito esclusivamente
sul settore agroalimentare. Innanzitutto, i prezzi delle derrate agricole sono scesi, il che ha
reso ancora più conveniente vendere e acquistare prodotti di provenienza internazionale o
fuori stagione; le abitudini di consumo sono mutate verso una maggiore richiesta di alimenti
altamente trasformati e imballati, più facili da consumare e a conservazione più lunga,
provocando la produzione e il trasporto di nuovi beni intermedi per la loro realizzazione.
Inoltre, la diffusione della grande distribuzione ha generato una competizione sleale verso
i piccoli produttori e rivenditori locali, che sono stati spazzati via da pochissime aziende
agroalimentari di portata internazionale (Marletto e Silling, 2010).
Le più grandi multinazionali dell’agroalimentare lavorano in particolare nel settore
sementiero, agrochimico e della genetica animale, in un sistema di oligopoli interconnessi.
Esse controllano e influenzano le decisioni di acquisto e produzione, riducendo le opzioni
disponibili sul mercato. Oggi, tre aziende, rispettivamente di origine brasiliana, statunitense
e cinese, controllano tutti gli stock di pollame nel mondo, Archer Daniels Midland, Bunge,
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Cargill e Dreyfus gestiscono il 90% del grano mondiale e solo quattro società controllano il
66% delle sementi e il 70% di tutti gli agrochimici venduti al mondo (Scialabba, 2022).
La ricerca di una maggiore redditività da parte delle grandi multinazionali ha
determinato una grande diffusione delle produzioni in monocoltura, questo significa che
per diversi anni le terre sono coltivate esclusivamente con una specie o varietà di pianta,
scelta in base alla produttività. Questa scelta va favore delle aziende che gestiscono le
sementi, che possono così vendere un solo prodotto in tutto il mondo e risolvere gli
eventuali problemi legati all’incompatibilità tramite la vendita ulteriore di prodotti chimici,
che garantiscono la sopravvivenza delle piante, generando una vendita interconnessa che
arricchisce un’altra multinazionale (Bocci, 2020). Tale semplificazione forzata genera
inevitabilmente una perdita nell’agro-biodiversità, e in più rende le coltivazioni suscettibili
ai rischi dovuti alle malattie e alle infestazioni: in altre parole, determina una perdita di
resilienza da parte del nostro sistema alimentare.
La perdita di biodiversità delle colture è legata anche ad un impoverimento dei
principi nutritivi e, insieme all’uso di pesticidi e antibiotici, rendono gli alimenti che
consumiamo un pericolo per la nostra salute (Scialabba, 2022). Il consumo eccessivo e la
perdita di qualità degli alimenti determinano ogni anno 4 milioni di morti per colpa di
malattie legate all’alimentazione (malattie cardiovascolari, diabete e tumori) e circa 40
milioni di bambini e 2 miliardi di adulti in sovrappeso (FAO, 2019). Mentre le grandi
aziende multinazionali si accaparrano tutti i benefici, il prezzo più pesante è pagato da chi
lavora per tali aziende o vive nelle aree limitrofe e dai consumatori, che si nutrono di
alimenti standardizzati senza riflettere sul loro costo sociale e ambientale, perché ingannati
dai bassi prezzi (Liberti, 2016). Dalle ricerche della FAO (2014) emerge che il costo sociale
della produzione alimentare - che include danni alla salute, conflitti derivanti
dall'appropriazione delle risorse e l’uso irresponsabile - equivale quasi al suo costo
economico.
Gli agricoltori di tutto il mondo, oggi, sono pedine di una manciata di fornitori fuori
scala, che indirettamente controllano la nostra salute (Liberti, 2016). Sarebbe necessario, con
l’intervento delle istituzioni, che l’agroindustria si assuma la responsabilità dei costi sociali
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e ambientali generati, dando maggiore valore alla salute umana e ambientale (Scialabba ed
Equinas-Alcazar, 2022). Questo permetterebbe di regolare meglio la concorrenza e creare
maggiori condizioni di equità in nome della qualità dei prodotti alimentari; tuttavia,
l’azione dei governi non può essere sufficiente da sola. È fondamentale anche maggiore
sensibilità da parte dei cittadini, i quali tramite le proprie scelte di consumo possono
stabilire un principio di democrazia in tutti i settori commerciali, non solo quello della
produzione alimentare (Scialabba, 2022).
2.3 Le filiere agroalimentari alternative
2.3.1 La necessità di nuovi percorsi di cambiamento
Nella storia recente i paesi occidentali hanno definito un modello produttivo che è stato
emulato in tutto il pianeta. Oggi nella consapevolezza delle incertezze generate dalla società
moderna è necessario individuare nuovi percorsi per creare nuovo valore economico,
sociale e ambientale. Uno sguardo meno convenzionale potrebbe aiutarci ad individuare
percorsi alternativi per il cambiamento. Infatti, guardando al passato e riflettendo sulla
nostra storia millenaria potremmo imparare a vivere in equilibrio con la natura,
combinando il sapere ancestrale e quello tecnologico dei nostri tempi (Di Iacovo, Fonte,
Galasso, 2014).
Il settore agroalimentare, oggi convenzionalmente insostenibile, ha una natura
multifunzionale che lo qualifica come un ottimo candidato per contribuire al cambiamento
positivo in nome di una maggiore resilienza e anche di un maggiore sviluppo sociale.
Innanzitutto, una sua gestione oculata può avere un impatto significativo sulla
conservazione dei terreni, superando anche gli effetti benefici dell’istituzione di aree
protette o dei terreni messi a riposo. Infatti, la produzione vegetale e il pascolo proteggono
le terre dall’urbanizzazione, ma anche dai fenomeni naturali indesiderati sempre più legati
al cambiamento climatico, come incendi, frane e desertificazione (Scialabba, 2022). Inoltre,
per la sua natura intrinsecamente legata al territorio, l’agricoltura può offrire servizi alla
società e a soddisfare quei bisogni essenziali trascurati dalla globalizzazione; tramite una
nuova gestione dell’agroalimentare è possibile stabilire delle relazioni dirette di