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Introduzione
Viviamo in una società patriarcale che ancora oggi limita il ruolo della donna alle mura domestiche
o come oggetto del desiderio maschile, utile prima di tutto a soddisfare le sue volontà. Questo
atteggiamento deriva da specifici stereotipi di genere, tema che da il titolo alla tesi, che sono radicati
nella nostra cultura e si tramandano da generazioni, tramite i mezzi a disposizione.
I temi che riguardano le donne, il femminismo, l’estetica, mi stanno molto a cuore, ed è per questo
che ho deciso di approfondirli in questo elaborato. Non è facile per una donna vivere in una società
dove viene considerata sempre in una posizione subordinata rispetto all’uomo, o viene notata solo
virtù della sua bellezza, ponendola nella condizione di confrontarsi con il sesso maschile a cui tutto
è concesso.
L’argomento della mia tesi si articola su tre capitoli. Nel primo capitolo ho deciso di fornire una
panoramica generale su cosa sono gli stereotipi sociali, su come si formano e si modificano nel tempo.
Inoltre, ho descritto dettagliatamente la categorizzazione sociale, che è uno dei processi cognitivi
messi in atto quando si utilizzano inconsapevolmente gli stereotipi.
Con il secondo capitolo si entra nel vivo del discorso sugli stereotipi di genere, con un’introduzione
sul genere femminile nella storia e su cosa sono gli stereotipi di genere. Successivamente, ho
approfondito in quali situazioni quotidiane le differenze di genere si presentano: a scuola, nei negozi
di giocattoli per bambini, nel mondo del lavoro. L’ultimo paragrafo di questo capitolo pone l’enfasi
sui canoni socioculturali della bellezza femminile, con un’analisi sulla rappresentazione femminile
nei mass media, molto differenziata da quella maschile.
Queste situazioni sono pervasive della vita di ogni donna e hanno implicazioni importanti sul loro
benessere psicologico. Questo è il tema del terzo capitolo, in cui ho deciso di analizzare le
conseguenze psicologiche dell’essere vittima degli stereotipi e della rappresentazione oggettivata
della figura femminile nel mondo mediatico, ricordando come anche questo sia un modo per
mantenere inalterate le disuguaglianze sociali e continuare a tramandarle.
L’obiettivo ultimo della suddetta tesi vuole essere far riflettere sulle condizioni sociali che ancora
oggi investono la figura femminile.
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CAPITOLO 1: gli stereotipi sociali
Il termine stereotipo venne introdotto per la prima volta nelle scienze sociali dal giornalista Walter
Lippmann, che li definiva come “conoscenze fisse e impermeabili che organizzano le nostre
rappresentazioni sociali” (Lippmann, 1922). Egli si propose di capire e di studiare l’influenza dello
stereotipo e i meccanismi che si instauravano per la formazione di tale fenomeno. Nel suo discorso
Lippmann sottolinea l’importanza delle preconcezioni in quanto permettono di determinare il modo
in cui si percepiscono persone ed eventi; si tratta di prodotti della cultura e del patrimonio di idee,
trasmessi sin dalla nascita attraverso le agenzie di socializzazione (famiglia, scuola, mezzi di
comunicazione) e sono considerati veicoli per creare omogeneità di valori e credenze.
Gli stereotipi permettono di costruire un sistema di credenze e parametri sociali che guidano le
persone verso la formazione delle loro conoscenze sul mondo, e attraverso i processi di rinforzo
sociale questi sistemi vengono mantenuti, rafforzati e tramandati. Stereotipi comuni comprendono
una varietà di opinioni su gruppi sociali basate su etnia, sessualità, nazionalità, religione, politica, ma
anche su professioni e status sociale.
Quando si parla di stereotipi e pregiudizi si fa riferimento a fenomeni psicosociali che influenzano il
modo di pensare e giudicare la realtà, anche nelle più semplici esperienze quotidiane. Entrambi questi
meccanismi sono presenti nella cultura da molto tempo e si sono adattati a convivere con i nuovi
valori che la società ha imposto, come ad esempio la tolleranza, e grazie ai cambiamenti sociali si
sono trasformati diventando sempre più impliciti. È quindi importante analizzare le caratteristiche
proprie di stereotipi e pregiudizi e il modo in cui essi agiscono al fine di saperli riconoscere e
contrastare a partire dalle esperienze di vita concreta.
1.1 Stereotipi e pregiudizi: una panoramica generale
Gli stereotipi possono essere definiti in modo generico come un insieme di tratti, valori e
comportamenti associati a determinati gruppi sociali che permettono di inserire gli individui
all’interno di alcuni criteri più o meno visibili. In questi termini lo stereotipo ha un’accezione positiva,
in quanto permette di elaborare velocemente una serie di informazioni provenienti dall’esterno e
fornire una risposta comportamentale; tuttavia, può avere anche un significato negativo in quanto
conduce a giudizi affrettati verso i membri di altri gruppi, con conseguente risposta di discriminazione
verso determinate categorie sociali. Per questo si lega al termine pregiudizio – approfondito in seguito
– in quanto per quest’ultimo è predominante l’accezione negativa, concretizzandosi in uno stigma
verso il gruppo o l’individuo a cui ci si riferisce.
Tornando al concetto di stereotipi, indipendentemente dall’accezione positiva o negativa che si può
attribuire loro, essi svolgono alcune importanti funzioni.
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In primo luogo, svolgono una funzione descrittiva in quanto qualificano i gruppi e i loro membri. Ciò
significa che gli stereotipi forniscono dati su persone e gruppi anche sconosciuti, e questo è
importante dal punto di vista cognitivo perché facilita l’acquisizione di informazioni dall’ambiente.
È molto dispendioso per l’individuo raccogliere e gestire le migliaia di informazioni che otteniamo
dalle persone sui loro tratti di personalità, sui loro valori ecc, e in questo senso gli stereotipi
permettono di avere uno schema in grado di suggerire le caratteristiche tipiche di quella determinata
persona. Facendo così, consentono anche di differenziare un gruppo dall’altro, creando un ordine
mentale di fronte alla complessità sociale che circonda l’individuo.
Una seconda importante funzione degli stereotipi è quella di favorire la risposta comportamentale:
pur non conoscendo la persona che si ha di fronte, gli schemi mentali presenti in memoria permettono
di interagire con lei in modo più efficace, attribuendole una serie di tratti tipici della categoria a cui
appartiene. È facile intuire che spesso questa funzione conduce in errore e a fornire risposte
pregiudizievoli, ma risultano utili perché senza di essi si dovrebbero raccogliere sin troppe
informazioni su tutti gli individui che si incontrano quotidianamente prima di impostare una risposta
comportamentale. Gli stereotipi permettono di guidare le azioni verso gli altri in modo rapido ed
efficace, facilitando l’interazione.
Un’altra funzione cui assolvono gli stereotipi è il mantenimento dello status quo sociale. La maggior
parte delle società sono gerarchicamente organizzate, e attribuire una serie di tratti a gruppi minoritari
e altri tratti a gruppi maggioritari permette di mantenere inalterate queste differenze gerarchiche.
Anche se si tratta di stereotipi positivi, essi contribuiscono in modo sottile ad accentuare e perpetuare
le differenze di potere e privilegi, in quanto nascondono forme di giudizio ambivalente da parte del
gruppo maggioritario. Una delle conseguenze di questo atteggiamento è che i membri del gruppo
minoritario tendono a interiorizzare queste differenze gerarchiche, con la ripercussione di mettere in
atto comportamenti disfunzionali che non conducono ad alcun cambiamento.
Infine, un’ulteriore importante funzione degli stereotipi è che, sebbene ogni gruppo sociale possieda
sia aspetti positivi che negativi, si tende ad associare attributi stereotipici positivi al proprio gruppo e
attributi stereotipici negativi all’outgroup; il motivo dietro a questi comportamenti è che gli individui
sono motivati a mantenere una rappresentazione positiva del proprio gruppo di appartenenza in
relazione agli altri gruppi sociali presenti nello stesso contesto, rafforzando in questo modo la propria
autostima e immagine di sé. L’aspetto motivazionale è stato approfondito da Henri Tajfel con la sua
Teoria dell’identità sociale (Social Identity Theory, SIT, Tajfel, 1981). La teoria concettualizza che le
persone costruiscono le proprie identità a partire dalle loro appartenenze ai gruppi, distinguendo il
proprio gruppo di appartenenza (ingroup) da quelli di non-appartenenza (outgroups), mettendo in atto
comportamenti di favoritismo verso il proprio gruppo, e l’inverso per l’outgroup, mantenendo
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un’immagine positiva dell’ingroup e uno status sociale elevato. È importante sottolineare che questo
processo avviene solo se è presente un forte legame tra il sé e l’ingroup. La SIT prevede che l’identità
sociale dell’individuo si costruisca attraverso tre processi funzionalmente collegati:
1. categorizzazione: l’individuo costruisce categorie funzionalmente discriminanti di
appartenenza basate su fattori di vario tipo, minimizzando le differenze individuali e
massimizzando le differenze con categorie opposte
2. identificazione: le varie appartenenze ai diversi gruppi forniscono la base psicologica per la
costruzione della propria identità sociale. È possibile distinguere tra Identità situata (in un
dato momento un’appartenenza può essere maggiormente saliente rispetto ad altre) e Identità
transitoria (un’appartenenza categoriale momentanea)
3. confronto sociale: l’individuo confronta continuamente il proprio ingroup con l’outgroup di
riferimento, con una condotta valutativa positiva nei confronti del proprio gruppo.
Questa teoria si è dimostrata uno dei modelli teorici più importanti in riferimento ai rapporti
intergruppo, influenzando profondamente lo sviluppo di ulteriori ricerche in questo ambito e lo studio
di fenomeni sociali, come ad esempio il razzismo, che portano ad accentuare le differenze
stereotipiche e pregiudizievoli.
A partire dagli stereotipi poi si creano i pregiudizi: il pregiudizio è considerato generalmente come
un giudizio errato o impreciso, formulato in modo superficiale ed espresso in assenza di dati
sufficienti. Si tratta quindi di opinioni preconcette concepite sulla base di idee comuni che portano ad
assumere atteggiamenti discriminatori.
Uno dei primi autori ad utilizzare il termine pregiudizio fu Allport, che nella sua opera La natura del
pregiudizio propone un’analisi sull’origine del conflitto tra gruppi. Egli definisce così il pregiudizio:
“Un’antipatia fondata su una generalizzazione falsa e inflessibile. Può essere sentito internamente o
espresso. Può essere diretto verso un gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto
membro di quel gruppo.” (Allport, 1954, p. 9).
Analizzando la definizione, essa racchiude molti aspetti: in primo luogo, Allport definisce il
pregiudizio come ⟪antipatia⟫, sottolineandone la valenza negativa e declinandolo in termini di
avversione verso altri gruppi sociali. Tale giudizio, implica un processo di generalizzazione, in quanto
non si limita a descrivere il gruppo ma applica questa valutazione anche ai singoli individui
appartenenti ad esso. Questo processo ha la caratteristica di essere resistente al cambiamento,
risultando così falso e inflessibile, con la conseguenza che il soggetto che mette in atto il pregiudizio
fatica a cambiare la sua idea. Scrivendo ⟪può essere sentito internamente o espresso⟫ Allport