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INTRODUZIONE
«Non esistono atti fisiologici in sé, ma gli stessi atti sono fisiologici se storicamente adeguati
e quindi socialmente efficaci, patologici se storicamente inadeguati e quindi socialmente inutili e
ingiustificati. Ciò che in Cristo è ideale del Regno oggi sarebbe, soltanto, monomania religiosa»
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Partendo dagli assiomi basagliani, ho tentato di intraprendere un percorso ermeneutico su cosa fosse
la follia. Se fosse alienazione mentale o alterità culturale, e dunque, provare ad indagarne il senso
antropologico, storico e sociale attraverso l’opera di due intellettuali che hanno gettato le basi per la
nascita della psichiatria transculturale: Ernesto de Martino e Michele Risso. La follia è una
definizione abusata, un contenitore universale, un alibi al quale, in varie epoche ed in vari luoghi, si
è fatto spesso ricorso ingiustamente. Una fatwa che ha segnato profondamente e indelebilmente le
vittime di quello che è ancora oggi il peggior stigma: il disagio psichico. Una esegesi alla quale si
può pensare di giungere solo attraverso l’utilizzo di vari percorsi disciplinari, poiché richiede,
indubbiamente, un approccio multidisciplinare; la follia coinvolge infatti varie scienze, da quelle
idiografiche a quelle nomotetiche, come volle dividerle il filosofo tedesco Wilhelm Windelband.
Ernesto de Martino e Michele Risso, due che non hanno mai amato le “divisioni”, mi hanno
consentito di avere un approccio sia scientifico che umanistico nell’argomentare questa tesi. I due
intellettuali, partendo da sponde diverse, molto distanti solo apparentemente, si sono incontrati su
un terreno comune alle loro discipline: il disagio, con tutta la sua grammatica del dolore. I rispettivi
campi scientifici, prima che arrivassero Risso e De Martino, consideravano il disagio come causa,
ovvero l’effetto diventava esso stesso patologia, oppure folklore, come rivelano le parole della
contadina Rosa Stasi: «Ѐ la miseria che mi porta alla casa del demonio, non il comunismo»
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. Per
decenni l’etnologia non ha saputo raccontare e la psichiatria non ha saputo ascoltare ma, certamente,
entrambe non hanno saputo ‘vedere’. Ѐ evidente che non sia semplice raccontare, ascoltare o vedere
i “diversi”, gli “invisibili”, I Dimenticati, per ricordare l’intensa restituzione di Vittorio De Seta. Per
la psichiatria organicista erano solo cartelle cliniche, altresì l’etnologia pre-demartiniana era troppo
occupata a catalogare il più affascinante e lontano “mondo esotico”, come sottolineava proprio de
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Archivio de Martino, 2, 19
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E. de Martino, (1962), Furore Simbolo Valore, Feltrinelli, Milano, 1980, p.181
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Martino nel documentario audiofonico realizzato durante la spedizione lucana del 1952: «La
colpa non è ‘nostra’ se gli italiani conoscono qualche volta il Congo o il Tibet meglio di alcuni aspetti
della loro patria». La psichiatria si era incaricata di rendere, quanto più possibile, l’invisibilità una
mera componente terapeutica, non tanto per riabilitare il non-riabilitabile, tale era la convinzione
dell’epoca, ma per proteggere il “sano” dalla vista dell’insano, il “normale” dal non-normale, dallo
ξένος, da un’alterità indicibile. Chi sono questi “invisibili”? Che umanità è questa? Ѐ un’umanità
dimenticata da chi ha dimenticato la propria, donne e uomini ‘necessariamente’ deumanizzati per
poter infliggere loro ogni sofferenza, ogni abuso, ogni ingiustizia, e ciò da parte di chi si ritiene
umano. Invisibili, dimenticati, ed ancora oggi emarginati, come emerge drammaticamente
dall’appassionante etnografia biografica di Valerio Petrarca, finanche contenuti; passati da un
contenimento meccanico-dalla miseria della camicia di forza alla camicia di forza della miseria-ad
un contenimento chimico, per sedare, sfruttare, abusare, dunque dall’isolamento fisico a quello
sociale. Michele de Martino volle raccontare un’umanità che chiamava un’altra umanità, ma la prima
non aveva e continua a non avere la voce necessaria per farsi ascoltare. Torna in mente il vecchio
saggio che prese per mano de Martino, e dopo averlo portato in un androne, quasi abituato a non
mostrarsi come Les Misérables di Hugo, ed avergli recitato un’antica filastrocca che rivelava tutte
le ataviche sofferenze dei contadini pugliesi, concluse con queste parole: «Vai avanti, tu che sai, tu
che puoi, tu che vedrai; non ci abbandonare, tu che sai, tu che puoi, tu che vedrai»
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. A questa umanità
fu tolto tutto, anche la possibilità di mostrarsi. Ignazio Silone raccontò che i suoi “cafoni” erano gli
ultimi all’interno della società civile, ma se avessimo scavato sotto di essi, tra le macerie umane,
come rifiuti tossici occultati sotto il materiale di risulta, avremmo trovato i miasmi di cui
vergognarsi. Dimenticati e non sufficientemente nosografabili per la medicina, affinché se ne potesse
occupare, fino al punto di realizzare una cloaca maxima in cui sversarli: i manicomi. Né
sufficientemente etnografabili per l’antropologia, che non avrebbe potuto catalogarli e restituirli
come narrazione. Per secoli i luoghi attrattivi, come i nascenti centri urbani, si organizzarono in
risposta ai bisogni delle povere masse rurali e delle plebi rustiche, con edifici-dormitorio, ghetti,
bantustans, e per i più reietti tra di essi: i manicomi. Possiamo considerare tutte queste strutture dei
termovalorizzatori per “sub-umani”, produttivi anche se disintegrati, valorizzabili anche se
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Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, in “Società”, V, 1949, n.3
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‘bruciati’. Il cardiologo può e deve occuparsi del proprio organo di riferimento, il quale in casi
estremi può essere sostituito; ma un “medico della mente” dovrebbe bandire ogni tentazione
reificante, il cervello non è un oggetto sostituibile. Altresì l’antropologia dovrebbe integrare e
supportare la psichiatria attraverso la restituzione di un quadro culturale completo, dovrebbe saper
tradurre quella potente agiografia profana incarnata dall’uomo vitruviano, icona di un
antropocentrismo assoluto, il quale dovrebbe costituire il pensiero portante di ogni disciplina, non
solo per l’immagine in primo piano, ma anche per quell’alterità nell’ombra, quell’“ombra” della
quale amava parlare Bruno Callieri, e così sapientemente raffigurata da Leonardo, genio che
ritroviamo anche ne La terra del rimorso, attraverso una citazione in merito allo stato psichico del
“tarantato”
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. L’antropologia, in primis, dovrebbe essere in grado di consegnare l’”uomo” alla
psichiatria: “Ecce homo”; è l’uomo infatti, la più maestosa opera incompiuta del pianeta, il
perfettibile per eccellenza, e ciò lo rende unico e meritevole di studio. Sono proprio i suoi limiti, le
sue angosce, i suoi fallimenti, la sua “miseria culturale”, a restituire il vero senso di continuità della
specie. La metodologia di ricerca, che per anni una vecchia scuola etnologica ha perseguito, ha
prodotto solo isolati etnici, «la diffusa tendenza a “pensare per blocchi” – secondo la nota
espressione di Gaonkar e Taylor (2006)»
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, a cristallizzare l’alterità nella discontinuità, creando
diffuse idiosincrasie, e tutto fondamentalmente per soddisfare le morbose curiosità occidentali. Ma
ai fini dell’epidemiologia psichiatrica, o meglio etnopsichiatrica, il contributo apportato, o forse che
si sarebbe dovuto apportare, è stato modesto. Nella dottrina epistemologica demartiniana, la
dimensione “terapeutica” assume il significato di un necessario riscatto civile e umano, e tale
dimensione restituisce, dovrebbe anzi restituire, un homo novus alla propria comunità, non nel senso
di un individuo “riprogrammato”, ma nel suo significato più liturgico: rinato, meglio ancora, risorto.
Come risorsero tutti coloro che il 13 maggio 1978, de iure almeno, furono liberati dalle Mura di
Gerico, per ricordare Alda Merini, e non già dalle disumane fasce di contenimento, ma dall’idea di
essere “segatura umana”, ignobili scarti di lavorazione di una società che non ha mai avuto né
voglia, né tempo di recuperarli e rigenerarli. Riprendendo Amselle sull’invenzione dell’”etnia”,
Fabietti sull’”imbroglio” della cultura e Nadel con il “dogma” che prende il posto della
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“Il morso della taranta mantiene l’omo nel suo proponimento, cioè quel che pensava quando fu morso”. E. de Martino, (1961), La
terra del rimorso, il Saggiatore, Milano, 2015, p.196
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U. Fabietti, L’identità etnica, Roma, 1995, p.111
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“convenzione”, è possibile ritenere la follia stessa un artefatto scientifico, una finzione
letteraria? Tenendo a mente l’etimologia latina di fingere, il cui significato è: “è stato fatto”, ovvero
a cui è stata data una “forma”, possiamo pensare dunque di decostruirla? L’antropofenomenologia
demartiniana e rissiana è tutta ed è solo materia umana nosografabile, o peggio psichiatrizzabile?
Le storie, gli accadimenti, le esistenze restituite da Ernesto de Martino e Michele Risso, attraverso le
loro opere, sono solo storie di vinti e di psicotici? Le opere demartiniane che vanno da Naturalismo
e storicismo nell’etnologia, fino al progetto postumo de La fine del mondo, sono un ponte che non
solo collega la civiltà moderna con l’”altrove”, ma anche due sponde disciplinari, due mondi
accademici. Era fondamentale per de Martino che l’ethos dell’incontro e del confronto, prendesse
forma anche nel campo scientifico, ciò che egli definì come «non meno pressanti problemi di
collaborazione fra tradizioni specialistiche distinte»
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. Tutte le opere di de Martino, nonostante le
critiche di qualche «severo censore accademico», sono «atte a formare un discorso unitario», come
ebbe ad affermare egli stesso, quasi chiamato a giustificarsi. In modo particolare, proprio Furore
Simbolo Valore, che costituisce una delle opere prese qui in esame, fu liquidata così da Paolo Toschi:
«Recensione in quattro parole: furore molto, valore poco», parole che evidenziano quella paranoia
accademica che contraddistinse tutto il percorso intellettuale, politico e scientifico di Ernesto de
Martino. Un «livore accademico», come ebbe a definirlo Lombardi-Satriani, testimoniato anche dalla
sua ingombrante assenza nell’enciclopedia Garzanti di antropologia del 1983, curata da Ida Magli e
Giovanni Jervis. L’altra opera è La fine del mondo, ineguagliabile analisi comparativa delle apocalissi
culturali e delle apocalissi psicopatologiche, una narrativa sulle apocalittiche dalle cui pagine
emerge la figura di un intellettuale che, come afferma Diego Carpitella, andrebbe collocato sullo
stesso piano di figure come Foucault, Althusser e Marcuse. Questa opera è considerata il testo
fondante dell’etnopsichiatria, seppur ancor oggi, disciplina non ancora accademicamente
sedimentata. Michele Risso compie, in qualche modo, lo stesso percorso intellettuale all’interno del
suo mondo scientifico, costituito da una psichiatria quantitativa nella quale il soggetto
psichiatrizzato veniva reificato e le statistiche sostituivano quell’intersoggettività necessaria in ogni
percorso terapeutico. A questo mondo, Risso si opponeva con la psicopatologia
antropofenomenologica: «Un “caso” è prima di tutto un essere umano!». Ad una psichiatria che
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E.de Martino, La fine del mondo, G.Einaudi, Torino, 2019, p.87
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ancora riteneva necessari trattamenti elettroconvulsivanti e insulinoterapici, egli oppose la
stessa passione rimproverata a De Martino, attraverso la quale Risso condusse grandi battaglie ideali
ed una strenua assistenza ad ogni paziente, inaugurando il pronto soccorso psichiatrico, che in
seguito divenne la guardia psichiatrica dipartimentale. L’intuizione che il Verhexungswahn, ovvero
la neocategoria nosologica del “delirio da sortilegio”, fosse l’esito di una lacerazione tra due culture,
gli fu suggerita o almeno confermata da De Martino, con il quale assidue furono le frequentazioni
quando i due si ritrovarono a Roma; Risso dopo la sua esperienza svizzera e De Martino dopo quella
sarda. La monografia che tratta questa tematica, il cui titolo è Sortilegio e
delirio, fu scritta con lo psichiatra svizzero Wolfgang Böker nel 1964, dopo quasi quindici anni
trascorsi a Berna, presso la clinica psichiatrica universitaria di Waldau, dove incontrerà i maggiori
psicopatologi di scuola esistenzialista e fenomenologica. La seconda ed ultima monografia di Risso,
scritta poco prima della sua morte, ha come titolo A mezza parete, realizzata “a quattro mani”, con
Delia Frigessi Castelnuovo, intellettuale sensibile ai temi cari all’antropologia. Il tema che viene
affrontato è, fra tutti ed in modo incredibilmente predittivo, uno dei più rilevanti e quanto mai
attuali dal punto di vista antropologico, ovvero il tema dei flussi migratori e dei disagi psichici ad
essi correlati. Nel testo emergono le problematiche che traggono origine da un etnocentrismo
psichiatrico che non lascia spazio alla conoscenza dell’alienus, ma solo ad uno sbrigativo ed
irreversibile confinamento dei soggetti più vulnerabili, che è quello che toccò in sorte a migliaia di
immigrati europei in America, nei primi decenni del XX secolo.