27
I.II. I tre casi valutari di uno shock da domanda
Nella parte iniziale del suo articolo, Mundell espone un aspetto cardine della sua
analisi.
“A single currency implies a single central bank (with note-issuing powers) and
therefore a potentially elastic supply of interregional means of payments. But in a
currency area comprising more than one currency the supply of international means
of payment is conditional upon the cooperation of many central banks; […]”
“Una singola valuta implica una singola banca centrale (priva di alcun potere di
signoraggio) e pertanto, un’offerta potenzialmente elastica dei mezzi di pagamento
a livello interregionale. Ma in un’area valutaria che comprende più di una valuta,
l’offerta dei mezzi di pagamento interregionali è subordinata alla cooperazione di
varie banche centrali; […]”
Nessuna banca centrale può espandere le proprie passività tanto più velocemente
delle altre senza che vi sia una perdita di riserve o senza danneggiare la
convertibilità. Peraltro, le banche centrali possono estendere le loro passività
monetarie a tassi che a loro volta dipendono dalle elasticità della domanda al
reddito e dall’elasticità dell’offerta.
La differenza evidenziata dall’economista circa l’offerta dei mezzi di pagamento
deriva proprio dalla presenza di una singola valuta o di un’area con valute diverse.
Il che implica, in termini di aggiustamento tra regioni o tra varie nazioni, divergenze
rilevanti. Per dimostrarle, Mundell elenca tre diverse circostanze, dove rimangono
sempre protagoniste le entità A e B e le conseguenze di un possibile shock da
domanda nelle due regioni; dove la domanda di beni si sposta dall’area B verso
l’area A. I postulati iniziali sono i seguenti:
- condizione di pieno impiego sia in A che in B
- equilibrio della bilancia dei pagamenti
- rigidità dei salari e dei prezzi, i quali non possono variare nel breve periodo (short
run)
28
Nel primo caso vengono ipotizzate due diverse valute, una per l’area A e una per
l’area B. Il secondo invece, guarda ad un’unica valuta per entrambe le entità, ed
infine, l’ultimo caso attiene al concetto apicale dell’analisi mundelliana.
“[…] The optimum currency area is the region.”
È possibile pertanto definire il dominio di un’area valutaria come dominio o
estensione ottimale nel momento in cui esso non corrisponde al mondo, bensì ad una
regione economica. Osserveremo nello specifico ciascuno dei tre casi.
- Due monete nazionali diverse
Nel modello in questione, Mundell considera due entità, che siano due regioni o
due nazioni; le quali almeno inizialmente godono di una situazione di piena
occupazione, e di equilibrio nei propri conti esteri, ovvero nella bilancia dei
pagamenti. Per dimostrare le differenze nei processi di aggiustamento Mundell
inserisce nell’analisi un ipotetico shock da domanda negativo che influisce
negativamente sulla regione B e positivamente sulla regione A. In poche parole, si
verifica un cambiamento nei gusti dei consumatori di B, tale da far spostare la
domanda di beni da B verso A.
Inoltre, vige anche una condizione per cui sia i salari che i prezzi non possono essere
ridotti senza causare disoccupazione.
Attribuendo a ciascuna entità una propria valuta nazionale, Mundell dimostra come
lo spostamento della domanda di beni da B ad A provochi una crescita della
disoccupazione in B e una maggior pressione inflazionistica in A. Nello specifico, in
A si registrerà una crescita nei prezzi dei beni prodotti internamente. Data la
presenza di monete diverse, il paese A potrà in questo caso fare appello alla propria
banca centrale per mitigare l’aumento inflazionistico e di certo l’istituto si occuperà
di attuare misure monetarie restrittive (aumento del tasso di interesse e riduzione
dell’offerta di moneta) per mantenere fisso il livello dei prezzi. A fronte di ciò, è
allora l’entità B ad accollarsi in toto il compito di riportare in equilibrio il proprio
sistema economico, turbato da uno shock asimmetrico esogeno.
29
Per farsi che ciò accada, l’entità B dovrà attuare una contrazione del reddito
mediante una diminuzione dei prezzi per evitare maggior disoccupazione. Ma,
qualora non fosse possibile per B ridurre il reddito allora la contrazione della
produzione e del tasso di occupazione, ossia la recessione, risulterebbero essere le
uniche soluzioni per riequilibrare il sistema economico. Lo stesso Mundell afferma
come:
“[…] The policy of surplus countries in restraining prices therefore imparts a
recessive tendency to the world economy on fixed exchange rates or (more
generally) to a currency area with many separate currencies […]”
“[…] La politica di inasprimento dei prezzi delle nazioni in surplus, pertanto,
mostra una recessiva tendenza all’economica mondiale con tassi di cambio fissi o
(più genericamente), ad un’area valutaria con varie valute. […]”
Mundell si sofferma sul fatto che ci sono svariate prove a testimonianza di come le
nazioni in surplus, quali Stati Uniti, Francia nel 1920 o la Germania occidentale
ancora oggi, abbiano questa tendenza a voler controllare l’inflazione e come sia
poco proficuo che un semplice cambiamento mondiale inerente i prezzi venga
interpretato dai suddetti paesi come un aumento inflazionistico.
Intento dell’economista è proprio quello di dimostrare come in un caso di due
diverse regioni o nazioni, utilizzatrici di differenti valute, il verificarsi di uno shock
asimmetrico da domanda implica un onere che è quello dell’aggiustamento; il quale
risulta assumere la forma di recessione per il paese o la regione che viene colpito
negativamente da tale disturbo macroeconomico.
- Moneta comune
In questa seconda circostanza Mundell vuole invece confrontare il caso precedente
con quello in cui le due regioni o entità appartengono ad un’economia autarchica e
caratterizzata da una singola valuta comune. Supponendo inoltre che il governo
nazionale segua una politica improntata alla piena occupazione.
Lo shock, come anche nel caso precedente, provoca una variazione nella domanda
aggregata, facendosi che si registri disoccupazione in B e un aumento del livello dei
30
prezzi nella regione A, con un conseguente avanzo della bilancia dei pagamenti per
quest’ultima.
Essendoci una singola valuta, ora, vi sarà anche una sola banca centrale, la quale
dovrà occuparsi di risolvere due problemi diversi; la disoccupazione in B e
l’inflazione in A.
Ciò significa che di certo non sarà valida e profittevole una stessa politica monetaria
per entrambe le entità, difatti, qualora si volesse attenuare la disoccupazione in B
mediante un aumento dell’offerta di moneta, e quindi grazie a misure espansive di
tipo monetario, ciò sarebbe gravoso ancor di più per la regione A, la quale vedrebbe
acuirsi ancor di più il problema dei prezzi. Mentre prima la regione A decideva di
accettare maggior inflazione per farsi che venisse riportato in equilibrio il sistema
nella regione B, in deficit; ora, nel caso di due regioni o due nazioni che
appartengono alla stessa unione monetaria, la possibilità di correggere uno
squilibrio per uno comporta maggiori danni per l’altro. È come se l’aggiustamento
nella regione B avvenisse, esportando inflazione in A.
Mundell sostiene come internamente ad un’unione monetaria che prevede tali
tipologie di meccanismi di aggiustamento, non sarà mai possibile perseguire tutti
gli obiettivi più importanti della politica economica, specialmente pieno impiego e
stabilità dei prezzi, questo perché voler raggiungere il pieno impiego comporta
inevitabilmente maggior inflazione in un’economia multiregionale.
L’impossibilità per un tale sistema valutario di prevenire sia disoccupazione che
inflazione, secondo Mundell, discende dal dominio o comunque dall’estensione di
quell’area in quanto “non esiste un’area valutaria ottimale-mondiale”. “[…] the
optimum currency area is not the world. […]”.
- Un’area valutaria ottimale, una regione economica
L’ultimo caso è quello per cui vale considerare significativo il contributo fornito da
Robert Mundell alla teoria delle aree valutarie ottimali. L’importanza della mobilità
dei fattori, come ad esempio il lavoro e quindi la possibilità per i lavoratori di
trasferirsi laddove si crei una maggior occupazione, rappresenta la chiave
31
fondamentale per innescare processi di aggiustamento tra i membri di un’unione
valutaria ottimale interessati da shock asimmetrici.
Nel paragrafo attinente alle valute nazionali e i tassi di cambio flessibili (“National
currencies and flexible exchange rates”) l’elaborato di Mundell prevede l’ipotesi di
un mondo dove sono presenti esclusivamente due paesi, ovvero: gli Stati Uniti e il
Canada.
Entrambe le nazioni presentano una rispettiva valuta ed inoltre, si assume che Stati
Uniti e Canada presentino in comune due regioni, le quali non corrispondono però
con i confini nazionali. All’interno della prima regione, ossia l’Est, vengono prodotti
beni come le automobili, mentre nell’Ovest, la produzione interessa esclusivamente
legname.
Un ulteriore assunto è quello inerente al tasso di cambio tra Canada e Stati Uniti.
Viene stabilito come il tasso di cambio tra il dollaro canadese e quello statunitense
sia di tipo flessibile e che quindi l’uno fluttua rispetto all’altro.
Nella circostanza in cui si dovesse verificare una crescita nella produttività delle
automobili nella regione Est, ciò porterebbe ad un eccesso di domanda di legname
e anche ad un eccesso di offerta di automobili. Le ripercussioni che discendono dallo
spostamento della domanda sono immediate e si riflettono in una maggior
disoccupazione nella regione Est e una pressione inflazionistica ad Ovest.
La regione in deficit è quindi l’Est, mentre quella in surplus, l’Ovest.
Non solo, si rende necessario un forte flusso di riserve bancarie che da Ovest verso
Est consente di ripristinare un equilibrio nelle bilance dei pagamenti.
Il problema della disoccupazione nella regione in deficit può essere attenuato dalle
banche centrali di entrambe le nazioni mediante misure di politica monetaria
espansiva, ovvero grazie ad una maggior offerta di moneta e riduzione del saggio
di interesse, favorendo anche gli investimenti e la conseguente attivazione del
moltiplicatore keynesiano.
Ma, al tempo stesso, se si vuole prevenire un’ulteriore crescita nei prezzi, saranno
necessario invece misure di carattere opposto, le quali prevedono una contrazione
32
della moneta in circolazione e un conseguente aumento del tasso di interesse per
scoraggiare gli investimenti e contrarre anche la domanda aggregata.
Pertanto, è possibile dedurre come la disoccupazione possa essere si risolta, ma di
certo a spese di una maggior inflazione, o viceversa se si volessero evitare pressioni
inflazionistiche ulteriori. Una terza e più diplomatica soluzione sarebbe quella di
far condividere, tra Est ed Ovest, la responsabilità dell’aggiustamento; attribuendo
una parte di disoccupazione nell’Est e una di inflazione nell’Ovest.
La dimostrazione di Mundell è quella secondo cui non sarà possibile, in casi come
questi, attenuare sia il problema nel mercato del lavoro, ovvero la disoccupazione e
al tempo stesso anche la crescita nel livello dei prezzi. Pertanto, l’economista
canadese afferma come il problema fondamentale, ossia lo squilibrio nelle bilance
dei pagamenti di Est ed Ovest, non venga risolto con un regime di cambi flessibili,
ma lo sarà per quanto concerne le due nazioni.
A tal merito la tesi a favore di un regime di cambi flessibili non viene completamente
considerata inadeguata, ma assume una certa rilevanza se applicata nel caso di
valute nazionali differenti. Tale questione può essere però riconsiderata in modo
migliore secondo Mundell se le valute nazionali vengono abbandonate in favore di
valute regionali.
Sulle scorte dell’esempio che è stato già fatto, dovrebbero ora venir meno i dollari
statunitensi e canadesi, in favore di dollari dell’Est e dell’Ovest. Con un tasso di
cambio flessibile tra Est e Ovest, l’eccesso di domanda per il legname non avrebbe
alcuna ripercussione sulle economie e sulle variabili macroeconomiche delle due
regioni, non si creerebbe né maggior disoccupazione, né inflazione.
L’unico effetto derivante da una maggior domanda di legname sarebbe quello di un
apprezzamento dei dollari dell’Ovest rispetto a quelli dell’Est, ma ciò manterrebbe
comunque invariati i saldi nelle bilance dei pagamenti. Le banche centrali delle due
regioni attuerebbero politiche finalizzate a garantire una crescita costante della
domanda reale in termini di valute regionali ed inoltre, volte ad una stabilizzazione
del livello dei prezzi e di quello occupazionale.
33
Le ragioni per cui Mundell non sostiene l’efficienza di un sistema di cambi flessibili
bensì lo portano a ritenere come vi siano vantaggi nel creare anche aree valutarie
piuttosto estese, sono principalmente due.
La prima consta del fatto che quando vi sono tante valute differenti, i costi di
transazione che ne derivano sono piuttosto alti, come lo sono anche quelli di
informazione in merito alla moneta stessa. Questo comporta anche problematiche
all’interno del mercato dei cambi, creando grandi opportunità per gli speculatori e
inficiando la possibilità di adottare misure monetarie adeguate. I mercati per gli
scambi esteri non devono essere così vulnerabili da permettere ad ogni singolo
speculatore (ad eccezione forse delle banche centrali) di poter influenzare i prezzi
di mercato; altrimenti la questione della speculazione contro i tassi di cambio
flessibili potrebbe assumere dimensioni rilevanti.
La seconda motivazione riguarda la cosiddetta illusione monetaria o “money
illusion”. Mundell ritiene come un regime di cambi flessibili dipenda per l’appunto
da quest’ultima, e come quindi gli agenti economici guardino esclusivamente alle
variazioni del proprio reddito solo a seguito di cambiamenti del tasso di cambio
nominale della valuta, escludendo invece le correzioni dei prezzi e dei salari
nominali. Pertanto, l’economista osserva come i sindacati, svolgendo un ruolo
fondamentale nelle contrattazioni salariali, tengano conto in realtà del denaro e non
di un vero salario; inoltre adeguano le loro richieste sulla base delle variazioni
nell’indice del costo della vita, ma solo quando quest’ultimo esclude le
importazioni.
Al termine dell’articolo, Mundell inserisce due importanti interrogativi circa
l’argomento dei tassi di cambio flessibili:
- all’interno dell’economia mondiale moderna, può un sistema di cambi flessibili
funzionare in modo efficiente?
- come dovrebbe essere suddiviso il mondo in termini di aree valutarie?
34
La prima domanda trova risposta, secondo Mundell, in diversi requisiti:
- Garantire stabilità in un sistema di prezzi internazionale basato su tassi di cambio
flessibili, a seguito di attacchi speculativi piuttosto probabili e che possono
verificarsi ancor più se aumenta il numero di valute;
- È necessario che le variazioni del cambio mediante le quali è possibile correggere
i disturbi di un sistema economico non siano così grandi da provocare violenti
cambiamenti nelle imprese esportatrici e in quelle concorrenti, importatrici;
- Il rischio insito nei tassi di cambio flessibili dev’essere coperto a costi ragionevoli
mediante operazioni nei mercati dei contratti a termine (forward);
- Le banche centrali devono astenersi dalla speculazione monopolistica;
- Le sfavorevoli conseguenze di politiche volte continuamente a provocare
deprezzamenti, devono farsi che si mantenga rigida la disciplina monetaria; come
lo è oggi a causa delle minacce ai livelli stranieri delle riserve di cambio;
- Mantenere inoltre un forte flusso di movimenti del capitale di lungo termine,
grazie ad una ragionevole protezione di debitori e creditori;
- I salari e i profitti non devono essere correlati ad un indice dei prezzi il cui paniere
preveda beni e servizi importati di grande importanza.
Per la seconda domanda invece, vertendo su come dev’essere suddiviso il mondo
per quanto riguarda le aree valutarie, Mundell afferma come cambi flessibili
funzionino se vi sono esclusivamente aree valutarie regionali.
Queste ultime dovrebbero però godere di una mobilità interna dei fattori produttivi,
e al tempo stesso di un’immobilità esterna, in modo tale che ogni regione abbia una
propria valuta con un tasso di cambio flessibile rispetto a tutte le altre.
Al contrario, l’efficienza di un regime valutario opposto a quello fisso verrebbe
meno se vi fosse invece immobilità interna dei fattori ma mobilità di essi oltre i
confini. In quest’ultimo caso sarebbe molto più proficuo adottare un regime di
cambio fisso o per l’appunto, innescare un processo di integrazione che conduca
all’adesione di una moneta unica, estendendo le misure dell’area valutaria.
35
I.III. I benefici di una moneta unica
Differentemente dai costi di natura macroeconomica, come affermano gli stessi
sostenitori dell’integrazione monetaria, i benefici ne presentano una completamente
opposta.
Questi ultimi, pertanto, si riscontrano principalmente a livello microeconomico e
derivano da una maggiore efficienza attesa, la quale deriverebbe a sua volta
dall’effetto indotto da un’integrazione monetaria, ovvero: eliminare le diverse e
plurime valute nazionali dei paesi membri.
Il beneficio di un’efficienza più alta attiene a due importanti circostanze tra loro
interconnesse:
- l’eliminazione dei costi di conversione delle varie valute nazionali;
- la rimozione dell’incertezza circa i movimenti del tasso di cambio.
L’elevata propensione all’adozione di una moneta unica, che possa esercitare le
funzioni di mezzo di pagamento, riserva di valore e unità di conto, viene sollecitata
dal fatto che facendo venir meno i costi di conversione e il rischio legato alla
variabilità del cambio, si offrono possibilità di realizzazione per delle economie di
scala.
A tal proposito, andremo ad analizzare le specifiche tipologie di guadagni di efficienza
che derivano da un processo di integrazione monetaria; dove le categorie attinenti
sono principalmente due, ossia: guadagni di efficienza di natura statica e dinamica.
Fra paesi con valute differenti, gli scambi internazionali risultano molto più onerosi,
proprio a causa dei costi di conversione che inevitabilmente ne derivano. Tali costi
sono formati, innanzitutto, da una componente rappresentata dalle commissioni di
cui il settore finanziario può beneficiare grazie a quanto pagato da famiglie e
imprese; come ad esempio i differenziali cambi denaro. E non solo, si possono
considerare in aggiunta, tutte quelle spese che le imprese transnazionali devono
sostenere per disporre di strutture che possano operare in un contesto per
l’appunto, multi-valutario.
36
Nel momento in cui vengono meno tali costi puramente finanziari, i quali
costituiscono però profitti rilevanti per gli intermediari finanziari, si può
riscontrare uno dei vantaggi più importanti di un’unione monetaria.
Ciò creerebbe svantaggi per quanto attiene il settore bancario e finanziario, ma
rappresenta anche un importante guadagno di benessere per la collettività. Difatti,
il guadagno più evidente ma anche quantificabile che può apportare un’unione
monetaria è quello di far venir meno le commissioni che vengono applicate al
cambio delle monete.
Secondo una stima della Commissione Europea, risalente al 1990, tali guadagni
ammontano ad un valore compreso tra i 13 e i 20 miliardi di euro all’anno; un
guadagno da dover sommare a tutti quegli altri benefici che derivano dal mercato
unico. Ovviamente, nel merito delle indagini effettuate è possibile affermare come
la contropartita per il settore bancario non sia altrettanto positiva, difatti circa il 5%
dei ricavi bancari è formato da commissioni derivanti dalle operazioni di cambio e
con un’unione monetaria verrebbe meno, dando luogo ad una perdita secca per tali
intermediari finanziari.
Il maggior benessere sociale sarebbe favorito dal fatto che gli impiegati delle banche,
non dovendo più attuare tali tipologie di operazioni, potrebbero concentrarsi su
mansioni più utili a livello sociale.
In realtà, non è detto che la sola moneta comune possa comunque eliminare la
componente finanziaria dei costi di transazione nel momento in cui la moneta stessa
resta come moneta “scritturale” e se quindi, non fosse oggetto delle transazioni di
“tutti i giorni”.
Per quanto concerne invece la componente dei costi interni, la determinazione di
quanto un’impresa possa attuarne una riduzione a seguito di una moneta unica è
di più difficile misurazione. Questo lo si spiega perché tali costi sono distribuiti tra
le varie unità funzionali di un’azienda e risultano pertanto di più difficile
isolamento, necessitando di un’attenta quantificazione delle risorse aziendali.
Un’ulteriore fonte di guadagno implicita nell’eliminazione dei costi di transazione,
37
che però risulta essere percepibile in modo indiretto per i consumatori, è legata alla
trasparenza del sistema dei prezzi. Una volta che si entra a far parte di un’unione
monetaria, la conseguente soppressione delle valute nazionali a favore di una
moneta unica comporta la possibilità di confrontare immediatamente i prezzi e va
a ridurre le opportunità di discriminazione tra i mercati nazionali, aumentandone
sia la competitività che l’efficienza.
I consumatori, confrontando i prezzi espressi in una stessa unità di conto, possono
attuare migliori decisioni d’acquisto portando a far concorrere ancor di più le
aziende che, riducendo i prezzi, non fanno altro che avvantaggiare i consumatori
stessi.
Il benessere sociale può risentire in modo fortemente positivo, sia dei minori costi
finanziari che della maggior trasparenza dei prezzi, ma esiste anche un’ulteriore
fonte di prosperità e crescita rispecchiabile in un maggior stimolo commerciale e
agli investimenti privati, basati sulla stabilità del cambio valutario (o se vogliamo,
alla non più incertezza di esso).
All’evidenza teorica che sostiene l’effetto negativo della volatilità del cambio sul
commercio internazionale non sembrano però corrispondere, sulla base di appositi
studi e ricerche, univoci risultati empirici, evidenziandone così una certa debolezza.
Lo stesso Fondo Monetario Internazionale, nel 1984, ha individuato relazioni ben
poco significative tra la volatilità del tasso di cambio di breve termine e i volumi di
commercio internazionale.
L’impatto del cambio sul commercio internazionale rappresenta una questione
fortemente interconnessa con gli effetti che si possono ripercuotere sugli
investimenti.
I cosiddetti IDE, ossia gli investimenti diretti esteri presentano un orizzonte
temporale di lungo periodo che non dovrebbe risentire in modo rilevante della
variabilità di breve periodo del cambio se i movimenti ciclici di breve termine
tendessero a stabilizzarsi, attorno ad un trend stabile. Qualora si generino dei
cosiddetti sunk costs, a causa di fluttuazioni del cambio che non seguono un sentiero
38
di equilibrio a lungo termine, allora ciò rallenterebbe l’attività di investimento; in
attesa di condizioni di cambio più profittevoli.
Pertanto, come ha dimostrato lo stesso Baldwin nel 1990, in un contesto finanziario
con cambi flessibili, dove non c’è possibilità di assicurare appositi strumenti per la
copertura dal rischio, si riscontrerà una netta contrazione dei flussi di investimenti
esteri andando così a favorire un regime di cambi fissi in grado di eliminare
ostacoli agli investimenti.