La morte negli anziani
Per una persona anziana la morte rappresenta un evento difficile da elaborare soprattutto se si tratta
del proprio coniuge. In questi casi a prendere il sopravvento oltre al dolore è la paura della solitudine
con cui da quel momento dovranno convivere, rendendoli ancora più deboli e vulnerabili, all’interno
di una società che non è più quella in cui sono cresciuti e in cui di conseguenza finiscono per trovarsi
spaesati.
Spesso accade che questi anziani si trovino a dover stravolgere le loro abitudini di vita per non
rimanere soli, accettando di cambiare residenza o andare a vivere in una casa di riposo, la presenza di
una rete sociale, inoltre, ne risente particolarmente venendo sempre di più ridotta.
Gli anziani, attualmente, tendono ad essere confinati dai famigliari nelle case di riposo proprio per
evitare di confrontarsi con il dolore e il destino di morte prossima che li attende.
Ecco che l’evento luttuoso risulta ancora più difficile da accettare ed elaborare perché comporta una
serie di conseguenze a lungo termine, tra cui un senso di vuoto e disorientamento.
Inoltre, la persona anziana si trova a dover convivere già con un'altra serie di lutti legati
all’invecchiamento e alla progressiva perdita di autonomia, ecco che la scomparsa di una persona
cara può diventare ancora più angosciante e difficile da sopportare.
In questi casi risulta funzionale invitare l’anziano a proseguire con le attività quotidiane che era
solito svolgere, intensificare le visite di parenti, amici e nipoti che lo aiutino a sentirsi meno solo,
coinvolgerlo in attività e progetti che lo possano aiutare a distrarre e liberare la mente da pensieri
negativi. Spesso la presenza di un animale domestico aiuta sia a percepire meno il senso di solitudine
ma anche a tenerle impegnante nella cura di esso.
L’importanza della comunicazione da parte del personale sanitario
È importante che il personale sanitario addetto alla comunicazione della diagnosi o del decesso si
occupi di selezionare la modalità comunicativa più funzionale al rispetto delle fragilità e sulla base
delle caratteristiche, dello stato emozionale e risorse della persona a cui giungerà il messaggio.
Non ha solo il compito di curare il paziente malato ma anche di instaurare con esso una relazione
terapeutica fatta di ascolto e comprensione, cercando di far sentire l’altro accolto e compreso anche
nella sua debolezza e fragilità-
Si deve tener conto del loro livello di istruzione, della loro posizione sociale, delle informazioni che
possiedono in merito alla malattia o al decesso, sulla base di questo si strutturerà la conversazione
facendo uso di un linguaggio chiaro e non ambiguo.
Va rispettate le volontà di condivisione o meno della diagnosi con familiari e amici, va rispettata
anche la volontà del paziente e della famiglia di cosa voler sapere o meno in merito alla malattia.
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È importante che lo scambio avvenga all’interno di un luogo apposito o comunque in uno spazio
riservato esclusivamente agli interlocutori, privo di distrazioni o di interferenze, garantendo al malato
e ai suoi famigliari il tempo di comprendere e assimilare quanto loro comunicato in quanto non si
tratta di una semplice trasmissione di informazioni ordinarie.
Si deve assumere un atteggiamento di apertura e ascolto verso il paziente e verso i familiari, se il
medico si dimostrerà paziente e comprensivo anche il suo interlocutore tendenzialmente si
comporterà allo stesso modo.
Il professionista sanitario deve cercare di ottenere la fiducia dell’altro senza valutare e giudicare i
suoi stati d’animo, vissuti interiori, considerazioni, opinioni ecc.
Così facendo si riduce il senso di solitudine e isolamento che il paziente e i suoi familiari tendono a
provare in seguito alla comunicazione di una malattia o di un decesso.
Questo atteggiamento di apertura verso l’altro non ci si deve aspettare nasca dal paziente ma deve
essere compito del medico cercare di sfoggiare la propria dimensione empatica creando un contesto
adi accoglienza considerando il paziente non come un malato da curare ma come una persona da
ascoltare con rispetto, nella consapevolezza che “ogni cuore che cessa di battere è una persona unica
e irripetibile, ciascuna con famigliari da informazione. Che restano e devono imparare a convivere
con questa assenza per tutta la vita “(Kathryn Mannix, “La notte non fa paura”)
Si tratta di un lavoro complesso e talvolta difficile da gestire e affrontare, lavorare ogni giorno a
diretto contatto con la malattia e la morte mette a dura prova anche la propria capacità di resilienza,
per questo è necessario che chiunque si trovi ad intraprendere questo tipo di carriera prima sviluppi
una propria consapevolezza rispetto al lutto vivendolo come evento facente parte della vita, per poter
poi lavorare in modo funzionale e produttivo con i propri pazienti.
MORTE E MALATTIA
Negli ultimi decenni la medicina si è evoluta, si è specializzata raggiungendo risultati straordinari ma
quest’epoca ha portato anche ad una materializzazione del corpo umano che viene considerato in
maniera riduzionistica come una macchina che si può riparare, svalutando o sottovalutando l’aspetto
psicologico ed emotivo del paziente in cura.
È perciò importante considerare il malato come una persona e non più come un numero, altrimenti la
relazione medico-paziente rischia di frantumarsi.
Questi progressi in ambito medico e tecnologico possono sì curare e prolungare la vita del paziente,
possono alleviarne la sofferenza ma fino ad un certo punto. Se queste pratiche non consentono più
alla persona di essere considerata tale e degna di vivere una vita dignitosa e di qualità, ogni cura
rischia di trasformarsi in un grande fallimento per il benessere del paziente stesso.
Un tempo, come detto precedentemente, “l’ultimo respiro” del nostro caro/a veniva emesso
all’interno del proprio ambiente domestico, circondato dai propri famigliari, attualmente, come
sostiene Kathryn Mannix nel testo “La notte non fa paura” le persone muoiono al pronto soccorso, in
ambulanza, all’interno del reparto di terapia intensiva, mentre i loro parenti e amici si trovano
costretti ad osservarli da lontano, dietro una finestra o separati dai macchinari che li mantengono in
vita. Abbiamo perso la famigliarità che avevamo in tempo con la morte.
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Perciò “è compito di un medico attento far sì che il suo rapporto col paziente non si esaurisca in una
asettica e fredda compilazione di un questionario, o in un frettoloso colloquio monocratico con la
funzione prettamente passiva del paziente, ma sia in grado di esplorarne effettivamente il vissuto,
comprendendone empaticamente le emozioni, i dubbi e le paure”. (Edward Shorter della l’Università
di Toronto)
Nei casi di malati terminali tendenzialmente si cerca di tranquillizzarli facendo uso di calmanti senza
prestare attenzione alle loro grida, impedendo così ogni forma di espressione emotiva perché
consapevoli di non poter fare nulla per alleviare quella sofferenza.
Occorre perciò rivalutare il paziente, considerarlo prima di tutto come essere umano prestando
attenzione ai suoi bisogni, necessità e desideri, ascoltando le loro domande e preoccupazioni,
favorendo anche l’incontro tattile tra medico e paziente.
La malattia oncologica rappresenta una delle modalità peggiori attraverso cui la morte irrompe nella
nostra vita.
Una morte che non è solo biologica ma che spesso è preceduta da morti parziali, da perdite e
separazioni fisiche, sociali, emotive e relazionali. (pag.6 “Sopravvivere al tumore” di Salvatore
Merra, Cristiano Zamprioli, Rosanna Mansueto, 2015)
Il cancro ci costringe a rivedere il nostro rapporto con l’idea di finitudine, ci costringe a modificare o
addirittura annullare i nostri progetti di vita.
Il tumore, per quanto possa rimanere silenzioso nei primi tempi finisce sempre per gridare la sua
presenza, per imporsi nella vita di chi colpisce.
La diagnosi finisce per sospendere il viaggio della vita e provocare una rottura interiore, il soggetto
percepisce con mano la paura legata alla finitudine della sua stessa esistenza di cui prima non si
preoccupava perché percepiva la propria vita come un continuum. Ora invece le sue aspettative
vengono travolte bruscamente da questo evento inatteso che comporta la capacità di sapersi adattare
ai cambiamenti fisici che da questo momento in poi il proprio corpo subirà. Per questo motivo risulta
fondamentale l’istaurarsi di una relazione terapeutica che va ben oltre la semplice cura biologica e
fisica ma che comporta allo stesso tempo un’attenzione allo stato psicologico del paziente che
proseguirà anche oltre la guarigione.
Ad accumunare i pazienti oncologici è spesso la paura di una ricaduta, la morte di un amico o di un
parente di cancro, i controlli di routine per questo è importante garantire un supporto che prosegui
ben oltre la ripresa.
Molte persone finiscono per nascondere queste loro ansie e preoccupazioni in un luogo che non
possa essere ricordato, questo dolore però finisce sempre per riaffiorare improvvisamente.
Ecco che entra in gioco l’importanza del ruolo dello psicoterapeuta che può aiutarci ad alleggerire il
carico emotivo legato al passato per poter così elaborare un nuovo sguardo verso il futuro.
Quando ci troviamo a doverci scontrare con questi mali finiamo per renderci conto di quanto
superflue siano le cose materiali a cui tendiamo a rimanere ancorati rispetto alla precarietà della vita.
Il malato e la sua sofferenza
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