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Introduzione
Il lavoro proposto è frutto di un periodo di ricerca partito nel febbraio del 2022, in seguito
alla frequenza dei corsi proposti dall’Università degli studi di Bologna e dal mio indirizzo
di studi. Sono stati particolarmente illuminanti e di ispirazione antropologia politica,
antropologia del corpo e della malattia, geografia urbana e geografia umana. Proprio su
queste due ultime discipline è ricaduta la mia scelta in merito alla scrittura della tesi finale,
in quanto accademicamente e personalmente interessata all’ambito dell’etnografia
urbana. Ho scelto nello specifico però di parlare di un contesto a me familiare, in quanto
biograficamente e professionalmente vicino.
Aurora è un quartiere situato a nord della città di Torino: è particolarmente ricco di storia
e di sfaccettature, un perfetto caso di studi in quanto attualmente esposto a forti processi
gentrificativi che però attecchiscono in maniera settoriale e peculiare rispetto ad altre aree
cittadine interessate da dinamiche analoghe. Si tratta di un posto tanto vicino
geograficamente parlando al centro cittadino, quanto distante nell’immaginario collettivo
di parte della popolazione che lo abita. Storicamente parlando ospita due luoghi cardine
della vita dei torinesi: il mercato di Porta Palazzo, in cui tanti abitanti del capoluogo
sabaudo si recano ogni sabato a fare la spesa di beni di primo consumo ed il Balon,
specializzato nella rivendita dell’usato ed in cui si può trovare di tutto, dai vecchi
giocattoli all’abbigliamento, dai mobili ai libri, fino ad arrivare ai «Ciapapuer»,
soprammobili dal fascino più o meno discutibile ma senz’altro originali. Oltre alla varietà
delle proposte offerte, in questi due mercati la composizione sociale è ampissima ed
eterogenea: si passa dagli avventori, provenienti da tutte le zone della città, ai residenti,
agli ambulanti, per un totale incalcolabile di provenienze e rappresentanze. Vengono così
a contatto persone dal trascorso e presente differente l’uno dall’altro, accomunate dalla
presenza nel medesimo luogo. Buona parte di Aurora, negli anni, in particolar modo le
parti maggiormente vicine alla limitrofa Barriera di Milano e di Piazza della Repubblica,
soprattutto in orario serale, sono state oggetto di diversi epiteti non sempre gentili da parte
delle cronache locali: termini quali «Ghetto», «Fortino dello spaccio», «Cuore della
malavita e delle tensioni sociali» accompagnavano ed accompagnano ogni giorno la
descrizione edulcorata dell’area. Non è mia intenzione in questa sede sminuire o fingere
che non esistano delle problematiche tangibili; nello stesso tempo trovo decisamente più
importante interrogarsi sulle cause che portano a tutto ciò che viene racchiuso nell’ampio
spettro della «delinquenza» piuttosto che ad una condanna diretta aprioristica o ad
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alimentare uno stigma che si riversa su parte della popolazione o, più generalmente, sul
quartiere. Questo lavoro ha la netta volontà di essere avulso da dinamiche politiche
strumentali che cavalcano l’onda della povertà e del crimine per giustificare fantomatiche
«lotte al degrado» che generano, alimentano e legittimano un clima di tensione militaresca
e rimandano a terminologie ed ideologie che rievocano idee dal sentore “vagamente”
razzista.
Credo fermamente che sia compito dell’antropologia e, più in generale, della persona che
studia, andare oltre una visione superficiale e ricercare la causa profonda degli eventi e di
ciò che vediamo come manifesto. Diversi studiosi, tra cui il recentemente scomparso Paul
Farmer, ci invitano a non chiudere gli occhi davanti a ciò che è ingiusto e a non
giustificare le ingiustizie additandole come caratteristiche proprie di un determinato luogo
o cultura. Foucault e Bourdieu ci ricordano anche che è fondamentale non ignorare le
dinamiche di potere esistenti nei rapporti umani: in particolar modo a maggiore proprietà
ed accesso a mezzi economici e culturali corrispondono più ampie possibilità, motivo per
cui è importante valutare cosa spinge ad intraprendere un determinato percorso e scelta
di vita anziché un’altra ma, soprattutto, il perché. Non sempre e non tutti hanno una
possibilità di scelta volontaria e non influenzata da condizioni sociali determinate dal
contesto di provenienza e/o di residenza, lavorativo, familiare, sociale...
L’elaborato tiene a presentare i tanti volti di un quartiere innegabilmente complicato ma
anche ricco di storia, varietà, scambio, iniziative.
Nel corso del primo capitolo fornirò una breve presentazione della storia e delle
caratteristiche dei processi gentrificativi, considerando casi di studio differenti dal
quartiere di cui mi occuperò nello specifico, in modo tale da fornire paradigmi teorici di
studiosi che si sono interrogati su un fenomeno comune e sempre in maggiore crescita
all’interno di tante realtà che, oltre le loro particolarità, sono accomunate da una serie di
caratteristiche che descriverò. Queste sono in gran parte interconnesse con la storia dei
luoghi in cui agiscono: a questo proposito, a mio avviso, non può esserci una descrizione
completa dei quartieri se li si crede come delle aree isolate ed avulse dalla loro storia,
dalle caratteristiche fisiche, topografia, mutamenti della composizione e del tessuto
sociale. Nel secondo capitolo si parla esplicitamente, oltre che di storia, di come da
sempre sono attive associazioni ed iniziative promosse da enti pubblici, privati, da
semplici cittadini o associazioni di quartiere. Si passa da luoghi di riferimento per i
migranti di vecchia e nuova generazione, a case di quartiere e scuole che promuovono
corsi per tutte le età; da studentati privati a spazi di co-working, dagli eventi storici tenuti
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dalla Città in particolari periodi dell’anno (come il Carnevale) ad eventi privati per i
professionisti della business class. Si passerà infine alla menzione e alla descrizione di
persone diventate simbolo del passato e del presente di un quartiere in continuo
mutamento. Le prime due macroaree dell’elaborato vengono però definitivamente
connesse tra loro all’interno della terza parte: si tratta del cuore dello scritto, a cui ho
dedicato un maggior numero di pagine e di approfondimento. È molto diffusa l’abitudine
di additare coloro che monitorano con occhio critico i processi legati alla gentrificazione
come nullafacenti e sovversivi, indirizzando il proprio sguardo oltre le vetrine luminose
dei nuovi negozi vintage, etnici, equosolidali, ecosostenibili, gourmet, fautori della
promozione di tanti bei valori ideologicamente parlando ma spesso invece deleteri per i
quartieri in cui trovano sede. Sia chiaro: non tutti coloro che sono impegnati all’interno
di queste attività sono necessariamente persone con cattive intenzioni di fondo, anzi,
spesso si tratta di giovani che credono realmente in ciò che fanno e che promuovono,
talvolta non avulsi da cause politiche e sociali. Contemporaneamente, nella società e nel
sistema di produzione odierno, il paradosso è rendere coloro che credono in determinati
valori parte dell’ingranaggio perfetto che alimenta la gentrificazione con le conseguenze
nefaste che vengono invece denunciate dai movimenti militanti: aumento vertiginoso dei
prezzi degli immobili e dei beni di primo consumo, strutture private che spuntano come
funghi e stringono sempre più la morsa intorno a chi lotta quotidianamente per rimanere
nel quartiere che vive e sente come proprio. Molto spesso queste persone appartengono a
classi sociali particolarmente fragili e sono private, in parte o del tutto, della loro agency,
del tempo e della possibilità di rivendicare i propri diritti, in primis quello alla città. Un
ruolo cardine nel contrasto a questo fenomeno, a mio avviso, può e deve essere svolto
dall’educazione e, nello specifico, da tutto ciò che proviene dall’educativa territoriale, dal
basso e per il basso. Il coinvolgimento attivo delle fasce della popolazione che compone
e vive in un quartiere deve essere un valore di base, che non rimanga ancorato alla
progettazione su carta. Il rapporto tra istituzioni private o pubbliche che emanano bandi
e tra chi deve promuovere le proprie attività all’interno dei medesimi, non è sempre facile.
Andremo dunque anche ad indagare il divario tra chi finanzia e chi opera sul campo. Oltre
alle opinioni raccolte dallo scambio con operatori ed operatrici provenienti soprattutto
dall’Associazione Educadora, racchiuse in un’intervista riportata integralmente nella
sezione Appendice, ho tentato di includere anche parte della mia esperienza formativa e
lavorativa pregressa: provengo infatti da studi triennali nell’ambito educativo e credo
fortemente nel diritto di tutti e tutte di accedere alla conoscenza, in quanto arma potente
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per poter acquisire competenze personali spendibili in maniera trasversale nel quotidiano.
Inoltre, trovo fondamentale assumere la consapevolezza di quanto è importante crescere
continuamente attraverso lo scambio con gli altri, cosa che dovrebbe avvenire al di là del
contesto dell’educazione formale e che spesso accade proprio quando non viene notato:
si apprende continuamente da tutto e tutti coloro che incontriamo, proprio grazie alla
differenza di trascorsi, vissuti, provenienza, esperienze. Trovo che questo sia il maggiore
insegnamento che Aurora può lasciare all’interno di chi la vive, dal semplice passante al
residente: lo scambio può e deve essere crescita ed arricchimento. Un augurio è che questo
elaborato possa essere fonte di riflessione per tutte le volte che ci si approccia ad un
quartiere considerato degradato o degradante, senza incorrere alla spettacolarizzazione
del medesimo come un fenomeno di studio che lo riduca il luogo e la sua composizione
a soggetto inerme e passivo.
La metodologia utilizzata per le prime due parti è principalmente incentrata sulla ricerca
bibliografica mirata, durante la quale sono risultate particolarmente utili i testi utilizzati
durante il percorso accademico. Per quanto concerne il terzo ed il quarto capitolo, invece,
subentra una componente maggiormente personale in quanto ho cercato di includere
anche le conoscenze teoriche accademiche del percorso triennale e l’esperienza pregressa
come educatrice socio-territoriale maturata in zone differenti di Torino.
In conclusione, uno degli strumenti che ho ritenuto maggiormente utili è stata
un’intervista semistrutturata a due educatori dell’Associazione Educadora, contenuta
integralmente nell’Appendice. Svoltasi in data 30/01/2023, si è trattato di un momento di
scambio profondo ma informale, alimentato da tono ironico, caffè, battute. Il confronto
tra colleghi, ma in primis tra persone, che operano in una realtà variegata e ricca di
sfaccettature come Aurora, è stata arricchente in particolar modo nel farmi comprendere
maggiormente come viene vissuto un processo che sembra molto rapido dall’esterno dai
più giovani abitanti del quartiere, dalle generazioni future che, al contrario, lo vedono
come qualcosa di lontano, facendomi diventare maggiormente consapevole di quanto in
tutto ciò che si osserva, la prospettiva ed il punto di vista sono sempre diversi e degni di
considerazione, altro insegnamento ribadito più volte durante il corso degli studi
magistrali.
Lo scritto contiene un punto di vista talvolta molto critico e poco positivo, mi piace
pensare invece che possano avere ragione i giovani: che si possa mantenere un senso
identitario forte ed ironico del e nel vivere in questo quartiere, che possano esserci delle
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svolte inaspettate e maggiormente inclusive all’interno dei mutamenti in atto, in cui i
protagonisti siano proprio loro. Glielo auguro con tutto il cuore.
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Capitolo 1- Riqualificazione e pianificazione urbana, breve storia
1.1 Rivoluzioni Urbane: città, metropoli, postmetropoli
Lo studio delle città e del processo di urbanizzazione riscontra particolare interesse a
partire dalla Rivoluzione Industriale: sebbene esistano teorie e modelli antecedenti, basati
sulle teorie del sinechismo
1
, è a partire dall’Ottocento che questi vengono approfonditi
per indagare la nascita di quella che viene definita la città moderna. Con l’utilizzo di
questo termine (derivante dal greco συνεχής) si intende l’interdipendenza tra relazioni
sociali che si innestano all’interno di una popolazione sufficientemente numerosa. La
prima forma di città viene considerata la città-stato: ne furono un esempio Gerico, nata
nel 8350 a.C.,collocata nell’odierna Cisgiordania ed occupata stabilmente per almeno
4000 anni e Catal Huyuk, sorta nel 1970 a.C., situata nell’attuale Turchia. Il concetto di
sinechismo sarebbe all’origine di quelle che vengono definite Rivoluzioni Urbane e ciò
andrebbe ad avvalorare la tesi secondo cui le città nascono in tempi pregressi rispetto a
quelli della Rivoluzione Agricola del Neolitico (datata tra il 10.000 e l’8.000 a.C.). Si
tratta di una svolta importante in quanto ciò consente di dare alla città una posizione di
rilievo e di metterla in una posizione prioritaria per quanto concerne l’evoluzione della
storia.
Le Rivoluzioni Urbane sono tre in totale: la prima si verifica nel 8350 a.C. con la
fondazione di Gerico e la nascita della città-stato; la seconda con l’avvento della
Rivoluzione Agricola e la fondazione delle città egizie e mesopotamiche; la terza con la
modernità e l’avvento del capitalismo industriale urbano.
È proprio in questo periodo che vengono ripresi gli studi in tema di urbanizzazione in
quanto si crede che a partire dall’Ottocento avvenga la nascita della città moderna.
Le indagini si svolgono, in particolar modo, sotto forma di studi di caso, nelle città inglesi
convolte nel processo di industrializzazione.
Tra gli scritti più noti abbiamo quelli di Engels
2
, svolti nella Manchester di fine Ottocento.
Questa località era in origine una piazza di mercato specializzata nella tessitura del
cotone, tessuto che proveniva porto di Liverpool, collocato a circa 55 km di distanza.
1
Maisels, K., The Emergence of Civilization from hunting and gathering to agricolture, cities and state in
the Near East, Routledge, Londra, 2003
2
Engels F., Condition of the Working Class in England, Penguin Classics, Londra, 1987, p. 63
9
I collegamenti tra le due città divennero sempre più assidui grazie alla costruzione, nel
1830, della linea ferroviaria che le collega; questo collegamento nacque principalmente
per il trasporto delle merci ma con il tempo diventò uno snodo fondamentale anche per la
mobilità dei passeggeri.
Manchester viene considerata la prima grande metropoli capitalista:sede di diverse
industrie manifatturiere, sviluppò la propria conformazione in base alla popolazione
ospitata.
All’interno del centro cittadino si riversavano rispettivamente la working class, coloro
che lavoravano all’interno delle fabbriche cittadine e il lumpenproletariat, un esercito di
riserva costituito da disoccupati e lavoratori stagionali.Nella seconda fascia, limitrofa ma
ben separata dalla parte centrale, si stabiliva la piccola e media borghesia. Nelle
campagne, anch’esse nettamente distanziate, risiedevano la gentry, nobiltà terriera ed i
tories, l’aristocrazia.
Engels nei suoi studi sosteneva che la pianificazione urbana fosse volutamente studiata
per far in modo che le diverse classi sociali rimanessero nettamente separate e non
avessero possibilità di contatto.Inoltredenunciava le pessime condizioni igienico-
sanitarie in cui vivevano le persone delle classi sociali più umili e il degrado in cui versava
il centro cittadino. Il tasso di mortalità era altissimo, sia all’interno del contesto
professionale sia al di fuori: a rimetterci, oltre al lavoratore era senza dubbio anche la
produzione. Le cause debilitanti legate alla crescita dei bambini all’interno di un contesto
di indigenza perduravano con la crescita e la capacità lavorativa ne risulta gravemente
compromessa.Gliorari massacranti contribuivano ad aggiungere ulteriore carico: si
lavorava, dai nove ai tredici anni, circa sei ore e mezza. Dai tredici ai diciotto anni si
produceva per dodici ore, fino ad arrivare, nella completa età adulta, a turni di anche
sedici ore. Non ci si poteva sedere se non si voleva incappare in ripercussioni; ciò
determinava numerose problematiche a livello sanitario e comprometteva lo sviluppo dei
giovani operai.
Engels descrive come in ogni grande città esistessero dei quartieri definiti brutti, situati
in zone lontane rispetto agli occhi della popolazione benestante. Solitamente le abitazioni
del centro cittadino sono composte da cottages: composti da tre, quattro stanze più cucina,
si situano in quartieri con strade prive di selciato e di canali di scolo. Nello specifico si
occupa di rappresentare la vecchia parte della città, contenente dai venti ai trentamila
abitanti, caratterizzata da un’aerazione pessima che si somma al malessere diffuso tipico
del luogo.
10
Traendo le somme, chi abita in questi quartieri viene visto come appartenente ad una
razza non umana ma malata fisicamente e moralmente fino al retrocedere allo stato di
bestia: «The race that lives in these ruinous cottages, behind broken windows, mended
with oilskin, sprung doors, and rotten door-posts, or in dark, wet cellars, in measureless
filth and stench, in this atmosphere penned in as if with a purpose, this race must really
have reached the lowest stage of humanity
2
».
Questa netta divisione dell’urbanistica cittadina consentiva agli imprenditori e alle fasce
direttive di percorrere la città senza passare attraverso i quartieri più poveri per recarsi
all’interno degli stabilimenti industriali. Abbiamo un’evoluzione per quanto concerne
l’urbanistica tra la modernità e la conformazione delle città odierne in quanto oggi si
riscontrano delle conformazioni morfologiche differenti, con separazioni molto meno
nette tra quartieri considerati centrali e periferie. La conformazione urbana è
notevolmente cambiata. Si riscontrano però differenze locali, in particolar modo tra le
città del vecchio continente e quelle del nuovo. Nelle metropoli statunitensi solitamente
il centro cittadino è considerato malfamato e continua la tendenza delle fasce di
popolazione benestante nel risiedere al di fuori del medesimo.
Per definirle si parla sempre più di postmetropoli
3
, ovvero città della realtà industriale
postfordista sorte nel Dopoguerra. Il termine per definirle è stato coniato da Edward Soja,
geografo politico attivo presso l’UCLA, University of California di Los Angeles. Queste
città sono caratterizzate da un’economia basata sui servizi; all’interno delle medesime il
processo di industrializzazione decade a favore di occupazioni d’ufficio, principalmente
operative nel settore finanziario-amministrativo, definito con la sigla FIRE (Finance
Insurance Reale Estate). In generale si tratta di formazioni socio-spaziali caratterizzate da
un alto grado di frammentazione sociale ed economica e sono frutto dell’intensificazione
dei flussi migratori e della globalizzazione.
Le nuove città nascono e si sviluppano di pari passo con il miglioramento del settore delle
comunicazioni e si alimentano grazie ad altrettante società di servizi finanziate al loro
mantenimento e alla manodopera che ruota intorno alle medesime. Ciò determina grandi
cambiamenti sia a livello di pianificazione urbana che per quanto concerne la
conformazione e composizione della società in quanto bisogna considerare che queste
città hanno ampi spazi dai caratteri labili ed indeterminati.
3
Soja E. (a cura di E.Frixa), Dopo la metropoli. Per una critica della geografia urbana, Patron, Bologna,
2007
11
Per quanto concerne l’aspetto fisico, inoltre, le postmetropoli sono composte da cicli di
crescita originari seguiti da altrettanti secondari, terziari e di tecnopoli. Per tecnopoli si
intendono reti di infrastrutture dislocate su territori differenti: alcune si collocano in aree
limitrofe al centro cittadino, altre nelle periferie. All’interno delle medesime si
organizzano attività e servizi finalizzati alla ricerca industriale tecnologica attraverso
attività di divulgazione, dimostrazione ed informazione rivolte alle imprese, favorendo
un incontro tra i ricercatori e gli industriali. In Italia una tecnopoli si trova in Emilia-
Romagna, con sedi in diverse province.
La città che viene presa ad esempio da Soja nello studio delle postmetropoli è Los
Angeles. Soja sostiene che questa città è composta da un ciclo di crescita originario e da
uno secondario fatto di tecnopoli sia periferiche che nelle aree limitrofe al centro. Ciò
crea due forze, una centrifuga ed una centripeta, in direzione dei centri di lavoro effettivi,
collocati solitamente lontano rispetto a quelli direzionali. Il tutto origina una
conformazione cittadina peculiare, con la presenza di aree di cui non è possibile misurare
le effettive dimensioni (ne è un esempio Orange Country). Si genera un superamento della
dicotomia che contrapponeva nel contesto americano il dualismo fatto da urban e
suburban, caratterizzato sia da conformazioni fisiche differenti che da modi di vita
peculiari. Nella postmetropoli l’hinterland si apre verso l’esterno, espandendosi
regionalmente, processo definito da Soja nuovo regionalismo.
Il superamento del tradizionale assetto urbano, nonostante le differenze relative al
contesto, è però in atto anche nelle città europee ed italiane.
Un esempio è riscontrabile nella crescita dell’area urbana intorno al comune di Torino,
con l’emersione di nuove aree e polarità spesso differenti rispetto a quelle storicamente
importanti nel passato: questa difficoltà nella definizione degli spazi genera una difficoltà
tangibile per quanto concerne il controllo statale diretto, motivo per cui si tende sempre
in misura maggiore a delegarne parte a governances di tipo territoriale. Ad oggi a Torino
sono utilizzati il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP) datato 2003 ed il
piano regolatore generale (PRG) del 1995
4
. Ad entrambi si somma un piano strategico
specifico per la città, nato nel 2000 e rigenerato nel 2006 in occasione delle Olimpiadi
Invernali. Questo sancisce un accordo tra soggetti portatori di interessi pubblici o privati
per la creazione di una governance metropolitana
5
.
4
Cotella G., Caruso N., Janin Rivolin U., Post-metropoli_e_strumenti_di_piano, Torino, 2013, pp. 37- 64
5
Dente B., Melloni E. (2005). Il piano strategico come strumento di governance locale: il caso di Torino,
Amministrare, 3, pp. 385-370
12
Queste legislazioni danno dunque un buon margine d’azione a soggetti interessati ad
investire su contesti territoriali urbani ed è all’interno di queste condizioni che
attecchiscono le dinamiche proprie del processo di gentrificazione.
Questo si può definire come una dinamica di modificazione urbana che implica
un cambiamento di popolazione maggiormente agiata in entrata, associato
a modificazioni dell'ambiente costruito. Il tutto è volto a rendere i quartieri considerati
degradati maggiormente fruibili in primis esteticamente parlando. Ciò è molto
vantaggioso per l’amministrazione pubblica in quanto genera uno sviluppo del mercato
immobiliare e dei consumi, riducendo la necessità di controllo sociale e di welfare ed
attraendo possibili investitori.
Si inizia a parlare di gentrificazione a partire dal 1964;il termine viene coniato da Ruth
Glass
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e prende il nome dalla “Gentry”, piccola nobiltà proveniente dalle campagne
inglesi e trasferitasi in città. Questo spostamento generò il superamento della produzione
e dell’acquisto di prodotti standardizzati connessi al meccanismo fordista, con uno
slittamento della domanda verso beni sempre maggiormente personalizzati ed il
passaggio alla modalità di produzione toyotista.
Nella definizione di Glass la gentrificazione viene presa in considerazione sotto il punto
di vista geografico, edilizio e sociale, sottolineando come, in diverse aree londinesi
storicamente parlando associate alla working class, questa sia stata espulsa a favore
dell’occupazione degli immobili da parte di famiglie appartenenti alla middle class. La
sociologa non parla di un processo voluto ma di un effetto collaterale legato ai
cambiamenti politico-economici avvenuti a partire dal Dopoguerra. Sottolinea inoltre
come, una volta avviata, la gentrificazione si diffonda velocemente e cambi rapidamente
la struttura originaria dei quartieri.
Fino agli anni Settanta il fenomeno viene studiato prettamente nel contesto inglese e, nello
specifico, londinese. Successivamente gli studi iniziano ad interessare geografi attivi nel
contesto americano, interessati ai processi di cambiamento in atto a Philadelphia,
Washington e New York City. Rispetto agli studi di Glass si ha un’evoluzione in quanto,
in particolare Smith
7
sottolinea il ruolo attivo del mercato immobiliare nel processo della
gentrificazione negli USA: salta ufficialmente la definizione di effetto collaterale fornita
dalla sociologa in precedenza.
6
Glass R., London: aspects of change, Mac.Gibbon&Kee, Londra, 1964
7
Smith N. (1979) Towards a theory of gentrification: a back to the city movement by capital, not people,
Journal of the American Planning Association, 45, Londra, pp. 538-549.