5
INTRODUZIONE
“Per ciò che riguarda la psiche non posso dir molto di preciso: è certo che per molti mesi sono
vissuto senza alcuna prospettiva, dato che non ero curato e non vedevo una qualsiasi via d’uscita dal
logorio fisico che mi consumava. (…) mi pare di poter dire che questo stato d’animo non è
ossessionante come nel passato. D’altronde esso non può cessare con uno sforzo di volontà; intanto
dovrei essere in grado di fare questo sforzo, o di sforzarmi di sforzarmi ecc. A parole è semplice, nei
fatti ogni sforzo conseguente diventa subito un’ossessione e un orgasmo”
1
.
Così scriveva Antonio Gramsci durante i suoi anni di prigionia, ormai ben consapevole dei mali legati
alla detenzione tanto da avere il coraggio di riflettere sul suo stato psico-fisico, piuttosto che
nasconderlo agli altri e a sé stesso, rendendolo invece noto al suo interlocutore. Tuttavia, non gli
avrebbe giovato sapere che avrebbe potuto dare un nome a quella condizione che stava
sperimentando, chiamandola “sindrome persecutoria”. Infatti, è proprio a partire dai primi decenni
del Novecento che alcuni sociologi, medici e psichiatri penitenziari, iniziarono ad analizzare gli effetti
“nascosti” e brutali che la detenzione poteva e può tuttora generare in chi la vive in prima persona.
Gli studiosi sono oggi ben consapevoli delle ripercussioni negative che l’ambiente carcerario può
suscitare sui reclusi, al punto che è possibile considerare le sofferenze psico-fisiche sperimentate
durante la detenzione come vere e proprie pene accessorie non scritte in sentenza, ma di fatto
costituenti parte integrante della condanna. Opera di riferimento è senz’altro il “Trattato di
criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense” (Ferracuti, 1990) grazie al quale oggi,
quando ci si riferisce alle alterazioni dello stato psichico dei detenuti, è possibile parlare di “sindromi
penitenziarie” o reattive alla carcerazione.
Senza dubbio il carcere rappresenta un contesto di vita molo particolare, quasi una bolla chiusa che,
pur trovandosi all’interno della società, sembra non farne parte ed esserne totalmente isolato.
Ritrovarsi all’interno di una realtà così diversa, con ritmi ben scanditi dai quali dipende la quotidianità
di ogni detenuto, senza più alcun riferimento e supporto dall’esterno, può innescare un processo di
destabilizzazione della persona, causandole conseguenze fisiche e psicologiche. La sociologia e la
psichiatria hanno dunque riconosciuto l’esistenza di patologie psico-fisiche specifiche che riguardano
la popolazione carceraria. Lo scopo del presente elaborato è quello di darne una panoramica generale
per poter consapevolizzare anche la società libera, spesso indifferente a questioni relative alla
detenzione e alle problematiche ad essa sottese, rendendola partecipe di un disagio troppo spesso
taciuto, privato di un nome e di una definizione, nascosto dietro l’indifferenza e il peso di una
responsabilità che si preferisce scaricare piuttosto che assumere perché consapevoli delle risorse e
dell’impegno necessari per farvi fronte.
1
Gramsci A. (1965), Lettera n.359 24/07/1933, in Lettere dal carcere, Einaudi, Torino
6
Definire le problematiche che verranno trattate a breve come “sindromi” non deve far commettere
l’errore di considerare un’anomalia quella che spesso è una (normale) reazione del soggetto al carcere.
È (solo) il carcerato ad essere malato o anche il carcere stesso? Infatti, un qualsiasi intervento medico
non è in grado di curare o lenire dei sintomi senza prima aver ragionato sulla causa degli stessi.
Nonostante l’ordinamento penitenziario italiano si sia sviluppato aderendo ai principi sanciti ed
enunciati nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948, nella “Convenzione europea
dei diritti dell’uomo” del 1950, nel “Patto internazionale sui diritti civili e politici” del 1966 e
soprattutto sulle “Regole minime dell’ONU per il trattamento dei detenuti” adottate nel 1955 e nelle
“Regole minime del Consiglio d’Europa per il trattamento dei detenuti” adottate nel 1973 e, fermo
restando che l’articolo 1 dell’Ordinamento Penitenziario sancisce che “Il trattamento penitenziario
deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona […] Nei
confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda,
anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”, ancora oggi
il carcere è sinonimo di espropriazione di riservatezza, intimità e affetti, spesso provocando
sentimenti di vergogna e umiliazione nonché pensieri di negatività e mancanza di speranza nella
quotidianità dei detenuti. Sebbene lo Stato italiano abbia cercato di promuovere sempre più una
visione preventivo-riabilitativa del carcere anche attraverso il maggior ricorso all’applicazione delle
misure alternative alla detenzione, il carcere rimane pur sempre un’istituzione totale con funzioni di
deterrenza e neutralizzazione del reo che, attraverso la detenzione, procura privazione, segregazione
e stigmatizzazione. Fin dall’inizio del percorso di privazione della libertà, ogni detenuto si trova a
dover fare i conti con il proprio vissuto personale e con i disagi che esso comporta, con la perdita
degli affetti più importanti, la famiglia e la rete amicale, con il controllo serrato della quotidianità e
di ogni suo aspetto, che da questo momento in poi sarà segnata da ritmi scanditi in modo preciso e
indipendenti dalla propria volontà, con la conseguente perdita della propria autonomia, che comporta
talvolta un processo di spersonalizzazione, e a sostenere il peso dell’attesa di un giudizio definitivo
nel caso di un soggetto ancora imputabile
2
. Tutto ciò può facilitare lo sviluppo o la slatentizzazione
di disagi psichici e/o disturbi comportamentali nei soggetti sottoposti a privazione di libertà, sia nel
caso in cui stiano scontando pene definitive sia se si trovino presso case circondariali dove, al
contrario di ciò che si può pensare, la quotidianità appare ancora più pesante a causa dell’ansia
sperimentata durante l’attesa di giudizio. Le diverse problematiche che possono insorgere a livello
psico-fisico nel detenuto costituiscono quindi una tematica di discussione che riguarda tutti gli istituti
di pena manifestandosi, come si vedrà a breve, in tre momenti diversi: nella fase di ingresso in carcere,
durante la fase detentiva e/o nella fase che anticipa la scarcerazione.
2
Porchetti R. (2016), Il carcere: tra rischio prisonizzazione e prospettive di recupero sociali, in Profiling – i profili
dell’abuso, anno 7, n. 3, Giornale scientifico a cura dell’Osservatorio Nazionale Abusi Psicologici (O.N.A.P.)
7
1. LE SINDROMI PENITENZIARIE
1.1 Sindrome da ingresso in carcere e vertigine d’uscita
All’interno delle istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono frequenti e possono
essere considerate come una continuazione o il peggioramento di disturbi psichici preesistenti, di cui
il recluso soffriva già prima di entrare nel circuito penitenziario, oppure come risposta di tipo
psicotico che il soggetto ha adottato di fronte a eventi particolarmente traumatizzanti come l’ingresso
in carcere, l’attesa di giudizio, la previsione di una condanna o la sentenza stessa
3
.
Come anticipato, gli studiosi hanno riscontrato la presenza di forme morbose psicopatologiche
strettamente legate allo stato detentivo, al punto da considerarle come risposta/conseguenza
dell’ingresso in carcere e dell’adattamento (più o meno riuscito) al contesto detentivo. Queste
particolari patologie vengono definite psicosi carcerarie e si presentano come vere e proprie forme
psicopatologiche, con sintomi che insorgono in soggetti reclusi e osservabili solamente in ambiente
detentivo
4
.
L’entrata in carcere presuppone senza dubbio una restrizione molto forte della propria libertà e
autonomia, da cui seguono conseguenze pesanti soprattutto per la psiche e l’emotività della persona,
talvolta sottovalutate: deprivazione sensoriale, allontanamento dagli affetti più cari, mancanza di
rapporti sociali e isolamento.
Diversi sono dunque i fattori che possono determinare uno stato di sofferenza psichica: angoscia,
ansia, impotenza, promiscuità, rapporti sociali imposti, espropriazione di ogni riservatezza e di
intimità. Il detenuto sperimenta solitudine, emarginazione, sradicamento e perdita d’identità. Va poi
tenuto in considerazione che in molti casi i reclusi presentano, già prima del loro ingresso in carcere,
problematiche legate a pregresse situazioni di disagio familiare e sociale, mancanza di modelli
positivi e strutturati con cui identificarsi e su cui poter contare per ricevere supporto e sostegno, o una
famiglia al cui interno vi siano state esperienze a carattere traumatico o in cui la violenza sia sempre
stata un elemento preponderante, vissuta come una risposta comportamentale “normale”.
Spesso a ciò si aggiunge uno stato depressivo e ansioso dovuto a sentimenti di autocolpevolizzazione
o all’attesa snervante di una sentenza di condanna definitiva, all’arresto, all’imprigionamento, al
rimorso per il reato commesso, alla previsione di condanna e altri legati a disturbi di cui il soggetto
soffriva già precedentemente.
Se non sempre o almeno non per tutti la carcerazione avviene all’improvviso, senza dubbio essa
rappresenta un evento destabilizzante tale da poter favorire lo sviluppo di problematiche di diverso
tipo causando lo scompenso di un Io, spesso già fragile.
3
Ponti G. (1988), Le psicosi carcerarie, in Principi fondamentali di Medicina Penitenziaria, n. 2, p. 850
4
Baccaro L. (2003), Carcere e salute, ed. Sapere
8
“Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, i
sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato
che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo”
5
.
È certo che per molti soggetti alla prima esperienza detentiva l’impatto con la struttura carceraria
costituisce un momento drammatico e traumatizzante, sebbene per ciascuno in modo diverso. Il
trauma che si verifica all’ingresso in carcere è qualcosa di molto serio da non sottovalutare, tanto che
oggi è possibile parlare di “sindrome da ingresso in carcere”, intesa come una serie di disturbi psichici
spesso accompagnati da disturbi psicosomatici, che compare più frequentemente e pesantemente
quanto più elevato è il grado di educazione, sensibilità e cultura del soggetto
6
. Ne consegue che il
trauma da ingresso in carcere diventi solitamente più forte quanto maggiore è il divario fra il tenore
di vita che il soggetto conduceva in libertà e quello carcerario.
Con l’entrata in carcere il soggetto perde il suo ruolo sociale, viene privato bruscamente dei propri
affetti personali, del suo spazio e della sua autonomia, perdendo anche il contatto quotidiano con la
famiglia e la sua rete sociale, iniziando a vivere, da quel momento in poi, rapporti sociali imposti e
diventando dipendente dell’Istituzione carceraria. Nel caso di detenute madri, inoltre, il peso e la
sofferenza della detenzione vengono aggravate dal distacco dai figli e dal dolore che questo brusco
allontanamento comporta.
All’inizio della carcerazione è facile che il soggetto alla prima detenzione manifesti crisi d’ansia
generalizzata ma, se il disadattamento persiste dopo il periodo iniziale, l’ansia può degenerare in
attacchi di panico e claustrofobia. Inoltre, sentimenti comuni quali frustrazione e impotenza possono
innescare ansia e crisi d’identità.
Da un punto di vista sintomatologico la “sindrome da ingresso in carcere” presenta disturbi dispeptici,
quali inappetenza, senso di peso gastrico, rallentamento della digestione, morboso disgusto per tutti i
cibi talvolta arrivando all’impossibilità di alimentarsi (Sindrome di Gull), violenti e persistenti spasmi
esofagei che ostacolano il passaggio del cibo lungo in canale digerente; possono anche presentarsi
problematiche legate alla respirazione come sensazioni gravi di soffocamento, angoscia respiratoria,
fame d’aria e manifestazioni cardiovascolari con tachicardia, vertigini e svenimenti. Nei casi più rari
si possono riscontrare anche sintomi psichici come stupore isterico, agitazione psicomotoria, crisi
confusionali, anedonia, rannicchiamento fetale, furore pantoclastico e disorientamento spazio-
temporale.
Considerando che studi e ricerche in merito alle sindromi penitenziarie sono stati inizialmente
condotti in America e che molta letteratura sul tema proviene da oltreoceano, risulta opportuno
5
Ceraudo F. (1997), La pena e la salute in carcere alla ricerca di un sostanziale equilibrio, “Archimedia”, Pisa
6
Ceraudo F. (1993), La carcerazione – Eventi psicologici, in Atti del 1° Convegno Nazionale AMAPI di Psichiatria
Penitenziaria, Parma