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INTRODUZIONE
Il 2020 verrà ricordato come l’anno della pandemia da covid-19. Un virus che in
brevissimo tempo ha stravolto totalmente la vita delle persone di tutto il mondo. Le abitudini
sia nella sfera privata che nella sfera lavorativa sono necessariamente cambiate. E si sa, ogni
cambiamento destabilizza l’equilibrio, già precario, di ogni persona. L’essere costretti a non
avvicinarsi ad amici, parenti, affetti. L’indossare la mascherina, che protegge noi e gli altri.
Il sanificare, e non il semplice pulire, ogni superficie ed oggetto utilizzato durante le nostre
giornate lavorative. Ed è proprio nella sfera lavorativa che questa pandemia ha variato, più
che in ogni altro settore, l’iter di ogni singola azione. Già attraverso i primi provvedimenti
da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri si è aperta la possibilità, per le attività che
possono essere svolte al proprio domicilio, o comunque a distanza, di utilizzare la modalità
agile per lo svolgimento delle proprie mansioni. Nel DPCM del 1° marzo 2020 (pubblicato
in Gazzetta Ufficiale il 1° marzo 2020 al n. 52)
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, all’art. 4, comma 1, lett. a), e nel DPCM
del 4 marzo 2020 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 4 marzo 2020 al n. 55)
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, all’art.1,
comma 1, lett. n) viene stabilito che la modalità di lavoro agile può essere applicata anche
in assenza degli accordi individuali ivi previsti. In condizioni normali il passaggio da lavoro
tradizionale a modalità agile si effettua praticando un percorso di formazione per guidare gli
atteggiamenti sia dei dirigenti che dei lavoratori. Percorsi di progettazione, sperimentazione,
comunicazione, sensibilizzazione, formazione e monitoraggio di questo modello
organizzativo. Come è facile immaginare non tutte le attività sono adatte a questo modello
di lavoro. Per lo più si parla di mansioni che vengono svolte attraverso strumentazione
informatica e per cui non è indispensabile la presenza in sede, rendendosi quindi non
vincolati ad uno specifico luogo lavorativo. In tempi pre-covid si stima che i lavoratori
occupati in smart working, ricoprissero circa l’1,2% della totalità dei lavoratori impiegati
nei settori che più si adattano alla modalità agile per lo svolgimento delle proprie mansioni.
Si tratta di una percentuale estremamente bassa, agli ultimi posti a livello europeo. Come
mai questo ritardo rispetto, ad esempio, a paesi come Regno Unito (20,2%) e Francia
(16,6%)? Probabilmente oltre alla struttura della maggior parte delle imprese, classificabili
di piccole e piccolissime dimensioni, vi è anche una scarsa innovazione organizzativa per
limiti strutturali per il lavoro da remoto e una bassa digitalizzazione. Per cui le aziende che
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Cfr. Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 01 marzo 2020, in
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/03/01/20A01381/sg, ult. cons. 10/07/2021
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Cfr. Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 04 marzo 2020, in
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/03/04/20A01475/sg, ult. cons. 10/07/2021
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in passato avevano già intrapreso il cammino di formazione e che, seppur a livello saltuario,
avevano già adottato lo smart working tra i propri dipendenti, si sono trovate tutto sommato
pronte al cambiamento. Tanto che, in molti casi, verrà poi adottata anche a regime questa
forma di impiego. Ma la maggior parte delle aziende si è trovata del tutto impreparata a
questa esigenza e così, senza averne la piena coscienza, la formazione e nemmeno
un’adeguata strumentazione, migliaia di persone si sono ritrovate a svolgere il proprio lavoro
nella propria abitazione. Il tutto ovviamente senza che si possa parlare a pieno titolo di smart
working, ma solo di una forma di lavoro da remoto, lavoro da casa. Sono mancate la
volontarietà, la flessibilità, la strumentazione tipiche dello smart working. Ci si è per lo più
arrangiati, in fase emergenziale, allo svolgimento del proprio lavoro nel miglior modo
possibile, per riuscire in ogni caso a non subire le problematiche di perdita lavoro, chiusura
delle aziende e altre difficoltà che molte ditte, in periodo pandemico, si sono trovate costrette
ad affrontare. L’epidemia da Covid-19 è stata repentina e le tempistiche per affrontare
l’emergenza sanitaria, non hanno permesso un’adeguata organizzazione e formazione del
personale e nemmeno della parte manageriale delle imprese. Si potrebbe considerare questo
periodo come un grande esperimento sotto questo punto di vista. Si stima che nel 2019 i
lavoratori in smart working si aggirassero attorno le 570 mila unità, crescendo di ben il 20%
rispetto all’anno precedente. Durante l’emergenza coronavirus di quest’anno, secondo una
ricerca in comune tra Cgil e Fondazione Di Vittorio, pare si siano toccate punte di 8 milioni
di smart workers
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. Nel bimestre marzo-aprile si è quindi visto l’aumento della percentuale
degli occupati in modalità agile fino all’8,8%, che nel bimestre maggio-giugno è
nuovamente diminuito fino al 5,3%. In questo ultimo periodo si evince quindi che il 40%
del personale occupato in smart working nel periodo emergenziale, è tornato a svolgere il
proprio lavoro in sede. Nonostante questo, resta l’inflazione nell’utilizzo del lavoro in
modalità agile. Dato che non va sottovalutato ma che anzi, dovrebbe far riflettere su quali
potrebbero essere le potenzialità di un eventuale ulteriore incremento di tale modello
organizzativo. Un’indagine effettuata dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro
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ha
rilevato che i dipendenti eligibili smart worker si aggira attorno al 21% del totale dei
lavoratori dipendenti. L’occupabilità in modalità agile ha rilevato che sono le donne quelle
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Cfr. Indagine Cgil e Fondazione di Vittorio su Smart Working, in
http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2020/05/Indagine_Cgil-Fdv_Smart_working.pdf,
ult. cons. 01/11/2020
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Cfr. Tempo di bilanci per lo smart working, in
http://www.consulentidellavoro.it/files/PDF/2020/AnalisiStatistiche/Tempo_bilanci_per_lo_smart_working
.pdf, ult. cons. 01/11/2020
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maggiormente impiegate (25,8%) con questo tipo di organizzazione rispetto ai loro colleghi
maschi (17,2%). Per quanto riguarda la differenza di età invece non vi sono sostanziali
differenze tra le varie fasce d’età. Invece la percentuale aumenta con l’aumentare del livello
di istruzione, passando così dal 3,9% per chi possiede la licenza media per arrivare al 35,7%
di chi ha la laurea. Per quanto riguarda la dislocazione degli smart workers, si può evincere
che nord e centro sostanzialmente si equivalgono, resta il mezzogiorno come fanalino di
coda con il 15,2%.
Secondo un’ulteriore ricerca effettuata da Euromobility
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su un campione di 3500
questionari compilati online, nonostante la precarietà con cui è stato affrontato lo smart
working, si possono evincere conseguenze positive per quanto riguarda ciò che gira intorno
al lavoro. Pensiamo ad esempio ai costi per gli spostamenti, ai tempi di percorrenza casa
lavoro e ritorno, alle emissioni di CO₂ nell’aria. Questi sono solo degli esempi. Arriviamo
poi alla soddisfazione dei diretti interessati già pochi giorni dopo l’avvio di un’indagine
sempre da parte di Euromobility
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. Su un campione di 2500 intervistati, il 45% si considera
molto soddisfatto di questa esperienza e ben il 34% vorrebbe proseguire il proprio lavoro in
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Cfr. Smart Working, indagine Euromobility 2020 sullo smart working nella fase 1 del Covid-19, in
https://www.euromobility.org/wp-content/uploads/2020/06/Euromobility-smart-working.pdf, ult. cons.
01/11/2020
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Cfr. Lo smart working in Italia, in https://www.euromobility.org/lo-smart-working-in-italia, ult. cons.
01/11/2020
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modalità agile anche al termine dell’emergenza sanitaria. Quello che quindi bisogna
augurarsi è che questa esperienza effettuata in periodo di pandemia non vada sprecata nel
futuro. Che da questo momento indubbiamente difficile e pieno di ostacoli, si possa trarre
quanto più di positivo possa esserci. Ed è proprio in ottica futura che vorrei provare ad
immaginare nuovi scenari possibili nel caso in cui lo smart working venisse portato a regime.
Potrebbe il lavoro agile aiutare l’azienda all’abbassamento dei costi fissi? Potrebbe
contribuire al ripopolamento delle zone periferiche del nostro paese? Potrebbe essere
complice di una maggior conciliazione dei tempi vita-lavoro? Potrebbe limitare lo stress da
lavoro correlato o gli eventi di mobbing interni alle aziende? È su queste riflessioni che ho
voluto improntare la mia tesi. Innanzitutto, però, è necessario capire esattamente in che cosa
consiste lo smart working e in che cosa si differenzia dal telelavoro.
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Primo Capitolo
IL LAVORO NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
1.1 Lavorare nel terzo millennio
«Il cambiamento non può essere rigidamente determinato in anticipo e condotto nella
direzione prevista. L’azione organizzativa è piena di “anomalie” e quindi non è regolabile
secondo schemi prefissati. Al tempo stesso, l’azione organizzativa è plasmata dagli assetti
culturali istituiti e contrassegnata dalla loro tendenziale persistenza.»
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L’unica cosa certa è che il cambiamento, in sé, è necessario per un avanzamento della
società in ogni campo, tantopiù nel campo lavorativo. Tutto il Novecento è stato
caratterizzato da un continuo susseguirsi di innovazioni sull’organizzazione del lavoro.
Partendo da inizio secolo con il Taylorismo, teoria che rivoluzionava il modo di lavorare e
comandare attraverso l’accentramento della linea dell’autorità nell’impresa, l’incremento
della produzione attraverso la trasparenza dei tempi e dei metodi di lavoro e usando la
scienza come base legittimante di questo suo pensiero. Frederick Winslow Taylor era il
sostenitore della teoria “one best way”, vale a dire che per ogni problema esiste sempre una
migliore soluzione raggiungibile con l’adozione di metodi scientifici di ricerca. Taylor
sosteneva anche che l’uomo, per sua natura, non era portato al lavoro. Pertanto solo
attraverso un’adeguata organizzazione esso poteva produrre a sufficienza. E l’unico vincolo
alla produzione era la resistenza fisica a sforzi prolungati. Proprio questo fu un punto debole
della sua teoria poiché le persone, per loro natura, non sono tutte uguali e non hanno le stesse
capacità. Quando per l’età, quando per il grado di istruzione, quando per il genere. La teoria
Taylorista fu messa in pratica da Henry Ford attraverso la creazione della catena di
montaggio all’interno della propria impresa. Ford fece sì che gli operai fossero tra loro
intercambiabili poiché ognuno di loro si doveva occupare di un unico compito, assai
semplice, per il quale occorressero pochi minuti di istruzione. Con l’accentramento della
parte decisionale nel vertice aziendale e l’unificazione della produzione, egli riuscì a fornire
grandi quantità di prodotti, poco differenziati tra loro, ma ad un costo nettamente inferiore
rispetto alla concorrenza che si basava sull’artigianato. Ovviamente, a lungo andare, un
operaio a tali condizioni si aliena totalmente, estraniandosi da sé stesso e perdendo il senso
del suo lavoro. Divenendo in pratica un’appendice della macchina. Questo denota una scarsa
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L. BIFULCO, Che cos’è una organizzazione, Carocci Editore, Roma 2012, p.104.
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attenzione agli aspetti sociali e psicologici del lavoratore che possono influenzarlo nella vita
e nella produzione.
Alla fine degli anni Venti, fece capolino la scuola delle Relazioni Umane che invece fece
dell’attenzione all’aspetto sociale e psicologico il filo conduttore delle sue ricerche. Il più
famoso è l’esperimento fatto presso lo stabilimento della Western Electric di Chicago dal
sociologo Elton Mayo. Furono apportate delle variazioni all’ambiente di lavoro
(l’illuminazione, la durata delle pause, delle giornate lavorative, le retribuzioni e il
controllo). Si percepì facilmente che l’umore e la soddisfazione dei lavoratori migliorò. Da
questo si poté quindi stabilire che la soddisfazione del personale aumenta la produzione. E
la soddisfazione si crea attraverso la creazione di un ambiente lavorativo gradevole. Perché
non è sempre il lavoratore che si deve adattare alle strutture, ma può essere necessario anche
il contrario. E come si crea l’ambiente ideale per il lavoro? Mayo verificò che si può ottenere
attraverso la collaborazione, la comunicazione, l’atteggiamento dei superiori e l’avere un
lavoro più interessante e da svolgere in maniera autonoma. Questa teoria portata avanti dalla
Scuola delle Relazioni Umane influenzò poi tutte le teorie future poiché finalmente si diede
spazio alle risorse umane, prendendole anche come metro di valutazione per la sanità di
un’azienda. Una ditta deve essere una sorta di madre che dispensa comprensione, che
incentiva la collaborazione e che riesce a mantenere i giusti equilibri nell’umore dei propri
dipendenti che, sentendosi soddisfatti e coccolati, troveranno l’incentivo per una maggiore
produzione. Seguendo questi ragionamenti, chi dirige l’azienda, quindi, deve essere in grado
di fidelizzarsi i propri sottoposti. A tal proposito Chester Barnard sostiene che la forza
dell’autorità sta nel fatto di essere accettata dai propri sottoposti. Pertanto la vera autorità
non è quella che usa la forza per imporsi, ma quella in grado di gestire il rapporto tra incentivi
e contributi in modo tale che i propri sottoposti siano disponibili ad eseguire gli ordini
impartiti.
Negli anni Sessanta-Settanta nascono le teorie motivazionaliste che hanno l’intento di
superare anche le teorie della Scuola delle Risorse Umane. Colui che ha ispirato questo filone
è Abraham Maslow che teorizza la piramide dei bisogni (figura 1).