1
INTRODUZIONE
Il messaggio di Martin Buber nell’opera Io e Tu è che l’uomo non è sostanza, bensì è una trama
di rapporti e di relazioni, e sottolinea la propensione duplice verso il mondo: la relazione Io-Tu e
la relazione Io-Esso. Né l’Io né il Tu vivono separatamente: essi esistono nel contesto Io-Tu. Non
è stato facile per il filosofo affermare e far accettare le sue idee, essendo un Ebreo vissuto nel
periodo della Seconda Guerra Mondiale, visto che lega molto il suo pensiero all’aspetto religioso.
Durante la sua vita si occupò principalmente della comunicazione come creatrice delle premesse
affinché i due soggetti coinvolti potessero vivere pienamente l’incontro tanto anelato. Della
comunicazione parla principalmente nell’opera Io e Tu. Il fascino disarmante dell’essenzialità
racchiuso nel titolo di questo piccolo libro di Martin Buber di solo un centinaio di pagine, apre un
universo di infinite possibilità, in cui i soggetti coinvolti possono in comune cercare la via per il
dialogo capace di unirli in una dinamica relazionale che appartiene alla stessa natura dell’essere
umano.
Per comprendere i significati nascosti nell’opera, non si può prescindere da un incontro con
l’autore. Parte del primo capitolo sarà infatti dedicata alla vita di Martin Buber, ponendo attenzione
alle persone che hanno influenzato il suo pensiero pedagogico e religioso. Il secondo capitolo è
incentrato sul pensiero dialogico del filosofo, partendo proprio da come lo considera e finendo su
come è usato il dialogo oggi nei vari aspetti della società. La filosofia del dialogo, che trova i suoi
massimi esponenti, oltre a Buber, in Franz Rosenzweig (1886 - 1929) e Emmanuel Lévinas (1905
- 1995), si propone di costruire e gettare un ponte tra un Io ed un Tu, tra un soggetto vivente ed un
altro. Ma ancor prima di essere questo, la filosofia del dialogo tenta di gettare un ponte tra il
pensiero logico-matematico e quello narrativo, (ovvero quel dialogo interiore che ognuno conduce
con il proprio io e quello di storie che ognuno racconta a se stesso), in seno all’uomo stesso,
affinché egli possa cogliere in se stesso un’unità, ancor prima di trovarla tra se stesso ed un Tu.
Con questa scelta di modello dialogico Buber vuole proporre non solo al singolo, ma all’intera
comunità, non già solo una via verso un’attenzione ed apertura ad un Tu, ma quella via attraverso
la quale si aprono soprattutto le possibilità per la creazione di uno spazio comune, condiviso, della
cui istituzione e del cui mantenimento gli interlocutori sono responsabili. Via attraverso la quale
non solo l’Io impara ad aprirsi al Tu, ma anche via in grado di condurre l’Io e Tu verso l’unico ed
eterno Tu. L’ultimo capitolo è incentrato sull’opera buberiana Io e Tu, affrontando i principali temi
dell’opera legati alla relazione e alle due parole fondamentali Io-Tu e Io-Esso. In questo capitolo
ci sarà anche una parte dedicata alla capacità adattiva dell’uomo, che porta in sé una propria
2
potenzialità, una propria forza interiore, che spesso addirittura ignora di possedere. Inoltre, la sua
forza di pensiero fa sì che egli viene a situarsi in un sistema di valori, instaurando con l’altro un
rapporto basato su un approccio di tipo dialogico/relazionale. Ed è qui che il dialogo dispiega la
sua forza capace di far convergere in un’esperienza comune ciò che inizialmente faceva parte di
un mondo di contrastanti interessi, in cui gli indipendenti universi delle nostre consapevolezze
sembravano non potersi incontrare.
3
I
BUBER E LA FILOSOFIA DIALOGALE
1.1 La vita di Martin Buber
Martin Buber nacque a Vienna l’8 febbraio 1878 da Karl Buber e Elise Wurgast. Quando i suoi
genitori si separarono, andò a vivere con i nonni paterni Salomon e Adele Buber.
1
Per Buber il
nonno rappresentava l’ultimo intellettuale dell’Illuminismo ebraico: fu lui infatti ad avviare il
nipote allo studio della Bibbia e influenzarlo con il suo atteggiamento haskalico.
2
La nonna,
invece, fu un punto di riferimento nel suo percorso formativo. Come detto dallo stesso Buber, «il
nonno era un autentico filologo, un “amante della parola”, ma l’amore della nonna per la pura
parola mi influenzò ancor più fortemente che quello del nonno, poiché questo amore era così
immediato e così devoto».
3
A quattordici anni tornò a Vienna per vivere con il padre che lo
avvicinò alla comunità chassidica (movimento ebraico di origine polacca basato sul rinnovamento
spirituale dell'ebraismo ortodosso) di Sadgora (Ucraina), dove la famiglia trascorreva i soggiorni
estivi. Nel primo incontro con la comunità, poté conoscere uno zadiq (il capo della comunità
chassidica) e rimase impressionato dalle parole e dall’autorevolezza manifestata del
comportamento dell’uomo. In quest’occasione crebbe in lui un’ammirazione verso l’esperienza
chassidica. Nel 1892, dopo una crisi religiosa che lo allontanò dall’insegnamento rabbinico e dai
riti della Sinagoga, Buber approfondì il tema del pensiero laico e iniziò gli studi di Filosofia a
Vienna, per poi proseguirli a Lipsia, Zurigo e Berlino. A Lipsia aderì al movimento sionista
fondato da Theodor Herzl e ne divenne un membro attivo a Berlino, ottenendo anche la direzione
dell’organo ufficiale del movimento, la rivista Die Welt.
4
Sin dall’inizio il filosofo, all’interno del
movimento, aderì alle posizioni dei sostenitori di un sionismo culturale e spirituale, posizione che
espresse nel suo libro Israele e Palestina. Nel 1899, Buber conobbe Paula Winkler,
5
che in seguito
1
M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi (a cura di A. Poma), San Paolo edizioni, Gerusalemme 1991, pp. 1-2.
2
Haśkalah è un termine ebraico derivante dalla radice śkl, «ragione», con cui si indica il movimento culturale
(soprattutto letterario), ma anche politico-sociale, sorto nel 18° sec. in seno alle comunità ebraiche della Germania. I
centri principali furono Königsberg e Berlino. Sulle orme dell’Illuminismo europeo, la Haśkalah promosse un
rinnovamento dei contenuti culturali del giudaismo e l’emancipazione politica e sociale degli Ebrei. Il movimento si
estese poi nella Galizia polacca (1820-60) e infine in Russia (1840-81) (Voce: Haśkalah, in L'Universale - La Grande
Enciclopedia Tematica – Volumi 6-7 Filosofia, a cura di Le Garzantine, Garzanti Libri per Il Giornale, Milano 2003,
pagg. 480-481).
3
M. Buber, Incontro, frammenti autobiografici, Città Nuova, Roma 1994, p. 38.
4
Ivi, Il principio dialogico e altri saggi (a cura di A. Poma), op. cit., p. 20.
5
Paula Judith Winkler (Monaco di Baviera, 14 giugno 1877-Venezia, 11 agosto 1958) è stata una scrittrice tedesca
con lo pseudonimo di Georg Munk e moglie del filosofo Martin Buber. Figlia dell'urbanista cattolico Franz Winkler
4
diventerà sua moglie. Nei primi del ’900 il filosofo si dedicò alla promozione di una rinascita della
conoscenza e della cultura ebraica e nel 1904 si riavvicinò al chassidismo, dopo un periodo che lui
stesso definì «mondo del disordine»
6
e «dimora delle anime erranti».
7
Nel 1914, insieme ad alcuni
personaggi della politica e della cultura, formò il circolo “Forte-Kreis” (dalla località Forte dei
Marmi in Italia, dove si doveva tenere la prima riunione ufficiale del circolo), con l’intenzione di
promuovere la pace e la collaborazione internazionale e si adoperò attivamente anche per la
comprensione reciproca e la coesistenza pacifica tra ebrei e arabi in Palestina. Nel 1923, anno in
cui pubblicò l’opera Io e Tu, ottenne la cattedra di Scienza della religione ebraica ed etica ebraica
all’università di Francoforte e sempre in questa città conobbe Franz Rosenzweig,
8
con cui scriverà
una traduzione tedesca della Bibbia. Con l’avvento al potere del nazismo in Germania negli anni
’30, il filosofo fu costretto a lasciare l’insegnamento e a non parlare più in pubblico. Nel 1938, a
causa della persecuzione antiebraica, lasciò la Germania e si rifugiò in Israele, dove ottenne una
cattedra di Filosofia Sociale all’Università di Gerusalemme. Buber morì a Gerusalemme il 13
giugno del 1965.
e di sua moglie Fanny Pischler. Dopo aver frequentato un pensionato cattolico si formò come insegnante. Dal 1896
lavorò come segretaria dell'architetto e studioso Friedrich Helvig Arndt. Nel 1899, durante i corsi di tedesco, conosce
Martin Buber a Zurigo. Poiché non era ebrea, non poteva sposarsi con cerimonia ebraica e per questo nel 1901 rinunciò
alla sua fede, lasciando il Cristianesimo. Grazie al successo di "The Stories of Rabbi Nahman" (1906) di Buber, i due
si trasferirono a Berlino e lì, nel gennaio 1907, Paula si convertì all'ebraismo. Questo le permise di sposare il filosofo
il 20 aprile dello stesso anno, acquisendo così la cittadinanza austriaca del marito, recuperando in seguito quella
tedesca grazie alla naturalizzazione conseguita nel 1921 dallo stato dell'Assia. Nel 1912, sotto lo pseudonimo di
George Munk, pubblicò il primo libro, la raccolta di racconti "Die Unechten Kinder Adams" (I figli illegittimi di
Adam). Nel 1916 la famiglia si trasferì da Berlino a Heppenheim. Nel 1935 Paula fu esclusa dalla Camera di
Letteratura del Reich a causa della sua "parentela ebraica". Nel marzo 1938 la famiglia si trasferì in Palestina e durante
la “Notte dei Cristalli”, il 9 novembre dello stesso anno, la loro casa a Heppenheim fu devastata, i mobili distrutti e
parte della biblioteca dovette essere lasciata in Germania. Il romanzo di Paula "Muckensturm. Ein Jahr im Leben einer
kleinen Stadt" (Muckensturm. Un anno nella vita di una piccola città) fu composto tra il 1938 e il 1940 e descrive la
nascita del nazionalsocialismo in una piccola città tedesca. Paula Buber, tuttavia, ebbe difficoltà a trovare un editore
e il libro apparve solo nel 1953, pubblicato dall'editore Lambert Schneider. Paula Buber morì a Venezia nel 1958, di
ritorno con il marito da un viaggio in Europa e negli Stati Uniti. (Voce: Paula Winkler, in Dizionario Enciclopedico
Italiano Treccani – Volume XII, a cura di Umberto Bosco, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1970, pp. 926-927).
6
M. Buber, La mia via al Chassidismo, Mondadori (edizione 2008) p. 451.
7
Ibidem, p. 451.
8
Franz Rosenzweig fu un filosofo tedesco (1886-1929). Collaborò con Buber a una traduzione tedesca della Bibbia.
Forte dell'esperienza religiosa ebraica, contrappose all'idealismo hegeliano una filosofia centrata sui temi
dell'esperienza del singolo, dell'esistenza, nella sua finitezza e concretezza, e della morte vista come segno di una
radicale trascendenza. (Voce: Franz Rosenzweig, in L'Universale - La Grande Enciclopedia Tematica – Volumi 6-7
Filosofia, a cura di Le Garzantine, Garzanti Libri per Il Giornale, Milano 2003, pagg. 991-992).
5
1.2 Buber e l’educazione
Per Buber l’educazione è un’esperienza importantissima che fa parte della vita dell’essere
umano e non riguarda solo la singola esistenza della persona, ma anche l’unione della comunità e
delle culture. È un’esperienza difficile e delicata, non è un processo che l’uomo può improvvisare,
ma comporta una chiara determinazione e intuizione che influisce sulle relazioni interpersonali,
attraverso cui l’educazione si realizza. In merito a questo il filosofo ha scritto: « Educare significa
fare che una selezione del mondo agisca su di una persona attraverso un’altra persona».
9
Secondo
Buber nell’educazione ci sono tre dimensioni in relazione tra loro: l’educatore, l’individuo che
viene educato e il mondo. L’autenticità e l’efficacia della relazione dipende dal principio
dialogico,
10
che riguarda la capacità di stare in relazione totale con la natura, con gli altri uomini
e con le entità spirituali, ponendosi in un rapporto Io-Tu. Nel pensiero di Buber il problema
pedagogico si lega al problema etico dell’esistenza autentica e a quello dialogico, di cui è
necessario trattare per comprendere il concetto dell’educazione. Il filosofo affronta
quest’argomento in vari libri, in particolare nei Discorsi sull’educazione dove scrive:
L’educazione che merita questo nome è sostanzialmente educazione del carattere: infatti il vero educatore non
tiene conto esclusivamente delle singole funzioni dell’allievo. A differenza di colui che intende semplicemente
fargli acquisire determinate conoscenze o competenze, il vero educatore sente di avere a che fare sempre e
comunque con tutta la persona.
11
Per Buber, quindi, l’educatore nel rapporto con l’educando sente di aver a che fare con tutta la
persona, sia nella sua attualità (nel momento in cui gli sta davanti) che nella sua potenzialità (ciò
che l’allievo potrebbe diventare). Alla base della relazione educativa tra l’educatore e il suo
allievo, secondo il filosofo, c’è l’esperienza della comprensione, che riguarda l’ampliare la propria
«concretezza di persona»
12
fino a completare la situazione vissuta e rendere presente la realtà a cui
si partecipa. Secondo il filosofo austriaco questo processo avviene grazie a tre elementi: la
relazione fra due persone, una situazione comune a entrambi gli individui e l’abilità di tutti e due
di sperimentare quella situazione anche mettendosi al posto dell’altro. Fra l’educatore e l’allievo
la comprensione non è reciproca, altrimenti il loro rapporto educativo diventerebbe un’amicizia.
9
M. Buber, La domanda rivolta al singolo (Il principio dialogico), Edizione di comunità, Milano 1959, p. 248.
10
G. Milan, Educare all’incontro, Città nuova, Roma 2021, p. 35.
11
M. Buber, Discorsi sull’educazione, Armando Editore, Roma 2009, p. 83.
12
M. Marchetto, Buber: la vita come dialogo, Scholé, Brescia 2019, p. 60.
6
Infatti, l’educatore spesso deve rinnovare la comprensione con l’educando, testandola dal punto di
vista della stessa persona a cui è rivolta.
Nella seconda parte del libro Discorsi sull’educazione, il filosofo affronta il tema del rapporto
dell’uomo con il mondo che si manifesta attraverso le “visioni del mondo” delle quali è portatore
anche l’educatore. Nel testo Buber si pone la domanda: «È dunque possibile insegnare liberi da
una determinata visione del mondo? E se ciò fosse possibile, sarebbe davvero auspicabile?».
13
Il
filosofo a questo risponde che non è né possibile, né auspicabile perché per lui è fondamentale la
volontà di rimanere fedele ai fatti, che è il segno di un approccio intellettualmente onesto alla realtà
di cui si vuole comprendere la verità. Come dice lo stesso Buber nei “Discorsi sull’educazione”:
Ci sono fatti e c’è la fedeltà; la fedeltà è, come ogni cosa umana, condizionata e, come ogni cosa umana,
determinante. Non ci è concesso di detenere la verità; ma chi crede a essa ed è al suo servizio contribuisce
all’edificazione del suo regno. La componente ideologica di ciò che il singolo chiama verità è inestirpabile; ma
ciò che egli può fare è limitare nel proprio spirito la politicizzazione della verità, l’uso utilitaristico della verità,
l’inammissibile equiparazione di verità e utilità.
14
Il compito dell’educazione è quello di intervenire nel radicare la visione del mondo nel mondo
stesso, guidandola a fare esperienza e a confrontarsi con esso, conducendo la persona ad acquisire
una coscienza dettata dalla visione del mondo. Questo compito dell’educatore viene considerato
dal filosofo una “responsabilità esistenziale” della persona ed è il fattore che distingue la realtà
dalla finzione e l’educazione dall’ineducazione, o potere del sentimento fittizio.
15
Contro
quest’ultimo, per il filosofo, c’è la formazione scolastica che porta gli esseri umani a creare un
legame col proprio mondo e poi essere elevati alla fedeltà, alla responsabilità e alla realizzazione.
L’intervento educativo, come lo intende il filosofo austriaco, consiste nel guidare l’essere umano
a scegliere la realtà e la realizzazione. In questo modo il filosofo sottolinea l’importanza del tema
della responsabilità personale nell’ambito dell’educazione: è l’individuo stesso a scegliere per sé.
Alla responsabilità personale co-appartiene la libertà, infatti nell’ambito dell’educazione, Buber la
intende come la possibilità di unione e di collaborazione, perché se l’educazione non orientasse
l’impulso creativo verso di essa, il risultato sarebbe la solitudine dell’essere umano. A dare un
senso all’educazione è la tendenza all’unione, che porta l’uomo all’esperienza del dire Tu.
La libertà in quanto legata al rapporto con gli altri diventa una responsabilità e trova il suo
adempimento in quello che Buber definisce “grande carattere”, termine connesso al concetto di
13
M. Buber, Discorsi sull’educazione, Armando Editore, Roma 2009, p. 74.
14
Ibidem, p. 76.
15
M. Marchetto, Buber: la vita come dialogo, Scholé, Brescia 2019, p. 62.
7
“direzione” perché la grandezza dell’uomo consiste nella fedeltà alla sua natura dialogica che lo
indirizza verso il Tu.
16
Il grande carattere esplicita la definizione di uomo dialogale come colui
che è capace di vivere l’esistenza autentica e di impegnarsi nel compito di realizzare la dimensione
dell’Io-Tu nelle varie situazioni. Come detto dallo stesso Buber:
È questo che chiamo grande carattere, quello che grazie alle sue azioni e ai suoi atteggiamenti risponde alle
richieste della situazione a partire da una profonda disponibilità, dalla responsabilità di tutta la sua vita. Cosicché
l’insieme delle sue azioni e atteggiamenti rivelino nella volontà anche l’unità del suo essere, del suo essere radicato
nella responsabilità.
17
Altro tratto distintivo del grande carattere è l’unità della persona. La sua formazione non è uno
dei compiti principali dell’educatore, ma la assume come meta suprema dei suoi sforzi. Buber, per
spiegare l’incontro tra l’educatore e il grande carattere nei “Discorsi sull’educazione”, fa
l’esempio dell’impatto esercitato da una classe su un insegnante che si trova davanti ad essa per la
prima volta. All’inizio intorno a lui c’è solo rumore, curiosità, ed è tentato di intervenire
imponendo delle regole, ponendo così un freno a ciò che viene dal basso. Chiede quindi agli alunni
cos’è il Mar Morto. La risposta che riceve da uno di loro non è solo una risposta secca, ma il
ragazzo racconta la sua esperienza relativa al Mar Morto. La classe, appena il ragazzo comincia a
raccontare, fa silenzio e ascolta. Con quest’esempio, il filosofo vuole far capire che l’insegnante
invece di partire dal basso è partito dall’alto, mostrando ai suoi allievi che anche il grande carattere
deve maturare e migliorare perché non nasce già perfetto. Questo l’educatore lo dimostra a chi
comincia a rendersi conto della sterilità spirituale che prende chi non decide con tutto se stesso e
con piena responsabilità. Per quanto riguarda invece la formazione del carattere, a differenza di
altri fattori che si imprimono su di esso contribuendo a formarlo, l’insegnante esprime la propria
volontà di voler partecipare alla sua formazione, a partire dalla consapevolezza che lui stesso è
una selezione di ciò che è giusto e di ciò che deve essere l’individuo.
18
Nella formazione
dell’individuo, l’educatore è accompagnato da tre elementi: l’umiltà, che gli fa sentire di non
essere l’unico elemento che influisce sulla formazione dell’individuo; l’auto-riflessione, che
riguarda la consapevolezza di essere l’unico dei fattori che influisce su tutta la persona; la fiducia,
che Buber considera come unica via di accesso all’allievo, perché grazie a questa l’individuo
impara a chiedere e l’educatore ottiene la fiducia in virtù della partecipazione alla vita dell’allievo.
16
G. Milan, Educare all’incontro, Città Nuova, Roma 2021, p. 54.
17
M. Buber, Discorsi sull’educazione, Armando Editore, Roma 2009, pp. 99-100.
18
M. Marchetto, op. cit., pp. 67-68.
8
Un altro argomento legato all’educazione nella “filosofia della relazione” di Buber è la
creatività. Nella prima parte del libro Discorsi sull’educazione sottopone al suo giudizio critico lo
“sviluppo delle forze creative”. Secondo il filosofo liberare o sviluppare queste forze creative
dell’uomo non significa educarlo perché esse fanno parte delle caratteristiche del “grande
carattere”. Buber si propone di chiarire il problema partendo dalla definizione antica dell’essere
umano come “genio plasmatore”, cioè la capacità umana al suo massimo grado di dar forma alla
materia. All’inizio questa definizione era attribuita solo agli artisti, poi in seguito è stato allargato
il suo campo semantico fino ad arrivare al tema del creativo e a considerarlo come “qualcosa che
è dentro ogni persona”. Questo allargamento semantico viene considerato dal filosofo come un
vero progresso perché, anche se non tutti gli esseri umani possono definirsi geni, tutti sono dotati
in modo elementare delle capacità artistiche di base. Il filosofo austriaco più che di creatività
costitutiva dell’individuo, preferisce parlare di “istinto generatore” e “impulso creativo originario
o istinto primordiale”,
19
che si esprime prima nel bambino e poi nell’adulto attraverso l’istinto di
produrre delle cose e partecipare alla trasformazione del mondo. L’impulso creativo primario, se
lasciato a se stesso, non porta ai due elementi indispensabili per la costruzione di una vera esistenza
umana: il coinvolgimento attivo e l’ingresso nella reciprocità. Secondo il filosofo, creare un
oggetto per l’essere umano è un onore, ma il vero nutrimento dell’immortalità è l’essere impegnato
in un lavoro insieme a qualcun altro ed esserne parte o l’essere parte di un progetto insieme ad
altre persone.
20
L’uomo come creatore originario è da solo e quando la sua opera viene accolta da
persone entusiaste, questo non lo aiuta perché l’individuo non sa se l’opera è veramente piaciuta.
Per Buber, l’unico modo in cui l’individuo lo può venire a sapere è:
Solo se qualcuno gli prende la mano, non come ad un “creatore”, ma come una co-creatura sperduta nel mondo, e
con l’intento di essere per lui, al di là delle arti, compagno, amico, amante, egli prende coscienza della reciprocità
e si lascia coinvolgere.
21
Oltre al problema della creatività nel tema pedagogico, Buber ritiene molto essenziale sostituire
le frequenti correnti educative basate sullo sviluppo dell’individuo con l’educazione autentica.
Secondo il filosofo, infatti, attraverso l’educazione autentica avviene la vera realizzazione
dell’essere umano. In molti suoi scritti tratta dell’educazione autentica in tutti i suoi aspetti, in
particolare della figura dell’educatore. La sua opera Il cammino dell’uomo può essere inteso come
19
Impulso indipendente, non derivato da altri istinti.
20
M. Buber, Discorsi sull’educazione, Armando Editore, Roma 2009, p. 38.
21
Ibidem, p. 39.
9
un libro di consigli rivolti in particolare agli educatori, chiamati in prima persona ad essere artefici
del cammino che è l’educazione nel suo più profondo significato. Secondo il filosofo, l’educatore
deve essere consapevole che l’esistenza umana è un cammino al quale ciascuno è chiamato
personalmente. L’educatore ha il compito d’intraprendere con decisione il proprio percorso di
crescita, in dialogo con il suo passato e il proprio destino. Nel libro Il cammino dell’uomo, il
filosofo austriaco scrive che è essenziale ascoltare quella “domanda esistenziale” che fin da
Adamo è con l’essere umano, chiedendo di essere considerata e di ottenere una risposta: “Dove
sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo
tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?”
22
L’educatore ha il compito di prendere coscienza
dell’importanza dell’interrogativo e non farsi impressionare da questo tipo di domande. Infatti, il
compito educativo che gli è stato affidato gli impedisce di prendere posizioni difensive o di
chiusura, perché questo impedirebbe all’educatore di creare una relazione interpersonale autentica
e realmente educativa. Queste posizioni sarebbero un modo per nascondersi, un modo per sfuggire
alle responsabilità della vita.
Nello stesso libro, Buber spiega che qualsiasi congegno di nascondimento non riguarda solo il
nascondersi all’occhio di Dio e degli altri esseri umani, ma è soprattutto una falsità perché l’uomo
si nasconde a se stesso. In questo modo si crea una situazione problematica perché l’uomo non
può nascondersi all’occhio di Dio, ma facendolo si nasconde a se stesso. Nel libro Il cammino
dell’uomo, per spiegare meglio questo concetto, Buber fa riferimento al peccato di Adamo.
Quest’ultimo si nasconde per non rendere conto a Dio, e per sfuggire alla responsabilità della
propria vita. Secondo il filosofo austriaco, così fa ogni uomo, perché ognuno è Adamo e si trova
nella sua stessa situazione. Per sfuggire alla responsabilità della vita, l'esistenza si trasforma in un
congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo in questo nascondimento
davanti a Dio, l'uomo scivola nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che diventa
sempre più problematica. Questo vuol dire che l'uomo non può sfuggire all'occhio di Dio ma,
cercando di nascondersi, si nasconde a se stesso anche se dentro di sé conserva qualcosa che lo
cerca, e che lo rende sempre più difficile da trovare. È in questa situazione che l’essere umano
viene colto dalla domanda di Dio, perché vuole distruggere il congegno di nascondimento e fargli
vedere dove lo ha condotto la strada sbagliata. A questo punto tutto dipende dal fatto se l’essere
umano si pone la domanda. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, la sua vita
resta priva di un cammino finché egli non affronterà la voce di Dio. Adamo affronta la voce,
riconosce di essere in trappola e confessa: “Mi sono nascosto”. Qui inizia il cammino dell'uomo.
22
M. Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni QIQAJON Comunità di Bose, Magnano 1990, p. 18.