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INTRODUZIONE
L’idea del presente lavoro è sorta dall’intreccio di esperienze personali e spunti
all’avanguardia che diversi professori hanno inserito con lungimiranza nel percorso della
nostra formazione di futuri wellbeing specialists. Infatti, dopo che il mio relatore, il
professor Gaggioli, mi ha lanciato la sfida di realizzare il mio progetto di tesi esplorando
il tema del viaggio come esperienza trasformativa mi sono trovata di fronte ad una novità
alquanto spiazzante ma in grado di stimolarmi e incuriosirmi. Nonostante questo, però,
desideravo fortemente che il mio lavoro rispecchiasse me stessa, motivo per cui – nei
piani iniziali – avevo deciso di declinare l’argomento proposto indagando il viaggio di
volontariato internazionale, in quanto nel settembre del 2019 ho preso parte ad un
intervento psico-sociale sulla resilienza in Sri Lanka e mi sono fermata oltre nell’isola
proprio per fare anche un’esperienza di volontariato in una ONG della capitale. Il
soggiorno cingalese ha avuto tutti i connotati di un’esperienza trasformativa anche se – a
differenza di alcuni aspetti che da subito hanno rivelato il loro potere trasformativo – certi
traguardi e cambiamenti li ho raggiunti solo dopo parecchio tempo e intense riflessioni.
In generale posso, dunque, essere una testimone di come un determinato tipo di viaggio
– definibile “eudaimonico” dal punto di vista psicologico – possa condurre la persona che
lo intraprende ad una maggiore scoperta di sé, dei valori che sente propri e delle priorità
che guidano la sua azione quotidiana.
Tuttavia, in seguito alla diffusione dell’epidemia di Coronavirus è stato impossibile per
molti volontari partire per le loro missioni all’estero e, di conseguenza, è stato necessario
rivisitare il disegno di ricerca iniziale. Poiché, nel contesto della pandemia di Covid-19,
il ruolo dei volontari ha rappresentato un aiuto consistente e fondamentale, il campione
dello studio è comunque rimasto costituito da volontari che hanno prestato servizio
nell’ambito del soccorso. Inoltre, sebbene alcuni elementi del viaggio di volontariato –
quali le circostanze di vita differenti da quelle familiari, il contatto interculturale, attività
che stimolano la contemplazione che conduce ad un processo di meaning-making e
riflessione – siano in grado di generare con maggior probabilità una trasformazione
(Kottler, 1998)
53
, ciò non esclude la possibilità che esperienze trasformative possano
essere elicitate anche in contesti di vita più quotidiani (Gaggioli, 2016)
40
. Infatti, un
processo trasformativo può prendere avvio nel momento in cui una persona vive
un’esperienza nuova, difficilmente interpretabile mediante il proprio frame of reference,
in grado di elicitare una risposta affettiva e nella quale, spesso, è possibile percepire un
2
senso di vastità oppure emozioni quali stupore o impotenza (Stepanova, Quesnel &
Riecke, 2018)
98
. In tale direzione è plausibile poter asserire che i volontari in generale e
quelli che militano nell’ambito del soccorso in particolare, abbiano innumerevoli
occasioni di trovarsi in situazioni sfidanti e difficili da gestire che potrebbero favorire una
trasformazione. Proprio in virtù del fatto che la pandemia ha rappresentato un evento
nuovo e maggiormente sfidante rispetto ai servizi a cui i volontari sono abituati, il focus
del presente lavoro prende in esame anche un altro tipo di cambiamento, ossia la crescita
positiva che può scaturire in seguito ad un’esperienza stressante o che comunque richiede
di mettere in campo maggiori o diverse risorse.
Per tali ragioni, il progetto di ricerca adotta la concezione di volontariato come esperienza
trasformativa e si pone l’obiettivo di rilevare eventuali cambiamenti in variabili
psicologiche indicative di una stress-related growth che può essere stata elicitata dalle
esperienze vissute durante i servizi in tempo di lockdown.
Nel primo, infatti, tratterò del volontariato sotto diversi punti di vista per realizzare un
excursus in grado di fornire le basi per comprendere a pieno il fenomeno in questione e
procedendo, invece, mi concentrerò sulla letteratura psicologica relativa a questo tema.
Analizzando quest’ultima si potrà notare come la maggior parte delle ricerche precedenti
si è focalizzata sulla motivazione che conduce le persone a divenire volontari ma ha posto
minore attenzione agli effetti che scaturiscono dal prestare servizio. Per tale ragione,
concluderò il capitolo dapprima esponendo in generale alcuni benefici del volontariato e,
successivamente, ponendo le basi per trattare tali effetti secondo la prospettiva delle
transformative experiences. Infatti, nel secondo capitolo presenterò la principale teoria
relativa all’apprendimento trasformativo – quella elaborata da Mezirow – e approfondirò
gli effetti che il volontariato può avere dal punto di vista trasformativo.
Infine, nel terzo capitolo, introdurrò il costrutto della stress-related growth specificando
le dimensioni nelle quali è possibile che si manifesti la crescita e le variabili che svolgono
un ruolo importante nel determinare un esito positivo successivamente ad un’esperienza
avversa. La presenza di queste ultime e i domini in cui solitamente avvengono dei
cambiamenti positivi, infatti, verranno indagati all’interno del campione di volontari al
fine di indagare se e in che termini i soggetti hanno sperimentato una crescita a distanza
di qualche mese dal periodo più duro e impattante della pandemia.
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CAPITOLO 1 – IL VOLONTARIATO
“La vita non serve se non si serve”
Papa Francesco
1.1 Cenni storici
È possibile inquadrare il volontariato adottando differenti approcci e punti di vista.
Iniziando questa trattazione è utile ripercorrere brevemente la sua evoluzione storica per
poi esplorare le diverse prospettive che si sono sviluppate in riferimento ad esso.
Storicamente, nel Settecento il “volontario” era colui che si arruolava nell’esercito senza
che fosse obbligato o pagato da alcuno (Duguid, Mundel & Schugurensky, 2013)
31
.
Successivamente il termine, invece, iniziò ad essere impiegato per designare quanti
decidevano di assumersi un impegno civico e declinare la loro azione in progetti per
promuovere la solidarietà, la giustizia sociale e il bene comune (Marzana & Marta,
2011)
62
. Agli esordi tale impegno in ambito assistenziale e solidale avveniva
principalmente in seno a contesti religiosi e ciò era ancor più caratteristico del contesto
italiano. Infatti, in Italia il volontariato non è un fenomeno nuovo: già nel XIII secolo d.C.
a Firenze sorse la Confraternita di Misericordia, la quale fu in prima linea nel prestare
soccorso durante l’epidemia di peste del XIV secolo e, dopo essere divenuta la cosiddetta
Nuova Misericordia, si occupò di gestire i lazzaretti, le sepolture di quanti erano morti di
peste o poveri, di dare un aiuto alle persone incarcerate per debiti e alle giovani donne
non abbienti (Corchia, 2011)
25
. In questo senso, però, si trattava di un volontariato di
primo intervento, una risposta a bisogni primari e soprattutto di assistenza. Questa
tipologia di servizio caratterizzava anche le attività che si sono svolte nei periodi del
dopoguerra, in cui era necessario procedere alla ricostruzione e provvedere alla
distribuzione di generi di prima necessità a causa della povertà causata dai conflitti.
Infatti, successivamente al boom economico, molte situazioni di difficoltà in parte
scomparvero ed emersero con più evidenza forme di disagio non solo economiche ma
anche legate alla malattia, alla devianza e all’abbandono. Queste ultime contribuirono alla
nascita di associazioni di volontari che operano non solo in concomitanza di emergenze
bensì in modo continuativo e con l’intendo di svolgere una prevenzione del disagio
sociale (Barbaranelli et. al., 2003)
7
.
Ancor più di recente il volontariato in Italia si è modificato nelle sue manifestazioni
poiché, a partire dagli anni Settanta, non è più stato solo un’attività esclusiva delle
associazioni religiose o caritatevoli e si sono moltiplicati gli ambiti in cui le persone
4
potevano offrire tempo e sforzi ai destinatari più disparati. Specialmente nel corso degli
anni Ottanta e Novanta, quasi tutte le attività di volontariato in ambito sociale
aumentarono. Le attività in cui si assistette ad un maggior ingaggio da parte dei volontari
erano l’assistenza agli anziani, l’assistenza ai portatori di handicap, le donazioni di sangue
e l’assistenza ai malati. Come si può evincere dall’elenco riportato, nonostante i settori
più diffusi siano rimasti quelli socio-assistenziale e sanitario, tale tendenza è diminuita
dagli anni Novanta a favore di un aumento del volontariato cosiddetto “civico” volto ad
accrescere la consapevolezza e la partecipazione dei cittadini ai contesti sociali mediante
attività di informazione, prevenzione e difesa di beni pubblici. Esso, inoltre, mira a
costruire un legame tra cittadini e tra loro e le istituzioni. In tal modo, attraverso la
partecipazione sociale, si promuove un empowerment della comunità e dei membri stessi
in quanto essi si assumono la responsabilità del loro stesso benessere e imparano a
valorizzare le risorse presenti nella propria comunità. Ciò testimonia anche come le
attività delle organizzazioni si stiano estendendo ad altri campi, quali la protezione civile,
l’educazione, la promozione di eventi sportivi e ricreativi (Ascoli, & Cnaan, 1997)
4
.
È sempre negli anni Novanta, inoltre, che il volontariato è stato largamente promosso a
livello nazionale in seguito all’emanazione della legge quadro 266/1991 (Fedi, & Gattino,
2004)
34
poiché negli anni Ottanta le organizzazioni del Terzo Settore hanno raggiunto la
consapevolezza relativa alla necessità di trovare nuovi modi di collaborare con le
istituzioni pubbliche (Ascoli, & Cnaan, 1997)
4
.
La legge 266/1991 è, difatti – da un punto di vista giuridico – la prima legge emanata nel
nostro Paese in relazione al volontariato. Un successivo pilastro fondamentale è stato,
invece, il decreto legislativo, definito “Codice del Terzo settore” del 2017, il quale aveva
la finalità di “sostenere l'autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma
associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di
coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l'inclusione e il pieno
sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione
lavorativa” (Gazzetta Ufficiale, 2017)
1
e attribuiva al volontariato un particolare valore
sociale in quanto espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo (Fedi, & Gattino,
2004)
34
. A tal proposito, è importante quanto affermato da Fedi e Gattino (2004)
34
, per i
quali il volontariato è composto dall’intreccio di una dimensione “clinica” – che si
esplicita nell’aiuto offerto all’altro in stato di necessità – e di una “politica”, che è intrisa
di solidarietà e di interesse per le questioni sociali.
5
Il volontariato, dunque, rappresentava un caposaldo del cosiddetto Terzo Settore, il quale
occupava un ruolo cruciale all’interno de Welfare. Più precisamente il Terzo Settore
intendeva superare la logica del Welfare State, garantendo criteri di efficacia, efficienza
ed economicità ai servizi socio-assistenziali nonostante le prestazioni a carattere
volontario e l'ottimizzazione delle risorse. Infatti, in seguito alla crisi del Welfare negli
anni Novanta, si è cercato di instaurare una maggior dialettica tra pubblico e privato al
fine di giungere ad un Welfare comunitario contraddistinto dalla pluralità dei partecipanti
coinvolti. In questa direzione i volontari hanno rappresentato risorse a cui attingere al fine
di abbattere i costi della spesa pubblica pur mantenendo un’ampia scelta di servizi
diversificati e di alta qualità (Valastro, 2012)
102
.
1. 2 La tradizione psicologica sul volontariato
Passando ora ad analizzare il volontariato da un punto di vista più psicologico, è
necessario iniziare mettendo in evidenza come la tradizione di ricerche nel campo della
psicologia sociale si sia inizialmente focalizzata sui comportamenti prosociali occasionali
e che possono essere ritenuti quasi “accidentali”, in quanto messi in atto dai presenti,
spontaneamente ma in modo inaspettato, a causa dello scoppiare di una situazione di
emergenza non prevista. Un’altra tradizione di ricerche, invece, si è focalizzata su un tipo
di assistenza continuativa ma in un certo senso obbligata, in quanto rivolta a familiari o
cari in stato di sofferenza e necessità e, dunque, inquadrabile in termine di caregiving
(Omoto, & Snyder, 1995)
76
.
Solo più recentemente gli psicologi hanno cominciato a far luce su quelle attività svolte
in modo più strutturato e reiterato e hanno definito il volontariato come una tipologia di
comportamento prosociale che non consiste in un’unica e sola azione prosociale
spontanea e non pianificata, bensì assume i tratti di un servizio a lungo termine e
continuativo, solitamente realizzato all’interno di un contesto organizzativo, a beneficio
di estranei (Penner, 2002)
85
. Le attività di aiuto erogate dai volontari, infatti, in genere
sono state ricercate da essi – poiché corrispondenti ad un interesse o a loro abilità e
competenze – e qualcosa per cui si sono preparati e che svolgono spendendo tempo e
sforzi (Omoto, & Snyder, 2002)
77
.
Ellis and Noyes, definendo il volontariato come un atto derivante dal riconoscimento di
particolari stati di necessità negli altri, inoltre, sottolineano il senso di responsabilità
sociale che ne sta alla base, in virtù del quale vi è un’assenza totale di preoccupazione per
una qualche forma di compenso (Duguid et. al., 2013)
31
.
6
Già da queste definizioni è possibile evincere come diversi autori attribuiscono al
volontariato varie caratteristiche salienti. Ad esempio, Cnaan e colleghi (1996)
22
ritengono che il volontariato debba rispondere a quattro criteri, quali la libertà di scelta,
il contesto organizzativo, l’assenza di remunerazione e l’aiuto rivolto alla comunità. Più
una certa attività possiede le caratteristiche menzionate, maggiormente rientra nel frame
concettuale di “volontariato”. Tuttavia, la conformità a tali criteri deve essere valutata
adottando un approccio dimensionale. In questa prospettiva, dunque, la dimensione della
“volontà” si declina nelle categorie di “libera scelta”, “scelta relativamente non forzata”
e “scelta obbligata”; la dimensione della remunerazione in “nessuna”, “non attesa”,
“rimborso spese” e “pagamento”; quella della struttura in “formale” e “informale” e,
infine, quella dei benefici in “aiuto ad estranei”, “aiuto ad amici o parenti” e “benefici per
se stessi”. Più si selezionano le prime scelte, maggiormente si può definire come
volontariato il servizio che si svolge (Duguid et. al., 2013)
31
.
Penner (2002)
85
, oltre alla libertà con cui viene intrapreso il volontariato e al suo essere
svolto all’interno di un’organizzazione, ne mette in rilievo anche il carattere a lungo
termine e l’accurata attività di pianificazione che lo connota.
Dunque, sintetizzando, è possibile affermare che ogni attività di volontariato – essendo
rivolta a destinatari con cui non si intrattengono relazioni – non è motivata da un senso di
costrizione e, soprattutto è svolta in modo disinteressato e senza fini di lucro. Nonostante
ciò il fatto che ai volontari non sia garantita una ricompensa materiale non significa che
non possano beneficiare di effetti positivi. Inoltre il volontariato è un comportamento
prosociale programmato e per essere messo in pratica richiede una preparazione; viene
svolto per un periodo di tempo lungo e in qualità di membri di un’associazione. Infatti,
prima degli anni Settanta, esso si declinava in azioni improvvisate e spontanee volte a
offrire un contributo nella gestione di emergenze (Marta & Pozzi, 2007)
64
.
1.2.1. L’approccio funzionalista al volontariato
Un ulteriore elemento esaminato dalla tradizione psicologica oltre alle caratteristiche che
contraddistinguono il volontariato, sono le motivazioni che avvicinano le persone alla sua
pratica. A tal proposito Omoto e Snyder (2002)
77
, adottando un approccio funzionalista,
considerano che il volontariato sia intrapreso al fine di assolvere differenti funzioni e
raggiungere determinati obiettivi. Infatti, uno dei principi alla base di tale approccio,
sostiene che uno stesso atteggiamento o comportamento per persone diverse può
7
adempiere a disparate funzioni psicologiche. A partire da questo presupposto, quindi, la
stessa tipologia di volontariato potrebbe essere svolta in virtù di motivazioni, bisogni e
scopi diversificati tra loro (Finkelstein, Penner, & Brannick, 2005)
35
e questi ultimi
possono dispiegarsi nel servizio svolto e influenzarne proprio l’inizio e la durata. Clary e
colleghi (1998)
21
hanno identificato sei tipi di motivazioni che possono spingere a iniziare
un’attività di volontariato. Innanzitutto la ricerca di uno spazio in cui esprimere i propri
valori – specialmente in relazione all’importanza di fare del bene per gli altri e alla
preoccupazione per varie questioni sociali – e la conferma degli stessi mediante l’azione.
In secondo luogo l’opportunità di soddisfare la propria curiosità intellettuale acquisendo
conoscenze concrete o, in generale, sul mondo e sviluppando nuove competenze, ma
anche di affinare le abilità già possedute e dimostrare la propria competenza. Una
motivazione aggiuntiva viene denominata “sociale” e riguarda la possibilità, da un lato,
di conoscere persone e intessere nuove amicizie allargando il proprio network relazionale
e, dall’altro, di ingaggiarsi in un’attività riconosciuta socialmente e vista in modo positivo
dagli altri significativi. Un’altra funzione che il volontariato può assolvere è legata alla
carriera professionale, in quanto esso costituisce un campo in cui fare esperienza e
migliorare o acquisire competenze che potrebbero facilitare l’ingresso nel mondo del
lavoro. Un ulteriore bisogno che è possibile soddisfare tramite il volontariato è quello di
difesa del proprio ego, spostando il focus della propria attenzione da stati d’animo
negativi riconducibili ad eventuali caratteristiche non apprezzate di sé o alla percezione
di godere di privilegi rispetto ad altri in condizioni svantaggiose. Oltre a ridurre alcuni
aspetti negativi della persona e a proteggerne il Sé, inoltre, il volontariato potrebbe anche
costituire un mezzo per migliorare se stessi e, conseguentemente, rafforzare il cosiddetto
positive affect e consentire una crescita personale. In tal senso esso sarebbe una fonte di
soddisfazione, di fiducia in sé e di autostima. Infine, Omoto e Snyder (1995)
76
avevano
anche messo in luce una motivazione denominata “community concern”, ossia il senso di
responsabilità, se non obbligo, verso i membri del proprio gruppo o comunità.
Per sintetizzare, è possibile raggruppare le funzioni appena elencate in due categorie: le
motivazioni valoriale e community-based sono altruistiche e incentrate sull’offrire
qualche tipo di beneficio agli altri; al contrario le altre motivazioni (conoscenza, sociale,
ego-difensiva, di carriera e di sviluppo) sono self-focused e volte a raggiungere obiettivi
e vantaggi personali. Ciò che sembra emergere dalla letteratura è che la motivazione
valoriale sia alla base della decisione di donare tempo e risorse, anche se per i giovani
volontari è fortemente presente anche la motivazione utilitaristica relativa alla carriera, la