Nel primo paragrafo si presenta una breve descrizione della ricerca e del campione. Nei
paragrafi due, tre e quattro si descrivono i diversi momenti del rapporto con la
cooperativa, ovvero l’ingresso, l’esperienza e l’uscita. Il quinto paragrafo definisce il
ruolo del lavoro e dell'inserimento lavorativo all'interno di un progetto di riabilitazione.
Nelle conclusioni, infine, sono presentate alcune proposte operative.
La ricerca e il contesto di riferimento
Nel corso della ricerca sono state raccolte le storia di vita di ventidue persone che hanno
concluso con esito positivo un percorso di inserimento lavorativo all'interno di una delle
cooperative sociali di tipo B operanti in Trentino-Alto Adige (diciannove in provincia di
Trento e tre in provincia di Bolzano). I soggetti intervistati sono diciannove uomini e tre
donne, la maggior parte con un'età compresa tra i 35 e i 45 anni, e a parte un caso, tutti
di nazionalità italiana. La quasi totalità è in possesso del diploma di licenza media, e
alcuni hanno conseguito anche un diploma di scuola media superiore.
Per questo lavoro si è scelto di ascoltare persone con esperienze di svantaggio o disagio
sociale, ovvero soggetti con problemi di dipendenza da sostanze (droghe o alcol) o di
carcere, non considerando l'esperienza dei disabili fisici e psichici. I portatori di
handicap hanno, infatti, esigenze e problematiche diverse rispetto alle altre categorie di
svantaggio, e spesso il loro disagio è limitato alla sola mancanza di un lavoro, mentre
hanno alle spalle una famiglia, affetti e reti amicali.
È emerso che ben poche delle persone intervistate svolgevano al momento dell'intervista
l'attività appresa in cooperativa durante il percorso di inserimento lavorativo: al
momento della ricerca nove persone non lavoravano perché in mobilità o in carcere, o
perché non riuscivano a trovare un'occupazione (per problemi di salute o legati allo
stigma). Tra le tredici persone che lavoravano, tre erano impiegate in una cooperativa
sociale diversa da quella dove era stato fatto il percorso di inserimento lavorativo, e le
altre dieci erano occupate in imprese ordinarie.
La ricerca non vuole essere un'analisi di customer satisfaction, ma un'analisi dei
significati attribuiti dagli ex utenti al loro percorso di inserimento lavorativo, e
un'analisi delle rielaborazioni compiute nel corso degli anni rispetto ad esso. Malgrado
il crescente interesse per la cooperazione sociale di tipo B, e in particolare per le
opportunità occupazionali che essa è in grado di creare per le persone svantaggiate e
normalmente escluse dal mercato del lavoro, gli studi del tipo proposto non hanno molti
precedenti. Le ricerche condotte finora hanno avuto il grande merito di identificare e
definire il fenomeno, soprattutto nei suoi aspetti quantitativi, ma presentano una serie di
limiti. In particolare:
a) non considerano la percezione che la persona svantaggiata ha dell'inserimento
lavorativo; in altre parole, dal punto di vista dell'utente, l'inserimento lavorativo è
stato positivo o no? Quali significati egli attribuisce all'esperienza in cooperativa?
b) non approfondisce il ruolo che l'inserimento lavorativo ha sullo stato di benessere
del soggetto; ci si è mai preoccupati di vedere se la nuova situazione ha apportato un
qualche miglioramento nella sua vita? Come vengono valutati i bisogni dell'utente-
lavoratore?
c) non parlano della relazione tra inserimento lavorativo e integrazione sociale: cosa
significa dire che Tizio ha terminato l'inserimento lavorativo con esito positivo? Il
percorso di inserimento lavorativo serve solo a trovare un'occupazione o anche ad
acquisire competenze sociali e relazionali, oltre che lavorative?
d) si è mai pensato di monitorare il percorso di inserimento lavorativo, o di valutare
l'esito a lunga distanza dell'inserimento? Quando è il momento di considerare
concluso il progetto di inserimento lavorativo?
L'ingresso in cooperativa
La decisione di entrare in cooperativa costituisce un momento molto difficile e delicato
all'interno della storia personale, e spesso entrare in cooperativa per seguire e vivere un
percorso di inserimento lavorativo rappresenta un evento traumatico. È proprio in
questo momento che la persona diventa consapevole e prende coscienza della propria
diversità, del proprio disagio e del proprio svantaggio, si trova costretta ad accettare un
ambiente protetto come condizione per entrare o ri-entrare nel mondo del lavoro e nella
società (Aa.Vv., 2000).
Le persone intervistate offrono solitamente un quadro della loro vita burrascoso, in
modo particolare per ciò che concerne la qualità e la quantità delle relazioni sociali,
affettive e lavorative. L'esperienza, in qualche modo protetta, in una cooperativa di
inserimento, può risultare utile per analizzare il proprio stato di adeguatezza-
inadeguatezza, per conoscere e comprendere la realtà lavorativa, spesso sconosciuta, e
per ri-allacciare i rapporti interrotti con la società. W. racconta:
"…facevo fatica ad accettare le cose…una difficoltà che avevo era quella di sentirmi
utente…perché queste cooperative qui…in pratica sei un utente, quindi non sei come
nel mondo normale…lì sei un utente, e quindi è come se tu vieni trattato diciamo un po'
come un bambino…però mi ci stavo stretto, perché chiaramente non mi riconoscevo,
non accettavo. Ecco…ero io che non accettavo…ero stato io a scegliere quella
collocazione…e invece mi stava stretto che mi trattavano da utente, perché comunque
fai fatica a accettare…che poi di fatto è accettare la tua realtà…"
Non è facile accettare di essere una "persona svantaggiata", di essere portatore di un
disagio, di aver bisogno di una cooperativa sociale e quindi di un ambiente "protetto",
"non normale" per muovere i primi passi verso un inserimento lavorativo e un
inserimento attraverso il lavoro. Già, perché, queste persone necessitano di un
inserimento lavorativo, e di un inserimento nella comunità attraverso il lavoro; il lavoro,
cioè non come un fine, ma come uno strumento che aiuti la persona a crearsi e ricrearsi
una propria identità personale e sociale. M. racconta:
"(la cooperativa, ndr.) era un posto un po’ protetto…era un modo anche per essere
sostenuto…c'era esigenza di avere sostegno, di condividere questi problemi, e in un
ambiente normale era più difficile… Gente come me c'è andata per un uso strumentale,
magari perché devi…dovevi fare misura alternativa o cosa…è anche un po' un
passaggio per tirarsi fuori…perché se vai subito in un ambiente normale ti senti pesce
fuor d'acqua o saresti ancor più in difficoltà, invece…hai un passaggio un po' più
graduale anche come identità, anche il cambiamento è graduale… Non è che la tua
identità cambia da così a così, devi costruirla mano a mano…sei in cooperativa, poi sei
te che senti il bisogno di evolvere, di cambiare gente, di frequentare gente normale…è
un modo per condividere, per essere sostenuti…"
L'esperienza in cooperativa
Per la quasi totalità degli ex utenti, quella in cooperativa è la prima vera esperienza
lavorativa, il primo vero lavoro dopo anni di "carcere e piazza, carcere e piazza, …"
come racconta A. È il primo lavoro fatto con una certa continuità, la prima volta in cui
si devono rispettare tempi, modi e ritmi di lavoro che altri impongono; la prima volta
che non si può lasciare un posto anche se stufi dell'ambiente, o perché in affidamento o
perché davvero non vi è altra possibilità, altro posto dove andare, dato che la
cooperativa è "l'unica cosa che ti resta da fare". F. racconta:
"Ho fatto un po' di tutto…però mai in maniera continuativa…mi duravan poco i
lavori… Lì (in cooperativa, ndr.) ho cominciato per la prima volta a dire: devo restare
qui, mi alzo la mattina, vado a lavorare…imparare ad aver un ritmo di lavoro dalla
mattina alla sera, poi ho visto che la cosa funzionava, riuscivo ad andare avanti, e non
lo facevo solamente come alternativa alla misura detentiva del carcere… Ci ho creduto
un po' di più e ci son riuscito…non è che uno accende una lampadina, cioè, ci riesci
gradualmente, insomma passo dopo passo…perché forse è l'unica cosa che ti resta da
fare…"
La cooperativa sociale è per questa fascia di persone deboli un'opportunità unica, se non
l'unica opportunità, di poter ricominciare da capo, di potersi immaginare un ruolo, uno
spazio proprio, un'identità propria e di poterla poi costruire o ricostruire. Il vivere e
lavorare in cooperativa diventa così l'occasione per riflettere sulla propria condizione,
per sedimentare sensazioni e vissuti personali, in un ambiente comunque più familiare
del mondo normale, dato che nello "zoo" (un ex utente definisce così la cooperativa
dove è stato) vivono persone che per esperienze di vita sono profondamente diverse, ma
che sono accomunate dall'essere tutte in una condizione di svantaggio e disagio sociale.
Dai vissuti emerge la necessità che alla riabilitazione e all'attività lavorativa venga dato
eguale peso, dal momento che le due cose vanno di pari passo e non possono essere
disgiunte; emerge, inoltre, la questione se la cooperativa debba intervenire, e se sì come,
nella socializzazione della persona: è questo un suo compito? C'è il rischio di non
rispettare la libertà di scelta e l'autonomia della persona? E, connesso a questo, quanto il
progetto personalizzato tiene conto della situazione extra-lavorativa e la influenza?
Alcuni ex utenti sostengono la necessità che venga dato un aiuto psicologico alla
persona in inserimento; L. racconta:
"Mancava uno psicologo…l'operatore secondo me non era competente di ascoltare i
problemi, che non fossero lavorativi…purtroppo non tutti sono adatti per questo tipo di
lavoro…mi aspettavo di trovare non solo un capo, ma un essere umano…"
C'è una domanda di servizi aggiuntivi rispetto all'inserimento lavorativo, e quanto
emerso è significativo dei bisogni fondamentali che la persona svantaggiata ha in questo
particolare periodo della sua vita. Alla domanda "cosa ti aspetti dall'operatore", G.
risponde:
"Un aiuto, un ascolto, una relazione oltre il lavoro, non essere trattato come uno
straccio di sicuro. Il lavoro di per sé non mi dispiaceva, soprattutto quello di
restauratore, lo sapevo fare, mi dava soddisfazione…erano gli aspetti del rapporto con
gli altri che erano pazzeschi…come fossi ancora un tossico…"
I percorsi di riabilitazione sociale sono anche percorsi di formazione, che hanno
possibilità vera di successo solo in ambienti in cui sia possibile ribaltare i ruoli sociali
determinati al momento dell'avvio del processo di inserimento; una persona deve
riuscire a superare la propria subalternità ed estraneità, ma ci può riuscire solo se non
viene schiacciata su quei ruoli. Da parte della persona in inserimento c'è un forte
bisogno di socialità, di allacciare nuove amicizie, e questa è una cosa tutt'altro che
semplice, soprattutto per persone con deficit relazionali e con un limitato capitale
sociale. La questione, quindi, se la cooperativa debba dare altro oltre il lavoro non è un
problema di facile soluzione. C. racconta in proposito:
"Agire sul privato fuori dal lavoro è molto difficile, è anche una questione di scelte,
rischi di passare al livello quasi di comunità se incominci a interagire col privato e non
so se…è molto difficile, alcune persone possono prenderlo come limite all'autonomia
che uno cerca di costruirsi… Già per molte persone è difficile anche il solo accettare di
mettersi a fare un lavoro protetto, un lavoro sociale…un lavoro in una cooperativa
sociale può rappresentare che tu sei di meno degli altri…per tanta gente a livello di
orgoglio è difficile accettarlo…è difficile accettare, ammettere di essere aiutati…anche
per me è stato difficile."
Le persone in inserimento vivono in situazioni di marginalità ed isolamento, sia come
percezione di sé che come realtà di fatto, e la cooperativa deve impegnarsi a curare in
modo particolare la rete di relazioni interne trasformandole in continua occasione di
crescita. Aiutare le persone ad acquisire una professionalità significa anche aiutarle a
diventare capaci ad entrare in relazione e a costruire reti di rapporti.
È emersa una diversa attribuzione di significato rispetto alla formula "inserimento
lavorativo": ciò che secondo la cooperativa è un inserimento riuscito, può non esserlo
per l'utente, dal suo punto di vista. Che cosa si intende e quale significato concreto va
attribuito alla locuzione "Tizio ha terminato l'inserimento lavorativo con esito positivo"?
R. racconta:
"…pensa che adesso vanno in giro a dire che mi hanno piazzato, che hanno avuto
successo, ma quale successo…"
È importante, quindi, definire e chiarire bene il ruolo dell'inserimento lavorativo
all'interno della storia personale di una persona in condizioni di svantaggio, definire
"per che cosa si fa il progetto" e in quale contesto sociale ci si colloca. Esplicitare ciò a
cui il progetto individualizzato tende, comporta considerare il contesto in cui si opera, e
questo non è per niente facile, perché quando si ha a che fare con persone e gruppi
sociali su queste scelte si hanno posizioni diverse, che mutano nel tempo e che possono
venire dichiarate in un modo e agite in un altro (Aa.Vv., 2000).
L'inserimento lavorativo deve porsi come obiettivo la produzione di benessere e di
autonomia, deve influenzare la qualità della vita delle persone attivando processi,
soprattutto di apprendimento, che facciano maturare nelle persone nuove strategie di
fronte ai problemi quotidiani. La vita lavorativa di una persona non rappresenta tutta la
sua esistenza, e l'inserimento al lavoro non costituisce il punto di ingresso nella scena
dell'inclusione, ma il punto di partenza. Una persona è soprattutto ciò che sa, ossia ciò
che ha vissuto, e per questa ragione ha già un posto nella società, ha già una sua dignità,
ha già diritto a tutti i diritti.
Per la persona svantaggiata la partecipazione all'attività economica, oltre che sociale, è
condizione importante, ma non esclusiva, per realizzare un'esperienza di acquisizione ed
esercizio di cittadinanza. Nella comunità avere un lavoro genera compatibilità sociale, e
questo aspetto è fondamentale per chi è sempre stato out; è chiaro che esiste una
distanza tra l'essere out e il sentirsi in: sono modi profondamente diversi di percepire se
stessi e il mondo circostante, e di conseguenza di interagire con esso.
E. racconta:
"Una volta finito di lavorare, dove ti trovi? Ai giardini, perché non ti hanno introdotto
alla vita…allora cosa fai? Tu vai e dici: torno alla vita di prima…perché, cosa faccio?
Con chi parlo? Dove vado? Ti trovi da solo, e lì incomincia la depressione e lì ricadi
sul problema che hai avuto all'inizio…non aiutano le persone a introdursi nella società.
Ti dicono: vieni, lavora, ti fai le otto ore e poi vai a casa. Ma se uno la casa non ce l'ha,
se uno la famiglia non ce l'ha, cosa fa? Serve un incentivo, un'opportunità di conoscere
altre persone, di introdursi con le persone normali, di fargli capire che si può vivere
anche senza quel problema che tu hai avuto."
All'inserimento deve quindi far seguito una riabilitazione sociale, che non è quasi mai
automaticamente garantita dal solo fatto di lavorare. I processi di inserimento lavorativo
devono tenere in considerazione la carenza di risorse elementari di sostegno dei soggetti
svantaggiati (difficoltà familiari, difficoltà di inserimento in reti sociali, processi di
desocializzazione o di devianza).
La cooperativa deve quindi porsi l’obiettivo di aumentare e sostenere le capacità
produttive e le abilità al lavoro, valorizzando anche le risorse marginali, e creare
condizioni di miglioramento della qualità della vita. Questo obiettivo può essere per le
persone, che peraltro si trovano in situazione di cambiamento, fonte di ansia,
insicurezza e crisi personali che ovviamente si riflettono nel lavoro e nella capacità di
reggerlo. Le persone si trovano ad assumere contemporaneamente più ruoli: quella di
utente del servizio, di lavoratore nel contesto dell'attività svolta e, anche se più
raramente, di socio della cooperativa sociale. È una molteplicità di ruoli e relazioni che
richiede alle cooperative un'attenzione particolare alle relazioni e alla loro gestione.
Il progetto individualizzato, quindi, deve affiancare allo sviluppo del meccanismo
economico uno sviluppo del piano comunicativo, in grado di accrescere il capitale
sociale e aumentare i punti di riferimento (la rete relazionale).
L'uscita dalla cooperativa: alcune questioni aperte
L'inserimento lavorativo deve terminare nel momento in cui il soggetto svantaggiato ha
acquisito una serie di competenze lavorative, ma anche relazionali, sociali e affettive,
tali da permettergli, una volta introdotto nel mercato del lavoro ordinario, di sostenere i
nuovi ritmi di lavoro e il nuovo ambiente organizzativo. Alcuni soggetti, anche dopo un
periodo piuttosto lungo in cooperativa, rimangono scarsamente produttivi e incapaci di
entrare in meccanismi di inclusione sociale, o perché dispongono di risorse
professionali scarse, o perché non dispongono di sufficienti capacità di adattamento,
oppure perché i problemi di socializzazione pur se attenuati risultano ancora un ostacolo
sostanziale ad un pieno inserimento produttivo.
È necessario che le esigenze legate all'effetto sostituzione (Marocchi, 1999) si
coniughino con le esigenze e i tempi della persona in inserimento; la decisione di
determinare la fine del percorso di inserimento lavorativo deve essere slegata dalle
convenienze economiche, deve tenere conto delle capacità lavorative apprese, ed è
fondamentale considerare anche le abilità sociali e relazionali raggiunte. L'ex utente che
lascia la cooperativa per essere assunto in un'impresa normale, rischia altrimenti di
trovarsi a fronteggiare un doppio handicap: quello di essere stato un emarginato sociale
e quello di avere lavorato in un ambito che non viene riconosciuto come formativo di
competenze attrattive da un punto di vista produttivo.
Un buon inserimento lavorativo non è solo dare un lavoro "vero", anche se questo è
condizione necessaria; poiché il lavoro è scambio, e questo dello scambio è un punto
sensibile della vita, molte persone in svantaggio sanno accorgersi se il lavoro in cui
sono impegnate è vero oppure no, se serve a produrre reddito o solo a far passare le ore.
Nelle parole degli utenti, quello in cooperativa non è semplice lavoro, loro parlano
spesso di lavoro "non normale" per riferirsi alla realtà della cooperativa, e di lavoro
"normale" per quello effettuato al di fuori, nel mercato ordinario; inoltre, nei loro
discorsi ricompare spesso anche la dizione "lavoro protetto". F. racconta:
"Come rapporto, come orari, come tutto, si sta bene insomma…forse troppo, perché c'è
molta diversità tra la cooperativa e un altro posto di lavoro… Finiti gli affidamenti io
ho detto: guarda, voglio andarmene via perché voglio provare ad avere un lavoro
normale…cioè la cooperativa sociale non è che non è un lavoro normale, però…"
Uscire dalla cooperativa dopo aver terminato l'inserimento lavorativo può costituire un
trauma, soprattutto per chi nella cooperativa aveva trovato un rifugio, un ambiente
familiare capace di dare nuova speranza e nuova linfa ad un vita segnata da disagi. Nella
società e sul mercato del lavoro, questi soggetti arrivano impreparati, appena usciti si
trovano a dover affrontare difficoltà che appaiono insuperabili (mancanza di un
alloggio, mancanza di legami forti e di amicizie), che spesso fanno ricadere la persona o
in depressione o nel disagio.
Per chi ha terminato il percorso di inserimento si presenta il problema della ricerca di un
lavoro, e per chi non ha un'esperienza professionale certificata o almeno spendibile, per
chi magari non è più giovane, il lavoro "normale" può diventare una chimera e la
persona si trova costretta a cercare-accettare lavoro in un'altra cooperativa sociale,
rimanendo nell'orbita del disagio e non riuscendo a emanciparsi totalmente.
In altri casi, il percorso di inserimento lavorativo è risultato addirittura controproducente
per via dell'effetto stigma negativo: la partecipazione a questo particolare programma
formativo, la permanenza in cooperativa per un certo periodo, infatti, può essere
interpretata dalle imprese come un segnale di bassa produttività potenziale. Si ha paura
ad assumere una persona per "quel che ha fatto" e raramente ci si chiede "quel che è
disposta a fare ora". Nell'immaginario collettivo scatta un processo di individuazione-
giudizio, che va al di là della persona e utilizza gli stereotipi che tipizzano quella
particolare categoria. E. racconta:
"…il brutto è questo, una volta che uno lavora nelle cooperative continua a lavorare
nelle cooperative, vai nelle imprese normali e ti dicono: perché sei andato in una
cooperativa? Hai sempre mezza porta chiusa…ti marchiano…una volta che sei
marchiato basta…una volta che sei andato in cooperativa ti dicono: come mai, che tipo
di problemi hai avuto? È un marchio…la gente è anche…stenta a vederti come una
persona normale, anche chi vuole farsi una vita normale non può, sente sempre
problemi. La cooperativa…ok…ti da il lavoro, però in sé stessa non ti aiuta ad inserirti
nella società…loro ti dicono ok noi ti diamo il lavoro per aiutarti a non rifare quello
che hai fatto…però loro non ti dicono…ok ti diamo un incentivo per inserirti nella
società, non ti aiutano ad avere un colloquio con altre persone…ti lasciano lì…tu vieni,
ti fai le otto ore…bon basta hai finito. La cooperativa oltre a darti il lavoro dovrebbe
aiutare le persone che hanno avuto problemi a inserirsi nella società, a conoscere altra
gente…va benissimo il lavoro, però…manca quell'incentivo alla persona di dire ok
cambio totalmente vita."
Ciò che sembra caratterizzare il vissuto di queste persone non è soltanto che non
abbiano la speranza di trovare un lavoro, è soprattutto che abbiano interiorizzato giudizi
altrui. Sperimentano al tempo stesso il desiderio di lavorare di nuovo, e l'adesione,
forzata, alla sanzione sociale di cui sono vittime e contro cui non possono far nulla.
Sorge così lo sconforto a ricominciare, e il rientro nella comunità appare come un passo
impossibile da fare, un passaggio troppo difficile da compiere, almeno da soli.
Occorre quindi valutare attentamente chi è pronto per inserirsi e chi no, e aiutare
nell'inserimento esterno (per ridurre lo stigma), seguendo magari le persone per un certo
periodo di tempo.
Svantaggio, inserimento lavorativo e integrazione sociale
Per i soggetti svantaggiati il lavoro è importante. Esso offre loro nuove opportunità in
merito agli aspetti economici, alla gestione del proprio tempo e alla riorganizzazione del
quotidiano, ad una stimolazione inconsueta (nuovo sistema relazionale) ed alle capacità
progettuali (progetti a breve, media e lunga scadenza). Diventa così possibile
individuare nella transizione al lavoro uno dei luoghi sociali dove si gioca la partita tra
integrazione ed esclusione. Il percepire che il mondo è fatto di ruoli consente alla
persona di immaginare che ci potrà essere un ruolo anche per lei, e d'altra parte chi non
ha un ruolo è fuori dall'organizzazione sociale, indipendentemente dal fatto che sia
svantaggiato o no. La società complessa è organizzata per ruoli ed il singolo è collegato
alla complessità attraverso i ruoli.
Il lavoro che le cooperative sociali garantiscono ai soggetti in inserimento è lo
strumento per acquisire in modo autonomo le risorse economiche necessarie alla vita, e
va inteso come tramite di una azione di sostegno e di promozione umana. Il lavoro,
tuttavia, di per sé non costituisce una garanzia di miglioramento complessivo della
situazione personale di un soggetto emarginato: stabilità e sicurezza economica non
portano di riflesso stabilità e sicurezza di vita. Ciò significa che gli interventi nei
confronti di persone in situazione di disagio sociale devono consistere sia in azioni di
politica attiva del lavoro, che in azioni di recupero, accompagnamento e reinserimento
sociale.
Se consideriamo la multidimensionalità dello svantaggio e la varietà dei percorsi di
impoverimento, non ci si può limitare alla redistribuzione delle opportunità di lavoro. Si
tratta di intervenire su una complessità di fattori che indipendentemente dal problema
delle risorse di reddito e di lavoro, costituiscono le ragioni della fragilità esistenziale di
una persona: questioni che hanno a che vedere con la mancanza di istruzione, di una
famiglia adeguata, di inserimento in reti sociali, di difficoltà di integrazione sociale, di
perdita di stima di sé e di fiducia negli altri.
Il lavoro è spesso concepito come dispositivo unico dell'inserimento, quasi che tutta la
posta dell'esclusione sociale si giochi nel lavoro, ma "inserimento" e "lavoro" sono due
questioni collegate ma distinte. La ri-abilitazione è un recuperare e un potenziare le
capacità utili per un'attività competente lungo quattro assi o contesti: la casa, il lavoro,
gli affetti e i saperi o competenze (d'Angella, 2000). Ciò consiglia di alleggerire la
pressione sulla questione lavoro, evitando che il lavoro divenga l'aspetto totalizzante a
cui sono vincolati in modo esclusivo la riuscita e il fallimento, l'entusiasmo e la
frustrazione. Ciò che è necessario, quindi, è la realizzazione di un progetto complessivo
sul soggetto: non si può lavorare sul suo inserimento lavorativo dimenticando le altre
parti della sua vita.
La questione è complessa, vi sono due problemi importanti: uno legato alla carenza
delle risorse, ed un secondo dovuto alla carenza delle capacità di utilizzare le risorse che
potenzialmente si hanno a disposizione. Le carenze di capacità dipendono sia da
caratteristiche personali (handicap fisico o intellettivo, difficoltà di adattamento, di
impegno, crisi del sé, ecc.) che ambientali (mancanza di un'abitazione o di una famiglia
adeguata). Esiste quindi uno stretto legame fra problemi di risorse e problemi di
capacità: occorrono capacità per usare le risorse, ma occorrono altre risorse per esserne
capaci (Negri, 1995).
Qui sorge l'interrogativo su chi si deve preoccupare di questa complessità e su come
affrontare questi problemi. Di certo non li si risolve trasformando le cooperative di tipo
B in "tuttofare", o chiedendo loro di diventare delle agenzie capaci di risolvere tutti i
problemi, dal sostegno psicologico all'aiuto nel trovar casa; e questo sia per oggettivi
limiti organizzativi e per mancanza di strumenti adeguati, sia perché le cooperative di
tipo B sono state normate per privilegiare l'inserimento lavorativo.
La cooperativa non può essere la risposta a tutti questi bisogni, e da qui l'esigenza della
costruzione di una rete integrata di servizi.
Conclusioni
L'inserimento dei soggetti svantaggiati nel mercato del lavoro attraverso
l'intermediazione delle cooperative sociali non può essere l'unico intervento di politica
sociale a favore delle persone svantaggiate, ma deve essere affiancato da strumenti
diversi. La proposta è di attivare altre risorse, in termini di valori condivisi, consenso
sociale, relazioni con diversi ambienti e stakeholder esterni (istituzioni locali, mondo
del volontariato, comunità ecclesiale, forze sociali, imprese e loro organizzazioni),
affinché gli inserimenti lavorativi non finiscano rinchiusi in interstizi marginali.
Il processo di superamento dell'esclusione si gioca solo parzialmente all'interno del
luogo lavoro, inteso come ambito di socializzazione e di apprendimento di capacità
socializzanti. Il livello di compromissione sociale di queste persone è tale per cui il
lavoro non può che essere un luogo del recupero, difficoltoso e parziale, che si deve
dispiegare nella più ampia dimensione della vita quotidiana degli individui, che è fatta
di relazioni e di capacità di gestione delle stesse.
Per agire in modo propositivo nei confronti dell'esclusione è necessario implementare
misure che non si fermino ad un disegno occupazionale in senso stretto, ma sappiano
stimolare e sostenere lo sviluppo di capacità soggettive di progettazione e realizzazione
di un progetto di vita più articolato di quanto non sia un progetto di inserimento solo
lavorativo. L'esperienza dell'inserimento lavorativo non si esaurisce nella dimensione
dell'apprendimento di competenze lavorative, e una parte del progetto sulla persona
deve prevedere occasioni per la formazione di competenze sociali, senza lo sviluppo
delle quali l'esperienza lavorativa rischia di rimanere fine a se stessa.
La cooperativa deve allora essere capace di tessere vasti e positivi legami sociali, in
grado di favorire percorsi di riabilitazione sociale e ridurre gli effetti negativi dello
stigma che si costruisce attorno alla sofferenza e al disagio. L'inserimento lavorativo
deve creare collegamenti e sinergie sia con la società civile e con i servizi sociali
specifici, sia con le imprese al fine di individuare la domanda delle professionalità
richieste e, quindi, i successivi sbocchi lavorativi per le persone inserite in cooperativa.
La cooperazione sociale non riesce a risolvere da sola il problema del lavoro dei
soggetti svantaggiati, e al fine di migliorare l'efficacia dell'intervento rispetto
all'obiettivo dell'integrazione lavorativa dei soggetti svantaggiati, è necessario insistere
sul coinvolgimento delle imprese tradizionali. È necessario costruire percorsi di
reinserimento complessi che possano sfociare nella collocazione aziendale e che
sappiano concentrarsi sulla costruzione di una risposta multifattoriale e
multidisciplinare.
C'è la necessità di muoversi verso la creazione di una rete integrata di servizi che sappia
promuovere e valorizzare lo sviluppo di competenze lavorative e relazionali, e sappia
cogliere la complessità e la dinamicità delle traiettorie del disagio per reimpostare strade
e percorsi per un possibile recupero. Questo mutamento deve dar luogo ad un processo
di attivazione di risorse e competenze improntate a restituire al soggetto svantaggiato le
basi minime per intraprendere un cammino di emancipazione che ha, come primo
obiettivo, quello della ricostruzione di un'identità personale complessiva, costituita sia
da competenze lavorative e professionali che psicologiche e sociali.
Bisogna affiancare alle misure volte all'inserimento lavorativo azioni capaci di sostenere
i processi di sviluppo di competenze sociali (relazionali, di gestione del credito e del
capitale sociale), agendo in modo il più possibile individualizzato sui molteplici e
complessi fattori che determinano l'esclusione, al fine di favorire l'inclusione e
l'integrazione dei soggetti in stato di svantaggio e disagio sociale.
Diviene realmente cruciale che gli interventi di sostegno all'inserimento lavorativo dei
soggetti emarginati si collochino all'interno di un progetto di potenziamento più
complessivo delle risorse della persona, e non si limitino allo sviluppo di competenze
solo professionali.
È necessaria una rete di servizi che sia capace di dare risposte individualizzate ai
bisogni dei singoli; una rete che operi su più livelli:
a) con i diversi servizi (formativi, sociali, sanitari, abitativi) operanti sul territorio, con
l'obiettivo di affiancare e integrare l'attività svolta dalle cooperative sociali;
b) con il mondo imprenditoriale e le associazioni di categoria per favorire lo scambio
tra profit e non profit, ed evitare che le relazioni siano limitate alle reti amicali;
c) con gli enti locali e le amministrazioni allo scopo di creare forme di partnerariato
proficue nel contesto di un welfare municipale;
d) con le cooperative sociali di servizi (quelle di tipo A), il mondo del volontariato e
dell'associazionismo al fine di creare una rete di sostegno alla persona e di offrire
occasioni di formazione, scambio e socializzazione.