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Introduzione
L’idea della tematica di questo elaborato, nasce circa due anni fa, a seguito di una personalissima
esperienza di Servizio Civile presso una Comunità Terapeutica.
Il contatto con determinate tematiche, aver vissuto un anno a stretto contatto con uomini e donne
tossicodipendenti e avere lavorato con esperti del settore, ha permesso un esponenziale
ampliamento delle conoscenze pregresse ed una particolare affezione alla tematica.
Coerentemente con il percorso di studi già avviato, l’esperienza ha favorito un’attenzione
particolare nei confronti della Psicologia dello Sviluppo, con altrettanta concentrazione sullo
Sviluppo atipico e la differenza con lo Sviluppo tipico.
La tesi, dunque, intende immediatamente fornire al lettore un primo approccio alla psicologia dello
sviluppo, con meticolosità nei confronti dei più importanti approcci teorici, dei metodi e delle
tecniche che gli psicologi hanno offerto allo studio dello sviluppo
L’importanza di considerare ogni individuo come un essere complesso, con le sue peculiarità,
chiarifica come lo sviluppo emotivo, sociale e morale agiscano nel tempo, nella quotidianità e
nell’evoluzione.
Lo stretto contatto con l’ambiente scolastico ha permesso di prendere coscienza dei problemi dei
bambini, primo fra tutti il disagio dovuto prevalentemente a DSA, BES, problemi socio-economico-
culturali e problematiche familiari.
Occorre risalire alla causa di tali problematiche, proponendo teorie valide e conseguenti “cure”,
“soluzioni” per far si che la scuola sappia come aiutare i bambini e le loro famiglie.
Il disagio dei bambini può tramutarsi rapidamente in comportamenti a rischio sia durante l’infanzia
che durante l’adolescenza.
Comportamenti a rischio come menzogna, furto, fuga, uso di sostanze stupefacenti corrispondono ai
“rifugi” che i ragazzi trovano dai loro problemi.
La scuola e il territorio hanno il dovere di elaborare normative in ambito di prevenzione del disagio,
unitamente alle leggi e alle norme già promulgate dalle varie legislature ai fini dell’inclusione, per
quanto riguarda la scuola e ai fini curativi per quanto riguarda le dipendenze patologiche.
Le psicopatologie dello sviluppo e gli studi che li riguardano, hanno evidenziato come l’emergere e
lo stabilizzarsi dei comportamenti disadattavi hanno origini diverse ma comunque prevalentemente
radicalizzate nella famiglia.
È stato possibile infatti verificare che è proprio dalla famiglia, prevalentemente dalla madre, che
derivano i disagi dei bambini, sia dal punto di vista emotivo che sociale.
Grazie al contributo dei manuali diagnostici e delle teorie più importanti, questa tesi evidenzia le
peculiarità degli adolescenti a rischio, fornendo esempi concreti e reali.
Ci si pone l’obiettivo di proporre eventuali percorsi di recupero, sia comunitari che scolastici e
propone tecniche e strategie che gli insegnanti possono mettere in atto nella realtà della scuola
vissuta.
L’obiettivo è quello di rendere l’insegnante un “ponte” fra alunno, bambino, adolescente e la sua
famiglia, unitamente al territorio e alla società.
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CAPITOLO I
“Lo sviluppo tipico e atipico dall’infanzia all’adolescenza”
In questo capitolo, si intende descrivere l’aspetto teorico e osservativo della psicologia dello
sviluppo.
La psicologia dello sviluppo è la disciplina che indaga i cambiamenti di un individuo
conformemente al progredire dell’età.
Nasce in seguito alla consapevolezza che, infanzia ed adolescenza, fossero stadi fondamentali e
cruciali della vita di un individuo.
La disciplina della psicologia dello sviluppo si è costruita attorno a quesiti, relazioni tra natura e
cultura, cioè sul processo di crescita biologica e di acquisizione culturale.
Lo sviluppo riguarda l’intero ciclo di vita, ma le evoluzioni più drammatiche si compiono nella
fanciullezza e nell’adolescenza.
Questi periodi sono pertanto i più studiati dagli psicologi dello sviluppo.
Obiettivo del primo capitolo di questo lavoro tesistico è dunque illustrare gli approcci teorici allo
studio dello sviluppo, i metodi e le tecniche con cui gli psicologi hanno studiato e studiano lo
sviluppo.
I.1. Lo studio dello sviluppo evolutivo: premesse teoriche e modelli di riferimento;
Le domande chiave cui la psicologia dello sviluppo cerca di rispondere sono tre:
1. “qual è la natura del cambiamento che caratterizza lo sviluppo?
2. quali processi causano questo cambiamento?
3. si tratta di un cambiamento continuo e graduale o viceversa discontinuo e improvviso?”
1
Alcuni studiosi hanno preso in considerazione la natura quantitativa del cambiamento, ossia un
accumulo di cambiamenti duraturi nel tempo che determinano lo sviluppo; dall’opzione della natura
quantitativa, prendono forma le teorie comportamentistiche che vedono il bambino come un
organismo che si plasma a seguito delle esperienze e dell’apprendimento.
Altri studiosi prendono in considerazione la natura qualitativa del cambiamento, quindi il bambino
che cresce, apprende sempre di più; da questa opzione, prendono forma le teorie organismiche
secondo cui studiosi quali Jean Piaget e Lev Vygotskij, il bambino è attivo costruttore delle proprie
capacità e ciò è dovuto a fattori interni.
Il cambiamento evolutivo ha alla base fattori genetici e ambientali e le teorie evolutive si
differenziano in base a questi fattori: le teorie comportamentistiche ritengono che i fattori
ambientali e dunque le influenze esterne, modellino il comportamento del bambino; le teorie
organismiche sostengono che lo sviluppo sia determinato tanto da fattori ambientali quanto da
fattori genetici e doti naturali proprie del bambino.
Tre sono i più grandi approcci che possono essere individuati e che hanno radici classiche,
antecedenti alla nascita della stessa psicologia dello sviluppo:
1
L.Camaioni, P. Di Blasio, “Psicologia dello sviluppo”, Bologna, il Mulino, 2007
9
• l’approccio comportamentistico, che trova radici nell’empirismo filosofico, secondo cui
l’individuo è plasmabile e docile, in grado di apprendere illimitatamente dall’ambiente che
lo incita a riprodurre i comportamenti corretti e soddisfacenti mentre lo corregge dai
comportamenti sbagliati. L’ambiente quindi modella il bambino durante lo sviluppo.
L’approccio comportamentista predilige metodi di indagine sperimentativi ed osservativi in
quanto adoperano il massimo controllo sugli individui oggetti dello studio.
Due sono le correnti che prendono forma dall’approccio comportamentistico:
1) una più datata e radicale, chiamata appunto “comportamentismo radicale” che afferma
come lo sviluppo non sia niente altro che una sequenza di apprendimenti.
L’idea di Burrhus Frederic Skinner conferma che i bambini si sviluppano allo stesso
modo in quanto vivono situazioni di apprendimento simili.
Lo stesso Skinner delinea due processi secondo i quali si regola l’apprendimento: il
condizionamento classico e il condizionamento operante;
2) la seconda più recente e meno radicale che si ispira alla teoria dell’apprendimento per
osservazione di Albert Bandura, che spiega come il bambino sia in grado di apprendere
osservando, quindi organizzando e interpretando le informazioni provenienti
dall’ambiente;
• l’approccio organismico considera il bambino come colui che realizza le proprie potenzialità
attraverso il cambiamento, la sequenza e l’organizzazione.
Attraverso le nuove scoperte quotidiane, le disposizioni innate del bambino e l’influenza
dell’ambiente esterno interagiscono per formare l’essere;
• l’approccio psicoanalitico vede “l’individuo come un organismo simbolico, capace di
attribuire significati a se stesso e al mondo.
Il cambiamento è visto come l’esito dei conflitti interni”
2
. È un approccio che indaga sulla
storia personale dell’individuo e sui nessi significativi, non su cause ne effetti dei
comportamenti.
L’interesse per le fasi iniziali di vita dell’individuo inizia nel 1970 circa. Furono scoperti i
meccanismi primitivi di un soggetto, su una larga scala di abilità diverse e grazie alle tecnologie
osservative e di registrazione, quali telecamere e video registratori, si sono potuti catturare in
fotogrammi, una serie di movimenti e comportamenti neonatali, ritenuti fino a quel momento
insignificanti.
Questo ha suggerito agli studiosi dell’epoca, che “l’essere umano appena nato sa sul proprio
ambiente fisico e sociale molto più di quanto si credeva possibile e che pertanto lo studio sulle
prime fasi di vita può fornire materiale per rispondere ad alcune delle domande fondamentali : come
nasce lo sviluppo?”
3
I primi psicologi dello scorso secolo, consideravano il bambino, i suoi rapporti e i suoi
comportamenti in ambienti “ristretti”, come la scuola o il singolo rapporto madre-figlio.
Urie Bronfenbrenner
4
ha teorizzato “L’approccio ecologico dello sviluppo”, in cui si delineano
strutture ecologiche incluse l’una dentro l’altra.
Al primo livello c’è il microsistema che riguarda la relazione tra bambino-famiglia, bambino-
insegnante, bambino-compagni di scuola.
2
L.Camaioni, P. Di Blasio, “Psicologia dello sviluppo”, Bologna, il Mulino, 2007
3
L. Barone, Manuale di psicologia dello sviluppo, Roma, Carocci Editore, 2016
4
U. Bronfenbrenner, “Ecological systems theory”, 1979
10
Il secondo, il mesosistema, si considera l’abilità del bambino ad imparare a leggere come risultato,
non solo da come viene insegnato, ma anche dai legami esistenti tra scuola e famiglia.
Il terzo sistema, l’esosistema, mostra come l’individuo viene influenzato da eventi che si verificano
in situazioni ambientali in cui egli non è neppure presente.
Il macrosistema che influenza l’esosistema, “rappresenta il complesso di norme che regolamentano
la politica sociale e dei servizi in una data comunità socioculturale. Per Bronfenbrenner occorre
considerare il contesto generale in cui il bambino vive ma è molto importante non spostare
l’attenzione verso di esso perdendo di vista l’interesse principale, ovvero il bambino stesso”
5
.
Un’altra annosa questione che la psicologia dello sviluppo si è posta nel corso dei decenni è se è più
utile puntare l’attenzione sullo studio individuale dei casi di sviluppo o sugli schemi evolutivi
comuni a tutti gli individui.
Piaget e Freud formularono le “teorie stadiali” dello sviluppo, comuni a tutti gli individui, che
ancora oggi godono di popolarità.
Altri studiosi hanno messo in crisi le teorie stadiali e le tendenze evolutive universali, mettendo in
luce le evidenti differenze individuali, sia in senso interindividuale cioè le differenze nello sviluppo
di soggetti diversi, sia in senso intraindividuale cioè le differenze tra aspetti dello sviluppo in uno
stesso soggetto.
“Le differenze individuali non sono state troppo indagate dalle ricerche: nel campo di studi della
prima infanzia si è preferito identificare l’età in cui è possibile attribuire il possesso di una
determinata capacità anziché analizzare il modo in cui la capacità si manifesta.
Nelle ricerche si utilizzano misure categoriali del comportamento osservato che si limitano a
osservare se esso è presente o assente nel gruppo di bambini osservato senza associarle a misure
continue come la frequenza o la durata. In tal modo si riesce a dire qual è l’età in cui la capacità
misurata è presente nella maggior parte dei bambini ma non si dice come diversamente i singoli
bambini esprimono quella capacità.”
6
Da questo atteggiamento nei confronti delle individualità, ne consegue un atteggiamento univoco
nei confronti dei bambini, che vengono trattati tutti allo stesso modo.
La disciplina della psicologia dello sviluppo non può essere danneggiata da determinati
comportamenti errati; si ritiene dunque necessario ampliare le misure e i campi di ricerca.
Le differenze individuali, si manifestano in molti aspetti dello sviluppo, durante tutta la fase
evolutiva, dall’infanzia alla senescenza.
L’indagine cui questo lavoro di tesi vuole porre la lente di ingrandimento è quella sullo sviluppo
emotivo, sociale e morale tipico, fino alle variabili che scaturiscono nell’atipicità.
Studiare il mondo emotivo e affettivo del bambino, aiuta a comprendere se il soggetto in questione
è dotato di capacità espressive per poter segnalare, riconoscere, comprendere ciò che sente e ciò che
sentono gli altri.
Le emozioni sono un’importante componente che aiuta a sentire e percepire se stessi e gli altri e
l’ambiente che ci circonda.
5
L. Camaioni, P. Di Blasio, “Psicologia dello sviluppo”, Bologna, il Mulino, 2007
6
L. Barone, Manuale di psicologia dello sviluppo, Roma, Carocci Editore, 2016
11
L’emozione rappresenta un’esperienza complessa, che coinvolge molteplici dimensioni, che deriva
da una organizzazione cognitivo-affettiva e che lega in uno stretto rapporto organismo e ambiente.
L’emozione è quindi definita come un allontanamento dal normale stato di quiete dell’organismo a
cui si accompagna un impulso all’azione e alcune specifiche reazioni fisiologiche interne, ognuna
delle quali si esprime attraverso una diversa configurazione e designa diverse risposte emotive quali
gioia, tristezza, paura, rabbia.
L’emozione attiva reazioni fisiologiche: al livello del Sistema Nervoso Centrale e del Sistema
Nervoso Autonomo, vengono regolate le reazioni corporee conseguenti alla percezione
dell’emozione; è compito del Sistema Endocrino, regolare i livelli di stress e ansia, cui responsabile
è l’ormone cortisolo, il più comune corticosteroide rilasciato dal surrene.
Al livello cognitivo, è il pensiero che valuta le emozioni e orienta il soggetto a prendere decisioni e
ad affrontare l’evento scatenante l’emozione.
L’emozione attiva il livello motivazionale, gli scopi dell’individuo e i desideri: vengono spesso
evitati gli eventi più spiacevoli e ricercati quelli piacevoli.
A livello espressivo e comunicativo, la manifestazione delle emozioni dipende dai muscoli facciali
ed è comune a tutti gli esseri umani la difficoltà ad inibire o nascondere emozioni quali felicità o
rabbia.
Tra le molteplici teorie sullo sviluppo delle emozioni, una delle prime ricerche è stata condotta negli
anni trenta del novecento in un orfanotrofio canadese da Katherine Bridges
7
. La studiosa condusse
questo studio in base all’osservazione delle risposte fisiologiche dei bambini orfani, in un’età
compresa tra un mese e due anni di vita.
Il suo studio, puramente descrittivo, ha consentito a Sroufe
8
di ampliare, rielaborare e ideare la
“teoria della differenziazione emotiva”. La teoria si fonda sull’idea che “da un iniziale stato di
eccitazione indifferenziata, si vengano articolando, nel corso dello sviluppo, specifiche e diverse
emozioni.”
Si delinea quindi una sequenza evolutiva, che vede l’evolversi delle emozioni secondo tre diversi
percorsi:
• sistema piacere-gioia, evidente già nei primi 2 mesi di vita, indice di uno stato di benessere
generale. A 3 mesi il bambino sa indirizzare il sorriso verso persone o oggetti (“sorriso
sociale”);
• sistema circospezione-paura, contraddistinti da reazioni di pianto e trasalimento. Intorno ai 4
mesi, il disagio vissuto dal bambino si può distinguere in disappunto e sorpresa, suscitate da
stimoli che possono intimorire; successivamente compaiono emozioni più evidenti di
circospezione;
• sistema frustrazione-rabbia, con precursori quali disagio dovuto da fame o sonno. A 5 o 6
mesi, diventa evidente la delusione e l’insoddisfazione, che possono decorrere in rabbia e
collera già nel successivo semestre.
7
K. Bridges, “Teoria della differenziazione”, 1930
8
Sroufe, “Teoria della differenziazione emotiva”, 1979
12
La teoria differenziale delle emozioni, ideata da Izard e colleghi
9
, sostiene che il neonato fin dalla
nascita possegga emozioni fondamentali e differenziate, a seguito di programmi universali e innati.
Le emozioni di base individuate sono: interesse, gioia, tristezza, disgusto, sorpresa, collera,
disprezzo, paura e vergogna.
Queste emozioni, alcune presenti già alla nascita, altre che emergono nel corso dello sviluppo, non
corrispondono ad una semplice risposta allo stimolo percettivo, ma sono forme di organizzazione
innata verso affetti e comportamenti.
L’emozione nasce in una rigida forma che diviene rapidamente flessibile e, congruamente allo
sviluppo, si adatta alle relazioni e alla socialità.
Nel primo e nel secondo mese di vita il neonato manifesta le emozioni per comunicare i propri
bisogni e non per stabilire un contatto con le figure di accudimento.
In una seconda fase, che inizia intorno al terzo mese, il bambino comincia a prestare la sua
attenzione a persone ed oggetti: emergono le prime emozioni derivanti da eventi inattesi.
A partire dai 9 mesi, il bambino acquisisce una maggiore consapevolezza di sé e dell’ambiente che
lo circonda e manifesta timidezza, vergogna e paura.
Dal secondo anno di vita il bambino esterna ciò che prova: diventa perciò capace di esagerare,
minimizzare, nascondere o simulare le manifestazioni emotive.
Ma quali sono le emozioni di base e quando emergono?
Alcuni studiosi come Campos e colleghi
10
, raggruppano le emozioni di base in sistemi di azione, al
fine di soddisfare i bisogni di adattamento del soggetto. Questi sistemi vengono raggruppati in
“famiglie di emozioni” che hanno lo stesso obiettivo.
Altri studiosi come Izard, un’emozione per essere considerata di base, deve possedere determinate
caratteristiche, come la peculiarità delle configurazioni facciali del neonato.
In accordo, i ricercatori hanno delineato tre periodi o fasi della sequenza evolutiva delle emozioni:
• il primo periodo, caratterizzato dalle emozioni presenti alla nascita, regolate da processi
biologici controllati dal sistema edonico che attraverso le sensazioni di piacere, regola il
gusto, le reazioni di trasalimento che proteggono da stimoli troppo intensi e le risposte di
interesse o sconforto che segnalano le risposte di attenzione o disagio;
• il secondo periodo , che inizia a 2 mesi e si compie al primo anno di vita, durante il quale il
bambino comincia a comunicare le sue intenzioni e ad attuare le prime forme di controllo
emozionale. Compare il sorriso sociale non selettivo, in risposta alla voce umana e il sorriso
sociale selettivo, diretto alla madre.
Successivamente, a 10 settimane, si fanno più evidenti le reazioni di sorpresa;
a 4 mesi compaiono tristezza, collera e gioia; a 5-7 mesi si aggiungono paura e
circospezione; a 8-9 mesi si evidenzia la paura dell’estraneo;
• il terzo periodo, che inizia a un anno di età e termina al terzo anno di vita, vede l’emergere
di emozioni complesse, come timidezza, colpa, vergogna, orgoglio e invidia. Si tratta di
9
Izard, Buechler e Malatesta, “Teoria differenziale”, 1979-1987
10
J.J. Campos e K.C. Barrett, “A diacritical function approach to emotions and coping”, 1991
13
emozioni apprese, non immediatamente riconoscibili, che hanno origine da autoriflessione e
richiedono una certa consapevolezza di sé.
Come si riconoscono dunque le emozioni del bambino?
Grazie agli studiosi della teoria differenziale delle emozioni, sappiamo che le emozioni definite “di
base”, possono essere riconosciute in virtù del carattere universale e delle espressioni facciali
facilmente riconoscibili e declinabili.
Nel primo mese di vita, il bambino però reagisce allo stesso modo ad ogni tipo di bisogno e non vi
sono specifiche espressioni che denotano particolari emozioni.
Le espressioni emotive non sono quindi specifiche e distinte sin da subito, lo diventano grazie alle
occasioni prolungate di contatto e relazione che facilitano la comprensione e la decodifica di
particolari situazioni.
Quando avviene il riconoscimento delle espressioni e dei cambiamenti emotivi altrui da parte del
bambino?
Il neonato, attratto dal volto altrui, riconosce le espressioni facciali come gioia, tristezza e collera
già a dieci mesi.
Tra i 4 e i 7 mesi, avviene il riconoscimento delle variazioni emotive e la differenziazione delle
espressioni altrui. Il bambino infatti distingue le variazioni emotive in fotografia ed è sensibile alle
espressioni sul volto del caregiver, come ad esempio la madre.
A 9-10 mesi , il neonato reagisce al contatto con oggetti o persone soltanto in base all’effetto dello
stimolo.
Grazie allo studio sul fenomeno di riferimento sociale, è noto che, dopo il primo anno di vita,
l’espressione della madre assume un carattere comunicativo e orienta il comportamento del
bambino.
Lo studio sul riferimento sociale, spinge il bambino a cercare un input dalla persona di riferimento
prima di agire, in modo da essere aiutato a valutare la situazione, nota o nuova che sia.
il riferimento sociale ha comunque un carattere selettivo, perché il bambino considera persone di
riferimento soltanto gli adulti per lui significativi.
Eisenberg
11
nel 1986, ha definito “contagio emotivo”, la capacità di comprendere le emozioni
mediata dai comportamenti empatici, grazie ai quali il bambino sa provare le emozioni degli altri.
Proprio grazie al contagio emotivo, è noto come già a 14 mesi i bambini siano capaci di chiedere e
dare conforto; nel secondo anno di vita prevedono le reazioni emotive altrui; alla fine del secondo
anno di vita sono capaci di fare finta, di comprendere il “come se; a 3 anni capiscono la differenza
tra realtà e finzione ; a 4 anni, i bambini imparano anche a modulare le proprie emozioni
adeguandole alle circostanze sociali e al momento che stanno vivendo.
Una componente più evoluta nella comprensione delle emozioni è la capacità, cosa che avviene solo
verso i 4-5 anni. L’acquisizione della capacità di rendersi conto che pensieri ed emozioni degli altri
possono essere diverse dai propri, rappresenta una svolta importante per il bambino, che può
prevedere le emozioni altrui in seguito a determinati momenti o comportamenti.
11
Eisenberg, “Contagio emotivo”, 1987
14
Infine, la capacità di comprendere che possono essere provate diverse emozioni nello stesso tempo,
oppure emozioni ambivalenti, ha luogo tra i 7 e gli 8 anni.
Per ciò che concerne lo sviluppo sociale del bambino, è noto che il bambino vive le relazioni sociali
fin dal momento in cui nasce. Il bambino è circondato da interazioni sociali, che guidano il suo
sviluppo sociale. Questo termine ha infatti sostituito il termine “socializzazione”, che implicava la
visione dell’adulto nei confronti del bambino come “tabula rasa”, figura da plasmare.
“Schaffer afferma che l’ambito di studio dello sviluppo sociale riguarda essenzialmente il modo in
cui i bambini interagiscono con gli altri, vale a dire gli schemi di comportamento, i sentimenti, gli
atteggiamenti e i concetti manifestati dai bambini in relazione alle altre persone e al modo in cui
questi diversi aspetti variano durante la crescita”.
L’adulto come figura di mediatore che aiuta il piccolo a organizzare le sue capacità, deve tenere
conto di queste ultime, dei prerequisiti biologici, delle predisposizioni e delle risorse, come capacità
affettive e comportamenti socialmente espressivi che possono influenzare il bambino.
Prima di poter sperimentare il piano sociale, il bambino deve necessariamente sviluppare la
comprensione di sé e quella degli altri, conoscenze parallele ma imprescindibili l’una per l’altra
poiché, mentre il bambino impara a riconoscere le emozioni di chi lo circonda, riesce a capire le sue
e viceversa. La coscienza di sé nasce con il bambino e si evolve insieme a lui.
Lewis e colleghi
12
distinguono:
• il sé esistenziale, la componente implicita del sé che organizza l’esperienza, che coincide
con l’intero primo anno di vita;
• il sé categorico, la componente esplicita che deriva dalla autoconsapevolezza, che compare
nel secondo anno di vita.
Neisser e Butterworth, rispettivamente nel 1993 e nel 1995
13
, successivamente allo studio
sull’evoluzione del sé, meglio precisano questa evoluzione, chiamando in causa la consapevolezza.
Si definisce “consapevolezza primaria”, quella che si fonda su una percezione immediata e precoce,
che deriva dalle informazioni sensoriali di tipo visivo, acustico, cinestesico e vestibolare e dalle
comunicazioni verbali e non verbali diadiche e, che coincide con il “sé esistenziale”; si definisce
“consapevolezza secondaria”, quella che si basa sulla capacità di rappresentazione e di
autoriflessione, che coincide con il “sé categorico”.
L’autoriconoscimento allo specchio è ritenuto uno dei migliori indicatori di buon funzionamento di
riconoscimento del sé: intorno ai 12-18 mesi, il bambino riconosce e percepisce la sua immagine
fisica e riesce a sviluppare competenze mentali complesse e simboliche.
Il processo di riconoscimento e di coscienza dell’altro si può seguire attraverso alcune indicazioni:
• la familiarità, cioè il riconoscimento dell’estraneo come tale e quindi l’identificazione come
diverso da sé. È noto infatti come, durante i primi mesi di vita, i neonati non reagiscono alle
persone sconosciute; a partire dai 3 mesi queste ultime cominciano ad essere attentamente
osservate mentre tra i 6 e gli 8 mesi suscitano timore o paura.
Le reazioni alle persone estranee non sono sempre uguali, ne sono sempre caratterizzate da
timore o paura.
12
Lewis e W. James, “Sé esistenziale e sé categorico” 1990
13
U. Neisser e Butterworth, “La rappresentazione mentale”, 1993-1995