1
Introduzione.
“Non esiste il lavoro facile con gli anziani”.
Con questa breve affermazione riportata dall’intervistata n. 6., una delle partecipanti alla
presente ricerca, è possibile descrivere le condizioni di lavoro di tutte quelle persone, in larga
parte donne e in larga parte straniere, che si occupano della cura dei nostri anziani. Le
famiglie che decidono di ricorrere a questo servizio da parte di soggetti esterni, detti
comunemente “badanti”, sono aumentate negli ultimi anni. Ciò è avvenuto di conseguenza
ad altri cambiamenti occorsi nella società italiana, primo fra tutti l’invecchiamento della
popolazione.
Le badanti, oltre ad essere esposte a rischi psicosociali analoghi a quelli che affliggono molte
altre categorie di lavoratori dell’assistenza, si trovano a vivere in una situazione
ulteriormente disagevole e complicata in quanto straniere. A questo si aggiunge il fatto che
esse debbano muoversi in un mercato del lavoro poco tutelato dal momento che il loro ruolo
non è stato ancora ben definito dalle leggi.
Nonostante il servizio che esse svolgono rivesta un’importanza analoga ai servizi forniti da
tante altre professioni, fino ad ora poco è stato rilevato su di loro e poco è stato approfondito
sulle loro condizioni lavorative. Alla luce di tale mancanza, è stato deciso di progettare una
ricerca per indagare gli aspetti che caratterizzano la salute occupazionale delle assistenti
domestiche. Tale ricerca verrà illustrata nella presente trattazione.
Il primo capitolo dell’elaborato, oltre ad illustrare le ragioni alla base della ricerca, esamina
il contesto socio-demografico attuale per quanto riguarda l’invecchiamento della
popolazione e l’assistenza domestica e passa in rassegna i principali rischi psicosociali che
le badanti devono affrontare. Nel secondo capitolo viene invece descritto lo sviluppo
dell’indagine vera e propria, partendo dalla scelta dell’approccio teorico e dello strumento di
raccolta dei dati fino ad arrivare alla tecnica impiegata per la loro analisi. Dopo avere esposto
dettagliatamente i dati estratti dalle interviste e organizzati nel template ed avere fatto alcune
riflessioni su questi ultimi per trarne delle conclusioni, è stato riservato un piccolo spazio al
confronto fra punti di forza e limiti della ricerca e agli spunti che offre per svolgere ulteriori
approfondimenti.
2
Capitolo 1: Il contesto.
1.1 L’invecchiamento della popolazione.
Come si può vedere da diversi rapporti annuali, negli ultimi decenni in Italia si è registrato
un progressivo invecchiamento della popolazione, effetto combinato di un aumento costante
dell’aspettativa di vita (cresciuta di 1,9 anni dal 2008 al 2018, come riporta l’ultimo
aggiornamento della Banca Mondiale
1
) e di un parallelo calo delle natalità (con un numero
medio di figli per donna che fin dalla metà degli anni ’80 è rimasto sotto l’1,5 fino ad arrivare,
con leggere oscillazioni, al valore di 1,29 riportato dall’ISTAT nel 2019
2
). Da quanto
riferisce lo stesso istituto nel suo resoconto del 2020, risulta che circa il 23% della
popolazione italiana (quasi 14 milioni di persone in numeri assoluti) ha più di 65 anni di età,
contro il 20% di dieci anni prima. Occorre inoltre segnalare che ben la metà dei presenti 14
milioni supera i 75 anni.
Fenomeni simili si stanno contemporaneamente osservando in altri paesi dell’Unione
Europea, la cui popolazione complessiva presenta un’età media di 43,7 anni (Eurostat, 2020
3
)
contro i 37,7 di venti anni prima (Worldometers, 2020
4
) e una componente di over 65 di poco
superiore al 20%. Tutto questo, in ogni caso, non basta a indebolire il primato dell’Italia,
visto che rimane in testa alla classifica con 46,7 anni di età media e che pochi paesi (fra cui
Grecia e Portogallo) presentano percentuali simili di over 65.
L’invecchiamento delle persone porta con sé un incremento della fragilità delle stesse e della
loro esposizione a malattie. Basti pensare che il 70% degli italiani con più di 80 anni è afflitto
da almeno due malattie croniche (Abete et al.; 2004). L’effetto di una sola di queste o della
combinazione di più può condurre l’anziano alla perdita finale della propria autosufficienza
(Marcelli et al., 2004).
1
Vedi: https://data.worldbank.org/indicator/SP.DYN.LE00.IN. Indirizzo consultato in data
28/10/2020.
2
Vedi: https://www.istat.it/it/files//2019/12/C03.pdf. Indirizzo consultato in data 28/10/2020.
3
Vedi: https://ec.europa.eu/eurostat/. Indirizzo consultato in data 28/10/2020.
4
Vedi: https://www.worldometers.info/demographics/demographics-of-europe/. Indirizzo consultato
in data 28/10/2020.
3
1.2 Ricorso a soggetti esterni per l’assistenza domiciliare.
L’andamento demografico della società (Lutz, Anderson, Scherbov, 2008; Chappell et al.,
2004) sembra preannunciare una sfida imponente, tuttavia fino ad ora non è stato fatto nessun
adeguamento dei sistemi sanitari per affrontarla. Infatti, anche alla luce di un rapporto fra
costi economici per i SSN e benefici psicosociali per i pazienti (Caplan et al., 2006; Albert
et al., 1997; Donelan et al., 2002), l’assistenza agli anziani è tuttora relegata in prevalenza
all’ambito domiciliare, mentre la responsabilità continua a ricadere sui familiari. Tuttavia, i
mutamenti contemporanei nelle scelte lavorative delle persone e l’incremento della presenza
femminile nel mondo del lavoro hanno fatto sì che sempre più famiglie del nostro continente,
non potendo individuare al proprio interno una persona alla quale affidare l’attività di
caregiving, si rivolgessero a soggetti esterni, badanti, per delegare loro la cura dell’anziano
non più autosufficiente. L’Italia in questo caso non fa eccezione (Gaspa & Nieddu, 2004).
Questa scelta può risultare onerosa per le famiglie e può essere limitata dalle disponibilità
economiche delle stesse. In molti casi, infatti, prima di ricorrere all’inserimento di una
persona estranea nella propria abitazione, i familiari provano a rivolgersi alle reti di
conoscenze strette, reti costituite anche da vicini di casa e amici (Marcelli et al., 2004).
In ogni caso, al di là delle scelte operate dalle singole famiglie, il rapporto Censis di fine
2009
5
dimostra che negli ultimi decenni nel nostro paese il numero di occupati nella cura
della casa o nell’assistenza domiciliare di persone non autosufficienti ha raggiunto il milione
e mezzo grazie ad una crescita del 37% rispetto a sette anni prima. Nel complesso il 10,5%
delle famiglie italiane ricorre a questo tipo di aiuto.
1.3 Caratteristiche demografiche delle badanti.
L’attività di badante viene di solito percepita come un lavoro quasi esclusivamente per
donne, in larga parte straniere. Le statistiche riguardanti l’Italia potrebbero a prima vista
confermare ciò: ben il 77% è di provenienza straniera, mentre il genere femminile predomina
5
Vedi: https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/societa_italiana.pdf. Indirizzo consultato
in data 28/10/2020.
4
con il 92% (dati ISTAT del 2017
6
). Quest’ultimo dato va a contrapporsi in maniera netta ai
numeri relativi alla popolazione complessiva di adulti immigrati, la cui componente
femminile si ferma al 52,4%
7
.
Non mancano in ogni caso delle eccezioni degne di nota. Nelle regioni del Sud, ad esempio,
la percentuale italiana all’interno di questa categoria lavorativa supera di poco il 35% (dato
del 2013)
8
. Da notare che nel 2017 il numero di italiani che svolgono questo lavoro risulta
quasi raddoppiato (+ 97%) rispetto alle rilevazioni del 2012 (dati ISTAT del 2017
9
).
All’interno della componente straniera dominano le lavoratrici originarie dell’Est Europa
(senza distinzioni fra chi arriva da paesi extracomunitari come Ucraina o Moldavia e chi da
paesi UE come Romania o Bulgaria) con quasi il 74% del totale, seguite dalle colleghe latino-
americane (sia Centro che Sud America), le quali vanno a costituire poco più del 10%. Non
risultano altre concentrazioni significative per quanto riguarda le altre aree geografiche
10
.
Per quanto riguarda il grado di istruzione, accade di frequente che le lavoratrici domestiche
abbiano ottenuto titoli di studio propedeutici ad attività molto più complesse delle mansioni
che svolgono: circa 21% ha conseguito una laurea e il 54% ha svolto un percorso scolastico
equiparabile alla scuola media superiore (dati del 2017
11
). Tuttavia, spesso accade che i titoli
di studio conseguiti all’estero non vengano riconosciuti dalle leggi italiane.
Quando si passano in rassegna i numeri ufficiali, occorre ricordare che questi dati non
fotografano perfettamente la situazione perché tralasciano due aspetti: non includono infatti
6
Vedi: http://www.studiolegaledl.it/2018/07/09/lidentikit-lavoratori-domestici-dati-istat/. Indirizzo
consultato in data 28/10/2020.
7
Vedi: https://www.ismu.org/in-italia-limmigrazione-e-donna/. Indirizzo consultato in data
28/10/2020.
8
Vedi: https://www.agenziaiura.it/allegati/documenti/168/Sintesi_2013.pdf. Indirizzo consultato in
data 28/10/2020.
9
Vedi: http://www.studiolegaledl.it/2018/07/09/lidentikit-lavoratori-domestici-dati-istat/. Indirizzo
consultato in data 28/10/2020.
10
Vedi: https://www.osservatoriolavorodomestico.it/admin/public/cms/1562838392_0.pdf, 2017.
Indirizzo consultato in data 18/11/2020.
11
Vedi: https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/badanti_in_calo_-
145_mila_negli_ultimi_5_anni_ma_ce_ne_sara_sempre_piu_bisogno. Indirizzo consultato in data
28/10/2020.
5
quella fetta di persone le cui prestazioni lavorative non sono normate da un contratto
registrato, né quelle persone che vivono addirittura in stato di totale clandestinità.
Per avere un’idea pur approssimativa delle dimensioni di quest’ultimo fenomeno occorre
confrontare i numeri delle sanatorie realizzate dai primi anni duemila al 2018 dai governi
susseguitisi in Italia, interventi dei quali hanno beneficiato complessivamente circa 2 milioni
di persone
12
.
Come sostiene Barazzetti (2007), l’assoluta predominanza femminile nell’assistenza
domiciliare potrebbe essere spiegata dal sempre più alto ingresso delle donne nel mondo del
lavoro registrato nei paesi occidentali, fenomeno che lascerebbe sguarnita la cura delle
abitazioni e delle persone, la quale verrebbe così affidata alle immigrate provenienti da paesi
più poveri. Nonostante il tasso di occupazione femminile nel 2020 in Italia sia al di sotto del
41%
13
, contro il 50,5% della media fra i paesi dell’Unione Europea, risulta comunque
cresciuto di 2,72 punti percentuali rispetto a dieci anni prima. È interessante notare che
questo meccanismo rende le donne immigrate parte attiva, contribuendo ad una qualche
forma di emancipazione per loro. Infatti, nonostante il lavoro che andranno a svolgere nel
paese di arrivo venga considerato umile da quella società, esso garantirà loro un salario più
alto rispetto a quello cui possono ambire nel paese d’origine. Come intuisce Sassen (in
Ehrenreich & Hochschild, 2004) inserendo il suo ragionamento nel fenomeno più ampio
della globalizzazione, le lavoratrici immigrate diventano una fonte di ricchezza ingente
grazie alle rimesse che inviano in patria. Ciò lega ancora di più il destino di quei paesi al
nuovo ruolo delle donne emigrate, rendendo di fatto le comunità d’origine dipendenti da
queste ultime.
Per quanto riguarda, invece, l’età di chi lavora in questo settore, gli over 50 prevalgono con
una frequenza del 54%, a fronte del 40% che ha dai 30 ai 50 anni e di un esiguo 6% costituito
dagli under 30 (dati ISTAT del 2017
14
).
12
Vedi: http://www.migrantitorino.it/?p=46795. Indirizzo consultato in data 28/10/2020.
13
Vedi: https://data.worldbank.org/indicator/SL.EMP.TOTL.SP.ZS?name_desc=true. Indirizzo
consultato in data 28/10/2020.
14
Vedi: http://www.studiolegaledl.it/2018/07/09/lidentikit-lavoratori-domestici-dati-istat/. Indirizzo
consultato in data 28/10/2020.
6
1.4 Mansioni e contratto di lavoro.
In Italia il lavoro delle badanti contempla una varietà molto ampia di settori che vanno dalla
gestione della casa (ad esempio pulizia e riordino degli spazi o preparazione dei pasti)
all’assistenza alla persona (ad esempio cura dell’igiene o aiuto negli spostamenti e nel
vestirsi e, talvolta, anche somministrazione di medicine) (Censis-Ismu, 2013). Gli aiutanti
domiciliari possono trasferirsi nell’abitazione dell’assistito oppure lavorarvi a ore. Nel primo
caso la demarcazione fra orario lavorativo e ore di riposo tende spesso a sbiadire (Ambrosini,
2006). La durata e il contenuto delle prestazioni richieste alle singole operatrici dipendono
dal livello di autosufficienza del quale la persona anziana ancora dispone.
L’attuale Contratto collettivo nazionale che disciplina i rapporti di lavoro degli assistenti
familiari (vedi Appendice A) è entrato in vigore il 1° ottobre del 2020. Esso è stato firmato
dalle associazioni datoriali DOMINA (Associazione Nazionale Famiglie Datori di Lavoro
Domestico) e FIDALDO (Federazione Italiana Datori di Lavoro Domestico) assieme a
FILCAMS-CGIL (Federazione Italiana Lavoratori Commercio, Turismo e Servizi),
FISASCAT-CISL (Federazione Italiana Sindacati Addetti ai Servizi Commerciali Affini e
del Turismo), UIL-TUCS (Unione Italiana Lavoratori Turismo Commercio e Servizi) e
FEDERCOLF (Federazione Sindacale dei Lavoratori a Servizio dell’Uomo) il giorno 8
settembre 2020 e interessa le attività di colf, badanti e babysitter
15
. Il CCNL, oltre a definire
diritti e doveri dei lavoratori di questo settore, fissa – a seconda delle prestazioni da erogare
– quattro profili lavorativi (A, B, C e D), ciascuno dei quali è suddiviso in due livelli in base
ai parametri retributivi (“normale” e “super”).
1.5 Ragioni alla base della ricerca.
Nonostante la maggiore richiesta di badanti da parte delle famiglie italiane prevista per gli
anni a venire, questa categoria lavorativa sembra, per il momento, essere risultata poco
interessante per i ricercatori, a giudicare dal numero esiguo di indagini svolte su di essa. È
necessario, al tempo stesso, fare delle distinzioni nell’utilizzo dei termini.
15
Vedi: https://www.money.it/nuovo-ccnl-lavoro-domestico-colf-badanti-babysitter-2020-2022-
novita-cosa-cambia. Indirizzo consultato in data 28/10/2020.
7
La terminologia “caregiver informale”, ad esempio, compare nella letteratura degli altri
paesi, ma questa scelta lessicale non fa distinzioni fra chi si occupa di un familiare non più
autosufficiente e i soggetti “estranei” assunti dai parenti impossibilitati a prendersene cura
in prima persona. La definizione fornita dal Medical Subject Headings “Persone che si
occupano di coloro che necessitano di assistenza o sorveglianza in condizioni di malattia o
disabilità e forniscono loro aiuto a casa, in un ospedale o in una struttura” risulta comunque
troppo ampia e finisce per far rientrare fra i caregiver anche i medici, il personale sanitario
in generale, i componenti della famiglia, gli amici, gli assistenti sociali e molte altre
categorie, come Van Durme, Macq, Jeanmart e Gobert fanno notare (2012).
Proprio a causa di questa ambiguità si è preferito optare per la parola italiana “badante”,
comunemente utilizzato per indicare la persona estranea assunta dalla famiglia di un soggetto
non più autosufficiente affinché si occupi di lui. Occorre comunque segnalare la tesi di alcuni
autori i quali valutano il termine come troppo riduttivo, se non addirittura svalorizzante. Ad
esempio, Toniolo Piva (2002, in Ambrosini, 2005) afferma che le persone che sono chiamate
badanti si dedicano in verità ad un lavoro di cura. Quest’ultimo, sconfinando anche in
compiti emotivi, va al di là del semplice “badare” ad una persona anziana o ammalata.
In ogni caso, sono stati lo scarso numero di pubblicazioni da una parte e la sovrapposizione
con categorie lavorative diverse presente in più indagini dall’altra a motivare l’ideazione e
lo sviluppo della presente ricerca sulle condizioni della salute occupazionale delle badanti.
1.6 I rischi.
L’attività lavorativa delle badanti espone queste ultime ad una gamma molto ampia di fattori
stressogeni, dal punto di vista fisico come da quello psicosociale. Dal momento che le
mansioni contenute nel lavoro di badante non sono mai state descritte in modo formale e
puntuale dalle leggi (Postacchini et al., 2008), soltanto il 22% delle persone che iniziano a
svolgere questa attività ha seguito un corso specifico di formazione sul lavoro di cura
16
,
mentre le altre si ritrovano ad apprendere soltanto tramite l’esperienza diretta, con tutti gli
16
Vedi: https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/badanti_in_calo_-
145_mila_negli_ultimi_5_anni_ma_ce_ne_sara_sempre_piu_bisogno. Indirizzo consultato in data
28/10/2020.
8
effetti negativi che ne possono conseguire. In quei casi l’unica cosa che possono fare è
cercare di comprendere al meglio ciascuna situazione che si trovano davanti, con le sue
difficoltà e i suoi aspetti positivi, per poi intervenire in maniera efficace (Tognetti, 2004).
1.6.1 Lo stress.
Lo stress viene comunemente indicato come la risposta generica da parte di un organismo
alle richieste che esso si trova a dover soddisfare. Secondo il modello di riferimento più
recente e comunemente accettato, definito anche “transazionale” (Lazarus, 1991), esso è il
risultato del continuo processo di scambio fra il singolo individuo e l’ambiente che lo
circonda. Il processo risulta così suddivisibile nelle due componenti “Stressor” (lo stimolo)
e “Strain” (la risposta del soggetto che può manifestarsi in varie forme all’interno dei tre
ambiti fisiologico, psicologico e comportamentale) (Beehr, 1998).
L’assistenza domiciliare agli anziani, nel caso specifico, spesso espone a fonti di stress
cronico non sempre prevedibili e controllabili, da contrastare con l’impiego anche ingente di
energie fisiche e mentali (Mannion, 2008). Al tempo stesso, una buona conoscenza delle
malattie, un coping efficace e il supporto pratico ed emotivo da parte dei parenti dell’assistito
costituiscono degli ottimi fattori di protezione per gli operatori (Feldman, 2000).
In verità non tutti i contesti lavorativi in cui si trovano ad operare le badanti sono in grado di
fornire loro questi fattori di protezione. Dalle ricerche finora pubblicate emerge infatti che
l’impegno nell’assistenza domiciliare di anziani può causare forme di disagio dovute
all’isolamento sociale, portando anche a problemi psicofisici quali angoscia, senso di
solitudine, stati depressivi e ansia (Cameron et al., 2002; Lavela, Ather, 2010), ciò vale sia
per i familiari impegnati direttamente nell’accudire gli anziani che per le badanti “esterne”
assunte a tale scopo. Inoltre, chi condivide l’abitazione con la persona accudita vede spesso
ridursi i propri tempi di riposo (Vianello, 2012). La sovrapposizione fra ambiente di lavoro
e ambiente di vita impedisce all’assistente di instaurare con la persona anziana un semplice
rapporto lavorativo: l’assenza di distanze relazionali fra i due soggetti fa sì che la badante
debba adempiere ad altri doveri al di fuori delle mansioni previste dal contratto, doveri che
possono spaziare dalla semplice richiesta di attenzione o dal bisogno di empatia da parte
dell’anziano (Zito, 2016) fino alla somministrazione di medicinali (Vianello, 2012).
9
Parimenti, il lavorare in condizioni di irregolarità, parziale o totale, costituisce un altro fattore
di rischio poiché espone le operatrici a molteplici forme di violenze o maltrattamenti
(Ambrosini, 2006).
1.6.1.1 Ruolo del coping e del supporto sociale.
Oltre alle variabili scatenanti esterne, anche le risorse che l’ambiente mette a disposizione e
le caratteristiche di ciascun individuo contribuiscono ad influire sul processo dello Stress
(Lazarus, 1991). Le strategie di coping sono fra queste ultime (Lazarus, 1991). Esse servono
a conseguire l’adattamento alla situazione stressante e vengono tradizionalmente suddivise
fra strategie centrate sul compito (messe in atto dai soggetti per affrontare in modo diretto i
problemi e le sfide fornite dell’ambiente), strategie centrate sulle emozioni (volte a
controllare e regolare le risposte emotive all’evento stressante) e strategie evitanti (dovute
alla scelta di “ignorare” momentaneamente il problema per investire le proprie risorse in
un’altra attività) (Endler & Parker, 1990). Le strategie orientate a risolvere direttamente il
problema risultano molto efficaci nei contesti di lavoro nei quali tramite l’azione è possibile
aumentare il controllo sugli stressor ambientali (González-Morales, Peiró, Rodríguez,
Greenglass, 2006), anche se occorre sottolineare che non sempre la conformazione
dell’ambiente permette di fare ciò. L’evitamento non è invece una scelta adattiva di fronte a
fattori di rischio esterni di tipo cronico e può alla lunga complicare i problemi.
Ciononostante, esso risulta comunque vantaggioso o, in ogni caso, praticabile di fronte a
situazioni stressanti episodiche (Fraccaroli & Balducci, 2011).
Occorre ricordare che esiste un secondo modello (Scharloo & Jensen, 2000 in Monticelli,
2006), ideato a partire da uno studio su malati cronici, che per illustrare il coping si focalizza
invece sulla ricerca di risorse interne o esterne da parte del soggetto e distingue fra strategie
attive (cercare di esercitare il controllo sugli stressor in prima persona) e strategie passive
(delegare ad altri il controllo). In verità, non tutte le persone riescono ad individuare le
situazioni nelle quali possono esercitare un controllo efficace che consenta loro di prendere
le decisioni più appropriate (Sapolsky, 1998), come spesso succede che i lavoratori non
tentino neanche di negoziare le richieste assegnate loro dai superiori o dai datori di lavoro
(Quick, Quick, Nelson, Hurrell Jr, 1997).
10
È stato osservato che anche il supporto sociale riesce ad influenzare il rapporto fra stressor e
strain fornendo ai lavoratori una valida protezione dagli effetti dei fattori di rischio
psicosociali (Viswesvaran, Sanchez, Fisher, 1999). Nonostante il sostegno fornito dai
superiori, sotto forma di informazioni, stima o aiuto diretto, risulti essere il più efficace
(Beehr, 1998), pure quello proveniente dai colleghi può rivelarsi allo stesso modo importante
(Quick et al., 1997).
1.6.2 Il burnout.
Contesti caratterizzati da mancanza di alternative e di supporto esterno possono provocare
l’insorgere di una sindrome da burnout negli operatori (Tognetti, 2004). Essa si verifica
spesso nelle professioni d’aiuto poiché queste persone si ritrovano a dover gestire
contemporaneamente il proprio stress e quello delle persone che stanno accudendo.
Esaurimento emotivo, depersonalizzazione e riduzione del proprio senso di efficacia
caratterizzano il burnout (Maslach, 2003), che spesso risulta accompagnato da episodi di
insonnia e stati depressivi. Le conseguenze peggiori a livello di salute sono state rilevate su
persone impegnate ad accudire soggetti affetti da demenza senile, ictus o cancro (Goldstein,
Concato, Fried, Kasl, Johnson-Hurzeler, Bradley, 2004; Schneider et al., 2002; Visser-Meily,
Post, Riphagen, Lindeman, 2004).
Questa continua esposizione a fattori stressogeni può condurre a deterioramenti nell’ambito
della vita sociale e dei rapporti interpersonali dei caregiver (Schulz, Sherwood, 2008) e ad
un peggioramento della loro salute fisica (Pinquart, Sörensen, 2007) che può anche risolversi
con la loro morte prematura (Schulz et al., 2009; van Exel, op Reimer, Brouwer, van den
Berg, Koopmanschap, & van den Bos, 2004). A livello psicosociale si è infatti assistito in
molti casi ad un aumento degli stati d’ansia e dell’isolamento sociale (Sherwood, Given,
Given, von Eye, 2005) e ad un peggioramento del benessere in generale (Rose-Rego, Strauss,
Smyth, 1998; Tessler, Gamache, 1994) con comparsa di sintomi depressivi (Sherwood et al.,
2005); mentre a livello di patologie fisiche è stato registrato un incremento delle probabilità
di ictus o malattie coronariche ed un calo delle difese immunitarie (Lee et al., 2003;
Mausbach et al., 2010).
11
Non è soltanto la salute psicofisica del caregiver – badante o parente dell’assistito che sia –
affetto da burnout a risentirne ma anche la stessa attività assistenziale. Quando l’adattamento
tra la persona e il lavoro inizia a venire meno possono verificarsi eventuali peggioramenti
della prestazione svolta dal punto di vista sia qualitativo che quantitativo (Marcelli et al.,
2004), accompagnati da aumento delle assenze, dell’insoddisfazione e deterioramento delle
emozioni associate al lavoro (Lisma, 2013). Può infine accadere che caregiver
eccessivamente logorati dalla mole di lavoro e dal supporto inadeguato che ricevono inizino
a commettere abusi sulle persone anziane che dovrebbero invece accudire (Belge, 2019).
1.6.3 Il Caregiver Burden.
Oltre allo stress e alla sindrome da burnout, risulta opportuno inserire anche il Caregiver
Burden (C. B.) nell’illustrazione di questa ricerca. Nonostante di solito venga misurato su
campioni di caregiver familiari e non di badanti esterne, la definizione che avevano fornito
Zarit, Todd e Zarit (1986) “La misura in cui i caregiver percepiscono che l’attività di cura ha
avuto un effetto negativo sul proprio funzionamento emotivo, sociale, finanziario, fisico e
spirituale” risulta adatta anche per i soggetti coinvolti in questa indagine, dal momento che
descrive l’attività di cura come un’esperienza fortemente individualizzata oltre a dare molto
rilievo allo sforzo richiesto su più livelli agli operatori (Gillick, 2013).
Il Caregiver Burden ha predittori sia fra i fattori di rischio pregressi, come il genere
femminile, un basso livello di istruzione, la depressione, l’isolamento sociale e la mancanza
di scelta quando si è dovuto intraprendere l’attività, sia fattori di rischio legati alla situazione
immediata, come il dover convivere con la persona accudita, lunghi orari di lavoro e malattie
degli assistiti che richiedono attenzioni crescenti (come tumori, demenza senile e altre
patologie terminali) (Schulz et al., 2007; Monin, Schulz, 2009). Succede spesso che i
caregiver trascurino la propria salute e di rado applichino strategie di prevenzione, tanto che
di frequente sviluppano malattie croniche (Schulz, Beach, 1999; Bevans, Sternberg, 2012;
Schoenmakers, Buntinx, Delepeleire, 2009; Schulz, Newsom, Mittelmark, Burton, Hirsch,
Jackson, 1997)
12
Nonostante i molteplici studi presenti sul tema nella letteratura, il Caregiver Burden non
risulta ancora inserito nell’edizione 2019 dell’International Classification of Diseases
17
a
causa di alcuni aspetti non ancora chiariti (Bastawrous, 2013). Gran parte delle indagini,
infatti, è stata svolta su gruppi troppo omogenei dal punto di vista della malattia dell’assistito
(Adelman, Tmanova, Delgado, Dion & Lachs, 2014), anche se ciò da un altro punto di vista
comporta dei vantaggi perché alcune malattie (cancro e Alzheimer in particolare) possono
essere buoni predittori di livelli di Caregiver Burden più alti (Bevans, Sternberg, 2012).
Parallelamente, nel caso di ricerche trasversali, è stato fatto eccessivo uso del
campionamento di comodo che inficia la generalizzabilità dei risultati (Adelman et al., 2014).
In alcuni casi è pure possibile trovarsi di fronte a studi che trattano come fattori di rischio
per il Caregiver Burden variabili quali la depressione o il basso stato socioeconomico che, in
altri lavori, risultano dipendere dall’intensità del Caregiver Burden stesso, senza contare che
altri antecedenti, come il genere femminile, che predicono livelli più alti di Caregiver Burden
si associano ad una maggiore probabilità di diventare caregiver (Bevans, Sternberg, 2012).
La distinzione fra Caregiver Burden “soggettivo” e “oggettivo” complica ulteriormente la
questione (Bastawrous, 2013). Con il secondo si indica infatti l’effettiva fornitura fisica o
strumentale di aiuti che viene somministrata agli assistiti, quantificabile sotto forma di
numeri, come ad esempio le ore di assistenza erogate, mentre il Caregiver Burden soggettivo
indica invece il costo psicologico o emotivo che chi assiste si ritrova a dover pagare, di solito
sotto forma di stress o ansia (Montgomery, Stull, Borgatta, 1985b).
Anche l’utilizzo di molteplici strumenti di misura (Lingler, Martire, Schulz, 2005;
Greenwood, Mackenzie, Cloud, Wilson, 2008) costituisce infine un limite alla possibilità di
generalizzare i risultati e di raggiungere un accordo fra i ricercatori quando si tratta di
progettare delle linee di intervento (Bastawrous, 2013).
Alcuni fattori del contesto assistenziale, come il dovere intervenire in ogni attività della
vita quotidiana o l’isolamento sociale, sono in grado di accrescere il Caregiver Burden
degli assistenti, ma sembra che possano esistere diverse soglie di attivazione (Adelman et
al., 2014). Tale ipotesi sembrerebbe in linea con un’indagine effettuata negli Stati Uniti
17
Vedi: https://icd.who.int/browse10/2019/en. Indirizzo consultato in data 28/10/2020.
13
basata sulla rilevazione del tempo impiegato nel fornire cure all’assistito e nel grado di
dipendenza da parte di quest’ultimo verso l’assistente: il 32% degli intervistati presenta
livelli alti di Caregiver Burden, a fronte del 19% che è invece interessato da livelli medi
18
.
Il contributo di Lilly, Robinson, Holtzman e Bottorff (2012) pone invece l’attenzione su un
altro dettaglio: gran parte dei caregiver non ha alle spalle nessun percorso di formazione e
pertanto si sente poco preparato quando deve intraprendere questa attività. I caregiver
familiari si ritrovano spesso a dover provvedere ad altre forme di cure richiedenti una minima
competenza medica (come cambiare il catetere, medicare ferite o somministrare farmaci),
ciononostante non ricevono un supporto adeguato dai dottori o dagli altri professionisti
sanitari visto che il sistema sanitario non riconosce nemmeno l’importanza del servizio che
svolgono (Lilly et al., 2012).
Nonostante quest’ultima ricerca sia stata effettuata in un contesto totalmente diverso
dall’Italia (Columbia Britannica, Canada), ciò che viene riscontrato può valere anche per il
nostro paese, visto che gran parte delle donne straniere che intraprende questa attività ha alle
spalle tutt’altro tipo di esperienze lavorative, mentre le leggi italiane non fissano requisiti
troppo particolari per lo svolgimento di questo mestiere
19
.
Altri studi (Calderon & Tennstedt, 1998; Lee & Sung, 1998; Mui, 1992; Son, Wykle,
Zauszniewski, 2003) sul Caregiver Burden hanno cercato di non tralasciare l’influsso che la
cultura d’origine può avere sull’attività di assistenza. Da essi emerge che caregiver
afroamericani, sudamericani o dell’Estremo Oriente potrebbero sperimentare il fenomeno
sulla propria pelle in maniera diversa rispetto ai loro omologhi caucasici. Resta comunque il
fatto che in alcune culture, specialmente quelle che assegnano al genere femminile un ruolo
di sottomissione, riconoscere il peso di questo compito ed esprimersi apertamente a riguardo
rimane tuttora un tabù (Calderon & Tennstedt, 1998).
18
Vedi National Alliance for Caregiving and AARP. Caregiving in the United States 2009.
http://www.caregiving.org/data/04finalreport.pdf . Indirizzo consultato in data 28/10/2020.
19
Vedi: https://www.biancolavoro.it/lavorare-come-badante-mansioni-requisiti-
retribuzioni/#Lavorare_come_badante_requisiti_soggettivi_e_professionali, 2019. Indirizzo
consultato in data 28/10/2020.