INTRODUZIONE
Il contratto a tempo determinato è una tipologia di contratto di lavoro
subordinato o dipendente che ha obbligatoriamente un termine di inizio e di
fine. Questa particolare tipologia di contratto di lavoro viene utilizzata dalle
aziende per assumere lavoratori solo per un periodo limitato, nel caso in cui si
abbiano necessità immediate o per testare un lavoratore prima di procedere alla
stipula di un contratto a tempo indeterminato. Per tale motivo il contratto di
lavoro a termine è uno strumento efficace e valido nell’ambito del mercato del
lavoro, consentendo una crescita occupazionale anche per tutte quelle imprese
che non hanno necessità permanenti di personale o che vivono flussi finanziari
poco stabili. Nel corso del tempo, il contratto a tempo determinato, è stato
oggetto di numerose riforme, sia sulla spinta di quella parte dell’imprenditoria
alla ricerca di uno strumento che ne garantisse maggiore flessibilità per fare
fronte alle esigenze aziendali, sia sulla spinta di nuovi orientamenti
governativi, succedutesi nel tempo che fanno dell’occupazione e della lotta al
precariato le fondamenta delle proprie campagne elettorali.
Lo scopo di questo lavoro è pertanto quello di illustrare il percorso normativo
del contratto a termine in Italia, partendo dalle prime disposizioni in merito nel
Codice Civile del 1865, il quale vedeva di buon grado l’uso di tale contratto
onde evitare rapporti di lavoro servili attraverso l’assoggettamento perpetuo del
lavoratore al datore di lavoro. Tale visione era destinata a mutare con il nuovo
Codice Civile del 1942, il quale considerava il rapporto a termine come
ostacolo all’interesse dell’occupazione, favorendo il contratto a tempo
indeterminato, il quale garantiva maggiori tutele al lavoratore.
Nel 1962, con la legge n. 230, il contatto a termine subisce una forte
limitazione del suo impiego per il tramite di un elenco ristretto e tassativo di
cause di ammissibilità, nonostante il legislatore del ‘87 cercò di ammorbidire la
rigidità di tale assetto, delegando alla contrattazione collettiva la possibilità di
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individuare nuovi casi (legge 56/1987). L’impianto normativo nazionale
subisce però un forte cambiamento con il d.lgs 368/2001, il quale da attuazione
alla Direttiva Comunitaria 99/70/CE, statuendo che il contratto a termine
potesse essere stipulato solo a fronte di ragioni tecniche, produttive,
organizzative o sostitutive. L’elaborato si occupa poi degli interventi scaturenti
dal c.d. “Collegato lavoro”, in materia di illegittima apposizione del termine al
contratto. Particolare attenzione viene riservata alla riforma del 2012, la quale
modifica nuovamente la disciplina, introducendo la regola della acausalità per
il primo contratto a termine, della durata di 12 mesi, fino alla rivoluzione del
2015 apportata dal “Jobs Act” dove la causale non è più elemento essenziale
del contratto a tempo determinato. La tesi si conclude poi con l’ultimo
intervento normativo del 2018, una riforma nata con l’intento di ridare al
lavoro (e al lavoratore) la “dignità” perduta. Il “Decreto Dignità” per l’appunto,
si prefissa lo scopo di ridurre il lavoro precario, limitando l’uso dei contratti a
tempo determinato, a favore dei rapporti a tempo indeterminato, riservando la
contrattazione a termine ai casi di reale necessità da parte del datore di lavoro.
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1. CAPITOLO PRIMO
EVOLUZIONE STORICA: Dalla normativa nazionale alla
Direttiva Europea
1.1 Premessa storica: dal Codice Civile del 1865 al
Codice Civile del 1942
Per comprendere a pieno l’importanza del termine all’interno del contratto di
lavoro, dobbiamo affrontare un excursus normativo, che , come una sorta di
viaggio nel tempo ci porta indietro di qualche secolo, indicando come data di
partenza il 1865.
Il codice civile del 1865
Sotto l’influenza del Codice Napoleone in Francia, l’allora Regno d’ Italia
proprio nel 1865 emanò il primo Codice Civile italiano detto codice Pisanelli,
dal nome del Ministro di grazia e giustizia, che, sulla scia del codice francese,
cercò, anche se in maniera del tutto primitiva, apporre il termine al rapporto di
lavoro.
Il contratto con il quale ci si obbligava a prestare il proprio lavoro era però
collocato nella fattispecie del contratto di locazione, non trovando il lavoro
subordinato una specifica e organica regolamentazione
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, tanto è che l’art. 1628
così sanciva: «nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a
tempo o per un determinata impresa».
1 Il codice disciplinava in generale la locazione delle opere, nella quale erano ricompresi
tanto il lavoro subordinato “locatio operarum, che il lavoro autonomo “locatio operis”.
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L’apposizione del termine dunque era una clausola di salvaguardia per il
lavoratore, poiché solo così si poteva impedire la costituzione di un rapporto di
lavoro che durasse tutta la vita, onde evitare che fosse considerato vinculum
perpetuae servitutis. Tanto che al divieto di stipulare contratti a tempo
indefinito veniva ricondotta anche l’ipotesi in cui la durata del rapporto fosse
talmente lunga da escludere, di fatto, una limitazione temporale del rapporto
durante la vita del prestatore di lavoro
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, tanto da pregiudicare la sua libertà
d’azione. La violazione della norma, di ordine pubblico, comportava come
sanzione l’invalidità assoluta del contratto istitutivo.
Il codice del 1865 consacra, quindi, quale eredità della non troppo lontana
Rivoluzione Francese, il principio di libertà, in virtù del quale nessuna attività
può essere prestata per un tempo indeterminato.
Le ragioni ideologiche di equiparazione del lavoro moderno a quello servile
vennero meno con il passare del tempo, permettendo l’ estromissione del
contratto di lavoro dalla categoria delle locazioni, venendo meno il dogma del
vincolo della durata del rapporto di lavoro, ancora fortemente ancorato al
brocardo ominis locatio fit ad tempus.
Infatti proprio il riferimento allo schema locatizio aveva legittimato nella
prassi, la stipulazione di contratti di lavoro a tempo indefinito, applicandosi la
regola posta dall’art. 1609 del codice per cui « se la locazione è stata fatta
senza determinazione del tempo, non può alcuna delle parti contraenti dare
licenza all’altra, senza osservare i termini stabiliti dalla consuetudine dei
luoghi » .
Tale escamotage era all’epoca tecnicamente preferibile alla concezione del
rapporto di lavoro sine die come rapporto caratterizzato da un contratto iniziale
integrato progressivamente dall’esecuzione in guisa di manifestazione tacita di
rinnovazione di quel contratto iniziale
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.
2 SANTORO PASSARELLI F., Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, Napoli, 1993, p. 167
3 CARNELUTTI, Del licenziamento nella locazione d’opere a tempo indeterminato, in Riv.
Dir. Comm.,I, 1911, p. 383 ss.
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Tuttavia, alla fine dell’800 l’evolvere del contesto socio-economico, segnato
dal passaggio dal sistema prevalentemente agricolo a quello industriale, fece
emergere la necessità di impiegare lavoratori a durata stabile senza
predeterminazione di durata.
Anche per il lavoratore l’instaurazione di un rapporto duraturo attribuiva un
beneficio economico, ossia il diritto ad una progressione retributiva dovuta
all’anzianità, che garantiva un migliore sostentamento della propria famiglia.
Si crea, quindi, quella “feconda collaborazione che fa del personale un gruppo
stretto intorno al capo e proteso verso le finalità aziendali”
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A ben vedere, nonostante la rigorosa disciplina del codice con la previsione del
suddetto divieto, i contratti di lavoro a tempo indeterminato si diffondevano
sempre più, grazie al c.d. Istituto del preavviso, cioè la facoltà di recesso
riconosciuta alla parti, cui ebbe una prima previsione nella giurisprudenza dei
Probiviri, consentendo la recedibilità dal contratto per pura e semplice volontà
delle parti, previo l’obbligo del preavviso
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, ricevendo una trasposizione della
disciplina nella legge dell’impiego privato n. 1825/1924
6
.
Il tale contesto, così poco omogeneo e privo di organica disciplina, si manifestò
sempre più una indifferenza verso il contratto di lavoro a termine con un
progressivo interessamento al rapporto di lavoro a tempo indeterminato,
coadiuvato dallo sviluppo della legislazione sociale
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, e dal sentimento di
correggere quella asimmetria delle parti all’interno del contratto di lavoro.
L’instaurazione di un rapporto di lavoro duraturo avrebbe consentito al
lavoratore un progressivo miglioramento in base all’anzianità, consentendo al
4 BARASSI L., Elementi di diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 1954, pag. 107
5 FERGOLA P., La teoria del recesso e il rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1985, p. 160 e
ss., il quale ha approfondito come il recesso si affermi dall’innesto nella locazione d’opere
dell’istituto della disdetta nei rapporti validi a tempo non determinato
6 R.D.L. 13 novembre 1924 n. 1825
7 Alla fine del XIX secolo scoppia la c.d. “questione sociale”, la tumultuosa reazione al
degrado ed alla povertà derivanti dallo sfruttamento del proletariato.
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contempo all’imprenditore di trattenere presso di sé lavoratori di “sperimentata
capacità”
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.
La legge impiegatizia del 1924 riconosceva inoltre un diritto alla indennità di
licenziamento, corrisposta ai lavoratori assunti a tempo indeterminato qualora
fossero licenziati senza colpa.
La previsione dell’indennità proporzionata agli anni di servizio, riconosciuta
dunque ai soli lavoratori a tempo indeterminato, poteva però essere elusa dal
datore di lavoro, che poteva fraudolentemente frazionare il rapporto di lavoro,
reiterando i contratti di lavoro a termine, soprattutto se di breve durata
9
. Così,
al fine di scongiurare tali evenienze fraudolente, si arriva ad una nuova
concezione del rapporto di lavoro a tempo determinato, non più visto come
“salvaguardia dal lavoro servile” ma come possibile elemento di elusione della
normativa, comportando così una “rivalutazione” del contratto a tempo
indeterminato nell’art 1 del R.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825: «il contratto
d’impiego privato, di cui nel presente decreto, è quello per il quale una società
o un privato, gestori di un’azienda, assumono al servizio dell’azienda stessa,
normalmente a tempo indeterminato, l’attività professionale dell’altro
contraente, con funzioni di collaborazione tanto di concetto che di ordine,
eccettuata pertanto ogni prestazione che sia semplicemente di mano d’opera».
Il termine al rapporto di lavoro passa così in secondo piano, prevedendo, la
legge impiegatizia, il riconoscimento solo se presente in atto scritto, (art. 4
comma 2)
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o quando giustificato dalla specialità del rapporto (art.1 comma
2)
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, in mancanza della quale l’assunzione si considera a tempo indeterminato.
8 DE LITALA, Il contratto di lavoro, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1949, p.
174
9 BALZARINI G., La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, Giuffrè,
Milano, 1966
10 Parimenti dovrà risultare da atto scritto l’assunzione che venga fatta con prefissione di
termine, R.D.L. 13 novembre 1924 n. 1825
11 Il contratto d’impiego privato può anche essere fatto con prefissione di termine (…)quando
l’aggiunzione del termine non risulti giustificata dalla specialità del rapporto ed apparisca
invece fatta per eludere le disposizioni del decreto, RDL,13 novembre 1924 n. 1825
10
Il Codice Civile del 1942
La “specialità” del contratto di lavoro a termine, e la “ordinarietà” del contratto
a tempo indeterminato viene ribadita nel vigente codice civile, promulgato il 16
Marzo 1942.
Nel nuovo codice, il rapporto a tempo determinato viene interpretato come
ostacolo all’interesse della continuità dell’occupazione, con le conseguenti
privazioni delle tutele garantite al dipendente dal contratto a tempo
indeterminato. Così sancisce il principio di presunzione legale di
indeterminatezza del rapporto di lavoro nell’art. 2097: «il contratto di lavoro si
reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del
rapporto o da atto scritto. In quest'ultimo caso l'apposizione del termine è
priva di effetto, se è fatta per eludere le disposizioni che riguardano il
contratto a tempo indeterminato. Se la prestazione di lavoro continua dopo la
scadenza del termine e non risulta una contraria volontà delle parti, il
contratto si considera a tempo indeterminato».
Nonostante la puntale previsione del codice sulla materia, non mancarono però
contestuali dubbi relativi alla delucidazione del concetto di «specialità del
rapporto». Infatti a differenza della legge impiegatizia, dove poteva desumersi
che, dal combinato dell’art. 1 e art. 4, anche se l’apposizione del termine
risultasse da atto scritto, si sarebbe dovuto presumere la frode del datore di
lavoro qualora costui non avesse dimostrato che l’apposizione del termine
fosse giustificata dalla specialità del rapporto
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, la nuova norma del Codice
del‘42 invece presume legittimo il termine nonostante la mancanza di cumulo
dei requisiti, richiedendo alternativamente la previsione scritta o la specialità
del rapporto di lavoro. Qualora volesse essere accertata l’inefficacia del
termine, quando ci sia atto scritto, il difficile onere della prova ricadeva sul
lavoratore, per dimostrare l’intento elusivo del datore di lavoro.
12 DE LITALA, Il contratto di lavoro, cit., p. 95
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