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INTRODUZIONE
L'argomento che si è scelto di trattare in questa tesi è l'Iri, l'Istituto per la
Ricostruzione Industriale. Ci si domanderà il motivo per cui si è optato per
l'analisi di un ente che fu fondato negli anni Trenta, in piena epoca fascista e
che, da ormai vent'anni, ha cessato di esistere, in seguito ad un complesso
iter di smembramento e privatizzazione che esordì nel particolarmente
travagliato periodo di inizio anni Novanta e che terminò ben dieci anni dopo,
nel 2002.
Forse sarà sfuggito ai più distratti, tuttavia, seppur giuridicamente estinto da
un considerevole lasso di tempo, come anticipato, l'Iri non ha mai smesso di
essere un tema d'attualità, giacché, periodicamente, esso riesce a tornare alla
ribalta, divenendo oggetto di proposte da parte di politici, di dibattito nei
salotti televisivi e di ispirazione per gli editorialisti della carta stampata.
Non trascorsero molti anni dalla battuta d'arresto di questo storico, a tratti
persino leggendario, Istituto, che una funesta crisi economica, nel 2008, si
abbatté sull'intero mondo occidentale, non risparmiando nemmeno il nostro
Paese, il quale, al contrario, fu tra quelli che maggiormente furono feriti da
questi squilibri economico-finanziari e conseguentemente sociali, i quali
condussero a profonde riflessioni a proposito del sistema economico in cui
siamo immersi.
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Non ancora risollevatosi appieno da queste gravose problematiche, il mondo
e, di nuovo, con esso, anche l'Italia, si è imbattuto in un altro pernicioso
evento che l'ha sconvolto sotto ogni punto di vista, producendo uno shock
economico-sociale paragonabile a quello che scaturì dallo scoppio della
Seconda Guerra Mondiale. Si sta, naturalmente, riferendosi alla pandemia di
Covid-19, la quale ha costretto i governi a adottare misure drastiche per
tentare di contenere il contagio che, nondimeno, hanno influito piuttosto
negativamente sul prodotto interno lordo degli Stati che le hanno messe in
campo.
A fronte di queste numerose avversità, come si anticipava, viene sovente
tirato in ballo l'Iri, inserito da più parti nell'elenco delle più o meno papabili
soluzioni idonee a trascinare fuori l'Italia da questa serie di sconvolgimenti
che l'hanno così incisivamente afflitta.
Tra le voci più autorevoli che hanno fatto riferimento all'Iri negli ultimi anni,
non ci si può esimere dal menzionare Romano Prodi, il quale ricoprì la carica
di Presidente dell’Iri dal 1982 al 1989 e poi dal 1993 al 1994. Nel dicembre
2019, l'ex numero uno del più importante ente pubblico economico della
storia repubblicana fu ospitato dalla giornalista Lucia Annunziata nella sua
trasmissione della domenica pomeriggio, “Mezz'ora in più”. In quella sede,
si lasciò andare a delle confidenze relative alla privatizzazione dell'Istituto:
"Erano obblighi europei" tenette a sottolineare, come per discolparsi. "A me-
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spiegò -che avevo costruito l'Iri, l'avevo risanata e messa posto, era stato
dato il compito da Ciampi di privatizzare. Si immagini se io ero così contento
di disfare le cose che avevo costruito. Bisognava farlo per rispondere alle
regole generali di un mercato in cui eravamo".
Egli non si limitò solo a ricostruire i retroscena di una delle più imponenti
privatizzazioni messe in atto in Italia; infatti, alcuni mesi dopo, quando il
Covid-19 si era già fatto spazio nelle nostre vite, si spinse ad affermazioni
ben più audaci, riportate in un editoriale apparso sul quotidiano Il
Messaggero. Il Professor Prodi osò addirittura proporre se non la
ricostituzione del celebre istituto, qualcosa di concettualmente simile, una
nuova politica keynesiana per l'Italia: "Come è successo in tutte le grandi
crisi anche questa inattesa pandemia ha rimesso in gioco il ruolo dello Stato
nell’economia. Da molti decenni, infatti, ci si era solo dedicati ad
emarginare in tutti i settori l’intervento pubblico, a partire dall’industria per
finire con la finanza".
Il professore mise anche in evidenza alcune criticità in seno all'Unione
europea: "La Commissione europea dopo anni di severa restrizione, ha
sorprendentemente approvato, anche se in via temporanea, la possibilità dei
diversi Paesi di destinare 1.900 miliardi di aiuti di Stato a sostegno delle
proprie imprese. Tuttavia, oltre la metà di questi interventi pubblici riguarda
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la Germania, dove il governo dispone di risorse infinitamente superiori a
quelle degli altri Paesi".
Per questo motivo il nostro Paese, secondo il suo parere, deve attivarsi per
dare una scossa all'economia e fornire un corposo sostegno alle imprese così
devastate dalla crisi. "Non certo un’altra Iri- precisa -perché il contesto
economico è totalmente cambiato, ma occorre certamente una politica
pubblica che aiuti la ripresa delle nostre imprese". Tra le proposte di Prodi
c'era quella di "agire direttamente sul sistema produttivo" immettendo subito
"le necessarie risorse o con prestiti o a fondo perduto". Perché, come ha egli
illustrato "la pandemia" ha riportato prepotentemente "nell’arsenale di tutti
i governi uno strumento che l’Europa ha sempre avversato" e che "ha
ammesso solo in casi del tutto eccezionali: la diretta iniezione di capitale di
rischio, arrivando fino alla partecipazione dello Stato nel capitale delle
imprese".
L'anno precedente fu invece il Ministro dello Sviluppo Economico Stefano
Patuanelli ad effettuare un ragionamento sul modello di politica economica
applicato in Italia, in particolare nel settore industriale. Egli dichiarò che in
un mondo globalizzato il sistema Paese ha delle priorità industriali da
proteggere e che, per perseguire questa finalità, non è possibile affidarsi
esclusivamente al mercato per risolvere tutti i problemi, ma, al contempo,
non ci si può abbandonare all'illusione che un intervento dello Stato possa
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sostituirsi al mercato: “Per questo occorre trovare un equilibrio attraverso
un soggetto pubblico, chiamiamola nuova Iri (Istituto per la Ricostruzione
Industriale) come volete voi, capace di evitare shock al sistema produttivo e
shock occupazionali”.
Secondo Patuanelli, è necessario predisporre una protezione del tessuto
industriale del Paese, della filiera e dell’indotto di determinati settori. Questo,
a suo avviso, non corrisponde però ad un bisogno di nazionalizzare fine a se
stesso, ma è dovuto alle sfide che si pongono davanti a noi, anche in termini
ambientali, le quali abbisognano di un accompagnamento.
L'ex Ministro del Mise, nella sua riflessione, non si soffermò solo sulle
difficoltà di cui sono interessate le grandi impresi, ma si occupò anche delle
sorti delle piccole e medie imprese. Per ovviare alle loro esigenze, costui
propose di istituire una banca pubblica degli investimenti che sia in grado di
garantire un’erogazione del credito più efficace allo scheletro industriale
italiano, costituito prettamente da una moltitudine di microimprese,
nettamente più fragili dei colossi multinazionali con cui entrano in
concorrenza nel mercato interno dell'Unione Europea e a livello globale.
Quelli riportati sono solo due esempi di personaggi di un certo calibro che,
nell'elaborazione di possibili ricette per arginare la recessione, hanno
espresso l'idea di ripristinare, sebbene con nuove vesti, un ente pubblico sulla
falsariga dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale o, quantomeno, hanno
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proposto di adottare nuovamente una politica che ammetta un consistente
intervento pubblico a livello economico, così come era usuale ai tempi in cui
l'Iri operava, ma che non è più in voga da alcune decadi, vale a dire da quando
ci si è orientati verso la prevalenza della concorrenza nel libero mercato,
contesto in cui l'azione statale è da considerarsi una minaccia ai delicati
equilibri che vanno a crearsi tra gli operatori.
Alla luce di queste esternazioni, è scaturita la curiosità riguardo l'effettiva
possibilità di implementare queste politiche ispirate, senza spingerci
nell'esegesi del pensiero keynesiano, a quanto previsto nella cosiddetta
Costituzione economica. Si fa qui riferimento al Titolo III, denominato
“Rapporti economici”. In particolare, è opportuno riportare il contenuto del
terzo comma dell'articolo 41, il quale è stato così redatto: “La legge
determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica
pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Anche l'articolo 43 rispecchia la visione interventista nell'economia dei
nostri padri costituenti: “A fini di utilità generale la legge può riservare
originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo,
allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate
imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali
o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di
preminente interesse generale”.
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Per quanto queste disposizioni siano estratte dalla nostra Costituzione, la
quale è posta al vertice della gerarchia delle fonti nell'ordinamento italiano,
è da prendere in considerazione il fatto che attualmente l'interpretazione del
diritto interno è subordinata anche al rispetto della normativa derivante
dall'Unione Europea, la quale, tra i vari principi cardine che la
contraddistinguono, è orientata alla preservazione del libero mercato e della
concorrenza.
Pertanto, la domanda a cui si proverà a rispondere nel corso di questo
elaborato concerne la compatibilità con la normativa attualmente vigente di
un ente ispirato alla struttura, ai mezzi e agli obiettivi che caratterizzarono
nel secolo scorso l'Istituto per la Ricostruzione Industriale, o, perlomeno, di
misure che tendano a ricalcare quelle attività.
Per fare ciò, nel primo capitolo si ripercorreranno i punti salienti dell'iter
normativo che ha percorso l'Iri nel corso di quasi settant'anni di storia a tratti
gloriosa, a tratti travagliata.
Si partirà dall'analisi del regio decreto-legge 23 gennaio 1933 n.5, convertito
in legge 3 maggio 1933, n. 512. Fu questo l'atto normativo mediante cui
l'Istituto fu fondato. Esso sorse per soddisfare delle esigenze che si riteneva
essere momentanee. Nello specifico, gli furono attribuite due funzioni.
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Il primo compito fu quello di fare fronte alla pesante crisi del sistema
bancario italiano, attraverso la riforma bancaria che, nel 1936, sfociò nella
separazione tra banche commerciali e banche d’investimento; il secondo
ruolo che gli fu affidato fu quello riguardante la riorganizzazione di tutte le
partecipazioni detenute dalla Banca Commerciale Italiana, dal Credito
Italiano e dal Banco di Roma, tre grandi istituti bancari italiani severamente
colpiti dalla crisi.
Dopodiché, si passerà al secondo atto normativo pregnante nella
ricostruzione dell'operato dell'Istituto. Questo è individuabile nel regio
decreto-legge 905/1937.
Esso depennò definitivamente quella convinzione che l’Iri fosse un ente
funzionale a un intervento statale di supporto in un momento di crisi, il quale,
in seguito, centrato lo scopo per il quale era stato precedentemente istituito,
avrebbe dovuto essere smantellato. Infatti, in quell'anno, l'Istituto subì una
trasformazione che segnò l'inizio del suo lungo cammino. Esso divenne un
ente statale permanente e fu suddiviso in due sezioni differenziate per
permettere una più efficace gestione: la sezione bancaria, comprendente i tre
istituti bancari già menzionati, e la sezione industriale, contenente al suo
interno tutto l’insieme di partecipazioni dello Stato all’interno di imprese
strategiche dell’economia italiana.
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Terminata la tragica esperienza fascista durante la quale l'Iri ebbe origine, si
sarebbe potuto pensare alla sua estinzione, ma, così come sopravvissero
sostanzialmente il Codice Civile e il Codice Penale, anch'esso non perì.
Infatti, proseguì nella strada tracciata e diventò il perno centrale della
rinascita economica dell’Italia nel secondo dopoguerra. Ciò accadde sotto il
controllo totalmente gestito dal Ministero del Tesoro, il quale assicurò che
l'Iri ricoprisse una funzione di sviluppo industriale e di gestione degli
investimenti infrastrutturali che erano fondamentali in un Paese uscito a
brandelli da una dittatura e da un conflitto mondiale.
Il terzo passaggio normativo su cui ci si soffermerà riguarda il tramonto
dell'Istituto, il quale fu avviato all'inizio degli anni Novanta.
Le regole imposte dall'Unione Europea (particolarmente in conseguenza del
Trattato di Maastricht) portarono alla redazione di un generale programma
di privatizzazione del sistema delle imprese a partecipazione statale. L'Iri fu
trasformato da ente pubblico economico in società per azioni l'11 luglio 1992
e venne avviato un corposo programma di privatizzazione delle sue aziende.
Successivamente, nel giugno 2000, quando la quasi totalità del programma
di privatizzazione era stata messa in atto, l'Iri entrò nella fase di liquidazione
e cessò definitivamente le sue attività il 1° dicembre 2002, con
l'incorporazione delle attività residue in Fintecna spa.
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Nel secondo capitolo, si affronterà l'osservazione della struttura dell'Istituto,
la quale corrisponde a quella dei gruppi di imprese. L'Iri fungeva da
capogruppo. Sotto di essa si trovavano le holding di settore, come, per
esempio, Finmeccanica e Finsider, le quali erano imprescindibili per
organizzare un gruppo le cui attività spaziavano lungo molteplici campi,
quali la meccanica, la siderurgia, le telecomunicazioni, ecc. Queste
comprendevano le società controllate, le quali erano subordinate alle holding
in base, appunto, all'ambito in cui si svolgeva la loro attività.
Nel terzo capitolo si affronterà l'analisi della Società Autostrade, fiore
all'occhiello dell'Iri, la quale fu protagonista, tra le tante infrastrutture che
eresse, della realizzazione dell'Autostrada del Sole e del successivo
programma autostradale, un'opera di importanza strategica per il sistema dei
trasporti e per l'assetto territoriale nazionale.
Infine, nell'ultimo capitolo, verrà illustrata la normativa europea in materia
di imprese, concorrenza ed aiuti di Stato, la quale ci guiderà nella ricerca
della risposta circa la possibilità di istituire una sorta di nuova Iri ai giorni
nostri.