INTRODUZIONE
Con la comparsa dell’emergenza sanitaria, conseguente alla diffusione del virus
COVID, diversi ambiti della vita delle persone sono stati interessati da cambiamenti
che hanno determinato conseguenze rilevanti per il benessere psicologico degli
individui. In ambito lavorativo, un cambiamento di dimensioni notevoli ha riguardato
l’adozione dello smart working, o lavoro da remoto, come modalità lavorativa
utilizzata tra le principali misure di contenimento del contagio.
La forzata applicazione dello smart working ha avuto un relativo successo e ha
permesso di evidenziare in che modo tale modalità possa essere funzionale per le
organizzazioni. Queste premesse, unitamente ai diversi cambiamenti che in anni
recenti hanno interessato l’ambito lavorativo, determinano un contesto sempre più
caratterizzato dall’utilizzo della tecnologia. L’utilizzo dello smart working in
conseguenza dell’emergenza pandemica ha infatti dato un’ulteriore spinta a tali
cambiamenti e, alla luce di uno spostamento verso la tecnologia di tali dimensioni, si
ritiene importante indagare quelle che possono essere le conseguenze negative
associate ad una simile modalità lavorativa.
Nel presente lavoro di tesi è stato indagato il technostress, come conseguenza dello
smart working. Tale condizione risulta infatti fortemente collegata alla presenza e
all’utilizzo della tecnologia, e determina diversi esiti negativi per il benessere
psicologico degli individui. In base a quanto detto, è presumibile che ci sia un
aumento considerevole del technostress e delle conseguenze ad esso legate. Per
questo motivo, ci si è focalizzati sullo studio delle modalità di riduzione di
quest’ultimo. L’obiettivo dell’indagine è stato dunque quello di individuare e
comprendere in che modo sia possibile ridurre la condizione di technostress.
Per poter fare questo, si è compiuta una revisione della letteratura riguardante gli
interventi psicosociali implementati in ambito organizzativo e i costrutti che sono
stati presi in considerazione come base per tali interventi.
All’interno del lavoro si è cercato in primo luogo di caratterizzare il contesto dello
studio. Dunque, nel primo capitolo è stato descritto lo smart working, e in generale il
lavoro da remoto, collocandolo in termini temporali e normativi, in riferimento al
contesto italiano. Si è inoltre discusso dell’applicazione di tale modalità lavorativa
durante l’emergenza pandemica e delle sue conseguenze, prendendo in
considerazione il contesto globale.
Nel secondo capitolo si descrive il costrutto di technostress, analizzando le
definizioni teoriche, gli antecedenti, i fattori di protezione e le conseguenze di tale
condizione. Viene poi discusso il rapporto che intercorre tra il technostress e lo smart
working, con particolare focus sulla natura di tale relazione nel contesto
dell’emergenza pandemica.
Infine, il terzo capitolo riguarda lo studio di revisione vero e proprio. Si discutono gli
aspetti messi in evidenza dall’analisi della letteratura riguardante gli interventi
implementati per la riduzione del technostress. Vengono descritti i risultati ottenuti
all’interno degli studi, in riferimento alle dimensioni individuate come rilevanti nella
riduzione degli esiti negativi. In conclusione, vengono messe in evidenza le
implicazioni emerse, e in che modo possano essere prese in considerazione
nell’implementazione di interventi futuri finalizzati alla prevenzione del technostress
e al miglioramento del benessere organizzativo.
CAPITOLO I
NASCITA, APPLICAZIONE ED ESITI DELLO SMART
WORKING
1. Definizione, aspetti normativi e caratteristiche dello smart working
Con il termine di “smart working” ci si riferisce ad un tipo di modalità lavorativa
flessibile, caratterizzata dalla libertà da parte del dipendente nello scegliere il proprio
spazio e i propri tempi lavorativi. Lo smart working dunque rappresenta una delle
possibili forme assunte dal lavoro da remoto, con le sue peculiari caratteristiche, che
verranno discusse di seguito (Toscano & Zappalà, 2020). È importante premettere
che l’applicazione delle varie forme di lavoro flessibile, non dipendenti dalla sede
fisica di lavoro, nasce a fronte di motivazioni ben precise, che con il tempo sono
andate a modificarsi, comprendendo finalità diverse.
I primi ad utilizzare i termini di telework e telecommuting sono stati Nilles, Carlson,
Gray e Hannemann, nel 1976 (Toscano & Zappalà, 2020), per riferirsi genericamente
al lavoro a distanza, dunque non svolto sul posto di lavoro; in particolare, essi si
riferivano alle modalità che alcune organizzazioni negli Stati Uniti cominciavano a
sperimentare, con l’intento di ridurre gli spostamenti dovuti al lavoro, e
conseguentemente diminuire l’inquinamento e ulteriori problemi relativi proprio a
questi spostamenti.
Nel contesto italiano, la nascita (o meglio, l’applicazione) del lavoro da remoto può
essere fatta risalire al 1999, anno in cui tale forma di lavoro viene per la prima volta
specificatamente normata e applicata alla Pubblica Amministrazione (D.P.R n.70,
marzo 1999) con la forma di telelavoro; alcuni anni dopo (Accordo interconfederale,
giugno 2004) tale forma viene applicata anche al settore privato. Già nel 1998 però si
parla di telelavoro come pratica applicabile alle Amministrazioni Pubbliche, «con
l’intento di realizzare economie di gestione attraverso l’impiego flessibile delle
risorse umane» (legge n.91/1998). Ad ogni modo fino al 2017, anno in cui è stata
promulgata la legge n.81/2017 non si può effettivamente parlare di smart working
per come lo intendiamo oggi. Infatti, la legge ha ulteriormente ampliato le forme di
lavoro a distanza, introducendo il concetto di lavoro agile (l’odierno smart working),
che presentava delle differenze rispetto al telelavoro. Infatti, mentre il telelavoro
rappresenta una tipologia di lavoro che «viene svolta in qualsiasi luogo ritenuto
idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro con il prevalente supporto di
tecnologie dell’informazione e della comunicazione» (D.P.R. n.70, Marzo 1999), il
lavoro agile ha caratteristiche più flessibili, «senza vincoli di orario o di luogo di
lavoro […]. la prestazione lavorativa viene eseguita in parte all’interno […] e in
parte all’esterno, senza una postazione fissa» (legge n.81/2017). Inoltre, le finalità
dichiarate dell’applicazione del lavoro agile sono l’aumento della competitività e
l’agevolazione della conciliazione dei tempi vita-lavoro. Per quanto le due forme di
lavoro siano sovrapponibili, il lavoro agile presenta un’ulteriore peculiarità: è una
forma di lavoro “reversibile”, che può essere modificata, previo accordo tra il
dipendente e il datore di lavoro, e può essere trasformata in una modalità lavorativa
svolta completamente sul luogo fisico di lavoro (legge n.81/2017). Dal momento che
la terminologia lavoro agile viene utilizzata in termini normativi per indicare lo smart
working, nel presente lavoro i due termini verranno utilizzati indifferentemente per
riferirsi alla stessa modalità lavorativa.
Una volta collocato lo smart working in termini storici e normativi, è importante
innanzitutto considerare il fatto che il termine risulta essere proprio del contesto
italiano, dal momento che nel contesto internazionale esso non viene utilizzato;
d’altronde, vi sono delle terminologie che fanno riferimento a modalità lavorative
che presentano le stesse caratteristiche dello smart working, e che sono caratterizzate
dalla stessa flessibilità. Ad esempio, si può parlare di flexible work nel contesto
statunitense, in riferimento alla modalità lavorativa più simile allo smart working
italiano; oppure al termine generico telework, utilizzato maggiormente nel contesto
europeo, ad indicare qualunque forma di lavoro svolta lontano dalla sede lavorativa
fisica, con l’adozione di strumenti tecnologici e informatici appositi (Toscano &
Zappalà, 2020). L’importanza di avere un’idea di quelle che sono le definizioni del
lavoro da remoto utilizzate nel contesto al di fuori di quello italiano risiede
specialmente nell’analisi della letteratura riguardo tali forme. Infatti, per poter
operare dei confronti (in termini di esiti e implicazioni dell’adozione di queste forme
lavorative) con altri contesti, risulta utile avere un ventaglio di definizioni diverse
che si riferiscono a modalità lavorative con le stesse caratteristiche.
Il lavoro agile dunque si configura come uno strumento potenzialmente utile per le
organizzazioni e i propri dipendenti, specialmente a fronte di diverse esigenze. La
flessibilità in termini di spazio si esprime nell’utilizzo, da parte dei lavoratori, di
spazi domestici, ma anche di sedi aziendali differenti da quella principale, spazi di
co-working e luoghi pubblici adibiti (Osservatorio sullo Smart Working del
Politecnico di Milano, 2018; Toscano & Zappalà, 2020); mentre la flessibilità in
termini di orario riguarda sia la quantità di giorni in cui il lavoro viene svolto in
smart working, sia la definizione dell’orario lavorativo in tali giorni. Infatti i
lavoratori possono strutturare il proprio lavoro da remoto secondo l’orario
tradizionale, oppure a seconda delle proprie esigenze (Toscano & Zappalà, 2020). Il
lavoro agile è tuttavia applicabile soltanto ad alcune categorie di lavori e lavoratori, e
l’applicazione di questa modalità comporta una progettazione del lavoro da parte
delle organizzazioni, ad esempio per ciò che concerne la gestione dei dipendenti (fare
in modo che essi abbiano le attrezzature adatte per svolgerlo, verificare il rispetto dei
criteri di sicurezza anche da remoto), dunque non sempre si tratta di un passaggio
semplice.
Varie organizzazioni in diversi paesi hanno introdotto già da tempo in maniera ampia
la modalità di lavoro da remoto, e l’Italia non è stata uno di questi, almeno fino al
2015. L’Indagine Europea sulle Condizioni di Lavoro ha mostrato infatti che durante
quell’anno, l’Italia era in ultima posizione in Europa in termini di percentuale di
lavoratori da remoto, con solo il 7% dei lavoratori totali (Eurofound-International
Labour Office, 2017). Dal 2017, dunque dall’adozione della legge n.81, ci sono stati
dei cambiamenti, l’applicazione dello smart working ha interessato sempre più
organizzazioni, sia pubbliche che private, con un andamento moderato, fino a
giungere al 2020. Con l’esplosione della pandemia di COVID-19, e il conseguente
lock-down forzato nel periodo marzo-maggio 2020, la pratica dello smart working è
stata utilizzata come strumento di prevenzione, e la sua applicazione ha assunto
dimensioni notevoli.