VI
la formulazione del suddetto Statuto. Proprio l’art. 13 dello Statuto
rappresentava una premessa per la rinascita in quanto stabilisce che “lo Stato,
con il concorso della regione, dispone un piano organico per favorire la
rinascita economica e sociale dell’isola”. Infatti, il piano di rinascita venne
formulato in attuazione di questo articolo ed il dato più importante che
accomunò le discussioni sia in sede politica che culturale riguardò il ruolo da
attribuire alla Regione nella formulazione ed attuazione del piano.
Il testo di Lorenzo Del Piano, “Il sogno americano della rinascita sarda”,
descrive, invece, l’idea americana della rinascita e più specificatamente della
Fondazione Rockefeller: gli americani ritennero che il problema
dell’arretratezza economica sarda fosse legato alla scarsità demografica e
proposero, in seguito ad esperimenti già attuati con notevoli risultati nel loro
Stato, un’immigrazione nell’isola di nuove popolazioni provenienti da zone
geografiche più sovrappopolate. Una simile proposta non fu accettata dai
sardi in quanto respingevano l’ingerenza americana nella loro isola.
Dopo il primo Congresso del popolo sardo, momento in cui venne formulato
lo schema di un piano organico per la rinascita economica e sociale
dell’isola, venne istituita una Commissione economica di studio con lo scopo
di prospettare la valorizzazione economica dell’isola. A tale Commissione,
che presentò solo dopo quattro anni un Rapporto conclusivo degli studi
effettuati, seguì immediatamente l’istituzione di un’altra Commissione
denominata “Gruppo di lavoro”. I Rapporti conclusivi di entrambe la
Commissioni suscitarono un dibattito sia in sede politica che culturale.
Il piano di rinascita fu molto sentito in quel periodo in quanto coinvolse non
solo gli schieramenti politici e gli spazi culturali, ma anche tutta l’opinione
pubblica. Infatti, si viveva in Sardegna un momento in cui forte era la
richiesta di cambiamento di fronte alla stagnazione dell’economia e degli
insufficienti risultati conseguiti sino ad allora. La rinascita era vista come un
progetto globale di sviluppo e di ammordenamento della società sarda. Nel
1959 venne perfino istituita una Commissione speciale di delegati sardi che
si recò in Israele con lo scopo di accertare come in questo Stato in soli dieci
VII
anni fossero stati progettati e realizzati con successo piani di sviluppo
economico e sociale che trasformarono radicalmente l’economia del paese.
Israele presentava alcune caratteristiche ambientali simili a quelle della
Sardegna. Negli atti dei verbali della Commissione economica è stato
possibile trovare una relazione dettagliata su tale missione
Il piano di rinascita fu il primo esperimento di pianificazione regionale in cui
si applicò il modello di programmazione che si andò affermando a livello
nazionale; inoltre, aprì il dibattito sull’autonomia che successivamente si
sviluppò in Sardegna, all’interno del quale fu visto non solo come
un’occasione di progresso economico, ma soprattutto come punto d’approdo
del tradizionale rivendicazionismo isolano causato dal secolare abbandono
sofferto sotto diverse dominazioni. Il piano di rinascita fu altresì l’occasione
storica in cui il popolo sardo venne pervaso da un dibattito politico-culturale
che si protrasse per tutti gli anni Cinquanta ed impegnò lo schieramento
politico nella sua interezza. Fu il momento storico di misurare le forze della
Regione e della classe dirigente sarda. La “politica della rinascita”
presupponeva di “irrobustire” lo spirito autonomistico per contrastare i
pesanti ostacoli che l’organo centrale, nella sua storica vocazione
accentratrice, continuava a porre. Entrambe le Commissioni incaricate di
formulare un piano organico d’intervento non avevano, nel definitivo
“Rapporto conclusivo”, indicato chiaramente quale sarebbe dovuto essere
l’organo di attuazione del piano. Dalla rivendicazione della centralità della
Regione dipendeva la rinascita della Sardegna e su questo aspetto s’incentrò
la reazione regionale al disegno di legge predisposto dal governo per
l’attuazione dell’art. 13 dello Statuto.
Il mondo economico sardo era sempre stato subordinato ed asservito agli
interessi monopolistici centrali; la linea di rottura di questa situazione si
sarebbe potuta realizzare attraverso una chiara interpretazione dell’art. 13
che, secondo il Consiglio regionale, si poteva concretare affidando alla sola
Regione l’attuazione del piano.
VIII
Il lungo iter legislativo fu caratterizzato anche da un numero piuttosto
elevato di emendamenti proposti dalla Regione sarda e da accesi dibattiti,
all’interno dei quali emergeva una notevole discordanza tra gli schieramenti
politici sulla gerarchia e sui tempi da assegnare agli interventi nei diversi
settori. Il governo presentò un disegno di legge in cui la preminenza dello
Stato e la sua funzione nell’attuazione erano assolute; infatti era prevista
l’istituzione di una Sezione speciale della Cassa per il Mezzogiorno. Questo
testo del governo trovò molte resistenze negli ambienti della Regione e passò
al Senato praticamente nella stessa formulazione, ma fu invece fermato alla
Camera, la quale escogitò un compromesso istituzionale. Infatti, il progetto
di legge, dopo aver subito diverse modifiche nei passaggi dal Senato alla
Camera, venne definitivamente approvato il 29 maggio, assumendo la veste di
legge dello Stato: la n. 588 dell’11 giugno 1962. Detta norma sancì che la
Regione era delegata all’attuazione del piano, mentre la predisposizione e la
formulazione dei programmi del piano generale erano ancora di competenza
della Regione, ma d’intesa con la Cassa per il Mezzogiorno.
L’unità rivendicativa autonomista del piano di rinascita fu così faticosamente
realizzata. Gli anni Sessanta vennero considerati gli anni della rinascita in
quanto con l’approvazione della legge n. 588 presero consistenza i primi
interventi del piano. La Regione stava dando attuazione all’art. 13 dello
Statuto con la speranza di realizzare quella che per un decennio era stata
considerata una massima aspirazione: dare maggiore concretezza
all’autonomia.
1
I. PARTE
L’INGRESSO DELLA SARDEGNA NEL SISTEMA
NAZIONALE
Capitolo 1.
IL FASCISMO IN SARDEGNA
1.1. La situazione preesistente
Le vicende della Sardegna nel periodo fascista furono
strettamente collegate a quelle nazionali. Il regime fascista rappresentò
per la Sardegna e le altre regioni emarginate del Meridione un brusco e
spesso forzato cambiamento attraverso l'unificazione economica e
politica al resto del paese. Per l'isola era iniziata una nuova fase di
subordinazione della classe dirigente sarda alla volontà dei centri
decisionali dello Stato e del sistema produttivo isolano alle necessità
dello sviluppo economico imposto dal fascismo.
Per quanto riguarda la situazione generale dell'isola, nel 1921,
oltre il 50% della famiglie era impegnato in attività agricole e soltanto il
22,8% ricavava il sostentamento da attività industriali.
2
Nel settore agricolo la struttura produttiva si basava su
un’economia agro-pastorale arcaica con la prevalenza della pastorizia
ovina e del pascolo. C’era la predominanza di una piccola proprietà
molto frazionata con numerose aziende contadine per nulla avanzate
tecnologicamente. Non esisteva, inoltre, nessuna forma di associazione
per qualche coltura specializzata e gli spazi lasciati incolti nel corso dei
secoli avevano aggravato la situazione idrogeologica in quanto i corsi
d’acqua maggiori (Tirso, Coghinas, Flumendosa, Terno
1
), nei periodi di
piena, in seguito anche a disboscamenti dovuti all’incuria del governo,
avevano generato con le inondazioni paludi e stagni e provocato la
diffusione della malaria.
Alla vigilia della prima guerra mondiale persisteva nell’isola una
certa stagnazione economica dovuta anche all’assenza di iniziative
industriali e attività manifatturiere che, invece, si erano già avviate nel
resto dell’Italia. Il numero dei proprietari coltivatori diretti in età
superiore ai 10 anni era di circa un terzo (55.337 su 197.273) rispetto a
tutti gli addetti all'agricoltura, i pastori erano 42.098, i giornalieri
(braccianti agricoltori e non) 79.724.
1
Giampaolo Pisu, Società Bonifiche sarde 1918-1939, Milano, FrancoAngeli, 1995.
3
L'unica concentrazione operaia di una qualche consistenza era
quella attiva nelle miniere in cui risultavano impiegate 5.677 unità
lavorative, che negli anni che seguirono, superata la crisi, aumentarono
di alcune migliaia
2
.
Le singole proprietà erano 270.614 in una superficie agraria di
2.361.987 ettari. Non esisteva la grande azienda agraria capitalistica e
non si erano sviluppate le lotte dei braccianti come, invece, era successo
in Emilia e nella pianura padana; quindi non si era creato un fascismo
agrario simile a quello delle altre regioni.
Nell'isola, inoltre, non si erano create le contraddizioni di classe
che invece avevano avuto luogo nelle industrie del Nord, facilitando il
sorgere del fascismo. In effetti, il regime fascista per potersi affermare
in Sardegna fece in modo di cooptare al suo interno un progetto del
Partito sardo d'azione anche se poi la validità autonomistica fallì. I
fascisti con la loro posizione antisocialista e antioperaia trovarono
l'appoggio delle forze borghesi tradizionali, che da sole si erano
logorate negli anni ed erano state incapaci di sviluppare un disegno
politico di ampio respiro. Nel 1921, mentre l'Italia vedeva lo sviluppo ed
il progressivo affermarsi del fascismo, tra la popolazione sarda era,
invece, forte uno spirito di ostilità nei confronti del regime. Comunque,
2
Istituto nazionale di economia agraria, La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia, Sardegna,
4
anche nell'isola il regime finì col prevalere e a niente valsero i numerosi
episodi di insofferenza e di ribellione all'azione violenta delle squadre
fasciste.
A favore del fascismo giocava la situazione di cambiamento che si
era creata sotto l'insorgere della Grande Guerra, in quanto per la prima
volta il popolo sardo era entrato in contatto con una "civiltà diversa".
Infatti, quasi centomila sardi avevano partecipato al conflitto mondiale
(nel 1921 l'isola, secondo il primo censimento del dopoguerra, contava
859.000 abitanti). Fino ad allora la Sardegna era sempre stata isolata dal
resto della storia nazionale ed improvvisamente era rimasta coinvolta ed
anche toccata direttamente, per le gravi perdite di uomini, in un evento
di grande portata nazionale. I militari della Brigata Sassari, ora famosi,
erano per il 95% pastori e contadini ed il restante era costituito da
operai, minatori ed artigiani; gli ufficiali, invece, provenivano dalla
piccola e media borghesia.
Nel dopoguerra si formarono forze politiche di diverse esperienze
e sensibilità, ma tra queste, il partito più spiccatamente sardo fu quello
dei Combattenti che confluì in seguito nel Partito Sardo d'Azione
(PSd'A) e che coinvolse le masse popolari nella duplice battaglia di
rivendicare i diritti della Sardegna nei confronti dello Stato e di
Ed.Italiane, Roma, 1947.
5
difendere i diritti dei pastori e dei contadini dalle classi che fino ad
allora avevano governato l'economia e la vita politica isolana.
Il PSd'A rappresentò un forte impulso per la lotta politica e per i
movimenti sindacali. Molteplici episodi, legati alla conquista delle
amministrazioni, alla rivendicazione della terra, alla lotta contro
l'organizzazione del mercato caseario che era nelle mani dei monopolisti
continentali, si ebbero nei piccoli centri e coinvolsero pastori e
contadini che sino ad allora erano rimasti del tutto emarginati.
Il fascismo, in un primo tempo, fu condizionato in Sardegna dalla
presenza dei sardisti. Fascismo e sardismo avevano in comune il
combattentismo, "nazionale", popolare, antisocialista ed anticlientelare,
tanto che alla fine la maggior parte del gruppo dirigente del Partito
Sardo d'Azione si iscrisse al PNF. Infatti, il partito sardista era
configurato sul modello della organizzazione e della disciplina che
durante la guerra erano state le caratteristiche della trincea, laddove
coesisteva un rapporto di fedeltà, di obbedienza e di fiducia tra soldato
ed ufficiale. Tali propositi trovavano la loro massima espressione nel
fascismo.
L'impegno dei sardisti era sempre stato quello di realizzare l'unità
delle masse rurali e di instaurare attraverso l'autonomia regionale un
nuovo rapporto con lo Stato nazionale. Tali obiettivi erano stati causa di
6
scontro, a partire dal 1921, anche sanguinoso con il regime fascista, il
quale riuscì a predominare nell'isola solo dopo una sua vittoria completa
in sede nazionale. Purtroppo, di fronte all'affermarsi del regime "come
rottura del quadro democratico e come aperta violenza di classe"
3
, il
PSd’A dovette soccombere sia per i sistemi di corruzione e di violenza
del fascismo, ma anche per l’accentramento politico molto rigoroso. Il
fascismo sosteneva che la democrazia si sviluppava solo con
l’autogoverno e l’amministrazione di sé stessi e ciò non poteva far altro
che colpire le autonomie locali.
3
Vincenzo Foa, Per una storia del movimento operaio, Torino, 1980, p.258.
7
1.2. Integrazione e “Legge del miliardo”
Nei primi anni del dopoguerra la situazione economica della
Sardegna era stata caratterizzata da una crisi assai grave. L'aumento
costante del costo della vita e la disoccupazione colpivano soprattutto
gli operai d'industria e gli impiegati. Il prezzo del pane, della pasta e di
altri generi di prima necessità era salito e la situazione si era aggravata
anche per quanto riguarda i salari e gli stipendi. I disoccupati erano in
numero maggiore rispetto a quelli dell'anteguerra: solo nella provincia
di Cagliari erano, nell'agosto 1921, 2.669.
La popolazione sarda era cresciuta soltanto di 6.000 abitanti
rispetto agli 853.000 del 1911 perché assieme al calo di natalità anche la
guerra aveva contribuito a peggiorare la situazione. Inoltre, era stata
violenta l'epidemia "spagnola" ed il 40% dei comuni sardi aveva subito
forti diminuzioni di popolazione.
La popolazione
4
attiva ammontava a 331.000 abitanti (328.000 nel
1911), di cui 200.000 si dedicavano all'agricoltura ed alla pastorizia
(194.000 nel 1911), 62.000 all'industria (71.000 nel 1911), 13.000 ai
trasporti (11.000 nel 1911), 15.000 al commercio (12.000 nel 1911) e
41.000 nelle altre attività (come nel 1911).
4
Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna durante il Fascismo, Laterza, 1995.
8
Gli analfabeti erano 366.000 contro i 418.000 del 1911. La malaria
raggiunse in quegli anni una media del 97,5 per mille contro una media
nazionale del 12 per mille. Si moriva anche di tubercolosi: 2.000 unità
all'anno. La densità della popolazione era la minore del paese, 36
abitanti per Kmq. Su 364 comuni, 250 non erano dotati di acquedotto,
357 mancavano di fognature, 156 non avevano scuole e 199 avevano
cimiteri inadatti o insufficienti. Inoltre, la rete stradale era assai poco
sviluppata.
Da tale quadro generale si deduce che le risorse fondamentali
dell'isola erano l'agricoltura e la pastorizia. L'unica attività industriale
isolana, a parte piccole iniziative artigianali, era data dalle miniere. Nel
1920, gli operai erano 8.000 e la produzione annua complessiva era di
80.000 tonnellate di combustibili fossili e 60.000 tonnellate di minerali
metalliferi. Ad una elevata produttività non corrispondeva una equa
distribuzione dei salari dei minatori, le cui condizioni erano
estremamente dure.
Alla fine della guerra la classe operaia acquistò un potere
contrattuale sino ad allora sconosciuto. I notevoli miglioramenti delle
retribuzioni che i lavoratori delle miniere metallifere e carbonifere
riuscirono ad ottenere in seguito ad una lunga lotta, provenivano dagli
utili di capitale accumulati durante la guerra. Nel ‘20-’21 era
9
sopravvenuta la crisi anche nelle zone minerarie più solide. La
disoccupazione tendeva ad accentuarsi nella provincia di Cagliari ed
investiva tutti i settori. Una crisi dovuta ai costi di produzione, dei
materiali, dei noli dei trasporti, alla scarsità dei giacimenti e degli
approvvigionamenti e specialmente alla chiusura dei mercati esteri dei
minerali di piombo e di zinco, che registravano scarse quotazioni.
Chiaramente, la crisi si ripercuoteva sui lavoratori: i disoccupati
superavano le 2.000 unità nel periodo iniziale della crisi. Come
conseguenza, numerose furono le agitazioni operaie di quel periodo.
In tale situazione gli ex sardisti sottoponevano al governo le
preoccupazioni dell'isola ed ottenevano che venisse approvata la spesa
di un miliardo "per opere pubbliche straordinarie nell'isola, da eseguirsi
a cura diretta dello Stato"
5
. Il R.D. 6 novembre 1924 n. 1931, noto come
"Legge del miliardo" disponeva la spesa di un miliardo da ripartire in
dieci annualità con l'obiettivo di realizzare una serie di opere tra loro
coordinate per un miglioramento dell'ambiente naturale dell'isola
attraverso la bonifica e le trasformazioni agrarie e culturali; per
l'ampliamento dei porti e della rete stradale; per lo sviluppo
dell'industria e per altri miglioramenti delle condizioni generali
dell'isola.
5
Comunicato Agenzia Stefani del 3 novembre 1924.
10
L'esecuzione di tali opere fu affidata ad un Provveditorato alle
Opere pubbliche per la Sardegna, istituito con la legge 7 luglio 1925
n.1173, che doveva eseguire le opere statali, dei Comuni e delle
Province. Gli Enti locali avrebbero poi dovuto rimborsare le quote di
spesa a loro carico prima in venti anni e, dopo, in trenta
6
.
In meno di sei mesi venne predisposto un "Piano regolatore delle
opere pubbliche per la Sardegna".
Il piano prevedeva i seguenti finanziamenti
7
:
opere pubbliche stradali £.159.720.000
opere marittime £.121.235.000
bonifiche, correzioni corsi d'acqua,
rimboschimenti, opere d'irrigazione £. 46.000.000
utilizzazione acque pubbliche £. 67.236.000
acquedotti e fognature £.203.511.000
opere igieniche varie £. 38.000.000
istituti scientifici, ecc. £. 75.000.000
fabbricati statali £. 16.000.000
frane ed alluvioni £. 5.559.000
6
Il Piano di Rinascita della Sardegna - Leggi e programmi, Gallizzi, Sassari 1971, p. 31.
7
Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna durante il Fascismo, op. cit.
11
Nel 1934 erano in corso di esecuzione 139 opere per 245 milioni,
mentre erano già state eseguite 923 opere per 430 milioni. Nei primi otto
anni di attuazione del piano erano state portate a termine "330 opere di
bonifica per 190 milioni, 38 rimboschimenti per 4 milioni; 64 opere
stradali per 51 milioni; 91 opere marittime per 47 milioni; 24 opere
scolastiche per 9 milioni; 102 acquedotti per 61 milioni; 14 fognature
per 7 milioni; 133 cimiteri per 14 milioni; 12 opere varie per 3 milioni;
54 opere per le alluvioni e le frane per 13 milioni"
8
.
Per quanto riguarda gli interventi di bonifica, in un primo
momento si dovevano estendere a 884.415 ettari. In seguito vennero
ridotti a 264.202 ed anche la superficie da rimboschire venne ridotta da
400.000 a 50.000 ettari. I successivi disegni di legge 18 maggio 1924, n.
753 e 20 novembre 1925 n. 2464, e la legge Mussolini del 24 dicembre
1928 n. 3134, finanziarono un piano di quattordici anni riguardante la
costruzione di opere pubbliche di bonifica a carico dello Stato. La legge
del 20 dicembre 1923 n. 3256, dichiarava che la bonifica oltre alle opere
di prosciugamento dei terreni paludosi doveva riguardare la sistemazione
montana e valliva dei corsi d'acqua e la conseguente eliminazione della
malaria.
8
Ibidem.