21
Capitolo V: contiene il già citato art. 23, diviso nelle sue due sezioni A e B, relative
ai metodi per evitare le doppie imposizioni. Esse trattano, rispettivamente, il
metodo dell’esenzione e quello del credito di imposta.
2. Treaty shopping: definizione ed inquadramento del fenomeno
Il principale obbiettivo di due Stati che stipulano un trattato internazionale contro
la doppia imposizione è quello di garantire un’equa ripartizione dei rispettivi poteri
impositivi. Questo, almeno nelle intenzioni delle parti stipulanti, dovrebbe
incoraggiare gli investimenti degli operatori economici residenti che presentano
situazioni reddituali transfrontaliere, a giovamento delle economie nazionali e dei
relativi gettiti fiscali.
Nessuna impresa con residenza italiana, ad esempio, aprirebbe mai una succursale
negli Stati Uniti in assenza di una convenzione bilaterale che definisca chiaramente,
tra le altre cose, le modalità e il luogo in cui il reddito di tale succursale verrà tassato,
poiché esso, probabilmente, finirebbe per essere tassato in entrambi gli Stati. La
fiscalità è un fattore determinante nella scelta dello Stato in cui investire, non
soltanto con riferimento al sistema fiscale dello Stato in questione, ma anche in
relazione alla Convenzione stipulata con il Paese di residenza.
In realtà, come anticipato nelle pagine precedenti, talvolta il risultato conseguito
dagli Stati stipulanti è diametralmente opposto a quello desiderato. Più di una
grande impresa multinazionale, infatti, è salita negli ultimi anni agli onori della
cronaca per aver posto in essere pratiche di abuso delle convenzioni internazionali
stipulate tra gli Stati nei quali essa operava (cd. “treaty shopping”).
Il treaty shopping consiste in una pratica di pianificazione fiscale aggressiva
diretta a sfruttare una o più convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni,
al fine di ottenere vantaggi fiscali altrimenti non spettanti, fino ad arrivare, nei casi
più estremi, ad una doppia non imposizione internazionale.
L’abuso in questione è stato efficacemente definito da Piergiorgio Valente come
“una tecnica basata su un accorto utilizzo delle differenze esistenti tra gli Stati nella
22
ripartizione delle pretese impositive mediante trattati contro le doppie imposizioni,
ovvero, nel caso di mancanza di accordi bilaterali tra il Paese dell’investitore e
quello dell’investimento, attraverso la scelta del trattato più conveniente.”
28
La
definizione ricalca fedelmente quella fornita dall’OCSE in una noto Report del
2013, nel quale si annunciava l’avvio del Progetto BEPS.
29
I contributi appena citati forniscono interessanti spunti di riflessione. Innanzitutto
è possibile affermare che, nella maggior parte dei casi, il treaty shopping è favorito
dall’inadeguatezza (e, a maggior ragione, dall’assenza) di una Convenzione contro
le doppie imposizioni tra lo Stato di residenza dell’operatore economico e quello in
cui esso intende investire. E’ molto probabile, infatti, che in queste circostanze
l’impresa si rivolga al network convenzionale del secondo Stato, selezionando un
Trattato più vantaggioso da sfruttare per l’investimento in questione, secondo le
modalità che saranno descritte nel paragrafo successivo.
Ora, se da un lato è fuor di dubbio che determinate soluzioni convenzionali siano
inadeguate all’attuale contesto economico, soprattutto se interpretate alla luce del
Commentario OCSE relativo all’anno di stipula, dall’altro lato non si può negare
che la pianificazione fiscale aggressiva sia ampiamente favorita anche dalla cd.
concorrenza fiscale (o, citando, la dottrina anglosassone, “harmful tax
competition”). Si tratta di una forma di concorrenza normativa tra Stati che mirano
ad attrarre investimenti mediante un trattamento fiscale di favore nei confronti di
determinati operatori economici.
30
Le convenzioni stipulate da Stati a fiscalità
privilegiata o, più frequentemente, da Stati che consentono di “fare da tramite”
verso questi ultimi, saranno naturalmente preferibili.
28
Valente, Manuale di Governance fiscale, Milano, IPSOA Wolters Kluwer, 2011, p. 1705.
29
OECD, Addressing Base Erosion and Profit Shifting, Parigi, OECD Publishing, 2013, pp. 7 e 8,
ove si denuncia: “While multinational corporations urge co-operation in the development of
international standards to alleviate double taxation resulting from differences in domestic tax rules,
they often exploit differences in domestic tax rules and international standards that provide
opportunities to eliminate or significantly reduce taxation.”
30
HJI Panayi, Advanced Issues in International and European Tax Law, Londra, Bloomsbury, 2015,
p. 4 e ss.
23
Quanto alla natura giuridica del treaty shopping, esso costituisce una pratica di
elusione fiscale (o abuso del diritto) consistente in un utilizzo distorto di una
clausola pattizia, che porta ad una sua violazione soltanto indiretta mediante “una
o più operazioni prive di sostanza economica”, richiamando la definizione di abuso
del diritto fornita dall’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente.
31
La
norma in questione è di introduzione relativamente recente
32
e ha finalmente
adeguato l’ordinamento fiscale italiano allo standard dei Paesi europei più avanzati,
che già da tempo si sono dotati di clausole generali antiabuso. Come si avrà modo
di illustrare infra, la natura elusiva dell’operazione comporta, come conseguenza
diretta, il disconoscimento dei vantaggi garantiti dalla Convenzione abusata.
Sul punto merita però di essere anticipata una riflessione che sarà sviluppata più
diffusamente nel terzo capitolo: la dottrina più avanzata ritiene che la normativa
antiabuso nazionale non possa limitare l’operatività di una norma convenzionale.
Se si affermasse il contrario, infatti, la Convenzione dovrebbe essere interpretata in
modo diverso in base alle diverse normative antiabuso degli Stati stipulanti, a meno
che (ipotesi molto improbabile) esse non siano perfettamente coincidenti. Ciò
significa che gli strumenti di tutela da operazioni di treaty shopping sono da
ricercare esclusivamente in fonti sovranazionali, che abbiano un’applicazione
uniforme negli Stati stipulanti.
33
Allora, coerentemente a questa visione, il
riferimento alla normativa nazionale antiabuso, prima fra tutte la clausola generale
di cui all’art. 10-bis sopra citato, potrà tutt’al più risultare utile a fini esemplificativi
e definitori, non anche per contrastare un fenomeno di stampo tipicamente
internazionale.
A prescindere da tali corretti appunti, nel terzo capitolo si avrà modo di dimostrare
che molto spesso sono direttamente le autorità nazionali, identificata la natura
abusiva di una determinata operazione, a disconoscere i vantaggi da essa derivanti.
31
L. 27 luglio 2000, n° 212 recante Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente.
32
D. lgs. 5 luglio 2015, n° 128 recante Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e
contribuente.
33
Lang, Introduction to the Law of Double Tax Conventions, 2° ed., Vienna, Linde Verlag, 2013, p.
64 e ss.
24
2.1. Gli schemi abusivi più frequenti: le operazioni “conduit”
Entrando maggiormente nello specifico, l’esperienza giurisprudenziale e
dottrinale insegna che, generalmente, dal punto di vista pratico un’operazione di
treaty shopping è il risultato di un procedimento logico che si sostanzia in tre fasi:
34
1. Identificazione del target dell’operazione, ossia del o dei componenti reddituali
sui quali si vuole ottenere l’indebito risparmio di imposta. Si tratta prevalentemente
dei cd. “passive incomes” (royalties, interessi e dividendi), poiché più facili da
mobilitare da uno Stato all’altro, anche senza la presenza di complesse
organizzazioni di mezzi e persone.
2. Sviluppo di una serie di ipotesi alternative per lo sfruttamento delle norme
convenzionali.
3. Individuazione dello schema abusivo più adatto al caso concreto, e cioè quello
che garantisce il maggior risparmio di imposta al minor rischio fiscale possibile.
Giova ricordare che, perché si possa effettivamente parlare di treaty shopping, deve
essere assente una valida ragione economica di fondo a giustificare l’operazione, la
quale è posta in essere con l’unico (o principale) scopo di sfruttare una o più
clausole convenzionali, ottenendo così un risparmio di imposta.
I più classici tra gli schemi abusivi sono le cd. operazioni “conduit”. Esse sono di
norma poste in essere da società appartenenti al medesimo gruppo societario, con il
fine di trasferire i proventi (sotto forma di dividendi, interessi, plusvalenze e
royalties) dallo Stato in cui sono stati realizzati a quello in cui risiede il destinatario
finale del reddito (cd. “beneficial owner”).
35
Il tutto godendo di una tassazione
sensibilmente inferiore rispetto a quella prevista dalla relativa norma convenzionale
o, più frequentemente, dalle normativa interna dello Stato della fonte, nel caso in
cui manchi il Trattato.
36
34
Si segnala, tra gli altri, Migliorini, Treaty shopping: abuso nei trattati internazionali in
Fiscomania.com, 2019, p. 4.
35
Modello OCSE 2017, artt. 10, par. 2; art. 11, par. 4; art. 12, parr. 1 e 3.
36
Antonacchio, Treaty shopping: abuso del diritto convenzionale mediante pratiche di aggressive
tax planning in Il Fisco n° 31/2013.
25
Ciò è possibile mediante l’inserimento di uno o più soggetti “di comodo” tra i due
Paesi, comunemente chiamati “società conduit” (conduit companies), proprio
perché costituiti con il solo fine di incanalare i flussi reddituali tra i due Stati
attraverso un Paese terzo. Questo passaggio ulteriore consente di sfruttare la rete
convenzionale del o degli Stati conduit, garantendo al gruppo societario un
trattamento fiscale molto più favorevole di quello previsto per il trasferimento
diretto.
37
Di norma, questo genere di operazioni viene posto in essere con la finalità di
ovviare all’assenza di una Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni
tra lo Stato della fonte e quello di residenza del beneficial owner. Com’è facile
intuire, nella stragrande maggioranza dei casi l’assenza della Convenzione è
giustificata dal fatto che lo Stato di destinazione del reddito presenta un regime a
fiscalità privilegiata – è un cd. paradiso fiscale o tax heaven – per cui una non
tassazione in uscita dei passive income (cd. withholding tax) comporterebbe una
doppia non imposizione internazionale. Il reddito, infatti, non sarebbe tassato né in
uscita (in capo alla società erogante), in forza della norma convenzionale, né in
entrata (in capo al beneficial owner), in forza del regime fiscale privilegiato. Ecco,
dunque, il senso di servirsi di uno Stato conduit che abbia una Convenzione con
entrambi i Paesi, oppure anche soltanto con quello della fonte, purché il regime
fiscale interno allo Stato conduit preveda una withholding tax inferiore a quella
dello Stato della fonte.
38
Come si è sopra accennato, tuttavia, non necessariamente un’operazione conduit
viene posta in essere in essere in assenza della Convenzione tra il Paese della fonte
e quello del beneficial owner. È verosimile il caso in cui il Trattato è presente, ma
il gruppo societario intende comunque realizzare ad un indebito risparmio di
imposta, per cui il passaggio da uno o più Stati conduit ha semplicemente
37
Grazioli, Thione, Elementi sintomatici del treaty shopping nella recente giurisprudenza in Il Fisco
n° 13/2011.
38
Ipotesi molto frequente nell’esperienza olandese, come si dirà infra.
26
l’obbiettivo di godere di un regime convenzionale maggiormente favorevole di
quello previsto da tale Trattato.
Con riferimento all’Italia, ai sensi dell’art. 47-bis del TUIR, sono considerati “a
fiscalità privilegiata” gli Stati non appartenenti all’Unione Europea, ovvero non
aderenti allo Spazio economico europeo, che non abbiano stipulato con il nostro
Stato un “accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni” e che
presentino un livello di tassazione nominale “inferiore al 50 per cento di quello
applicabile in Italia”. Per completezza, occorre precisare che la definizione è
diversa, qualora l’individuazione del Paese a fiscalità privilegiata sia funzionale
all’applicazione del regime CFC (“Controlled foreign companies”), come stabilito
dal comma 4 dell’art. 167 del TUIR. In questo caso, infatti, è richiesto un livello di
tassazione effettiva – e non nominale – inferiore alla metà di quello italiano, oltre
ad ulteriori requisiti riguardanti la tipologia di reddito prodotto dalle controllate.
39
Il problema delle conduit company è da tempo noto in sede OCSE. In effetti, già
nel Commentario all’art. 1 del primo Modello, datato 1977, il Comitato per gli
Affari Fiscali esprimeva preoccupazione rispetto a tale pratica, sollecitando
l’implementazione di una o più clausole antiabuso. Il fenomeno in questione fu
comunque oggetto di un’accurata analisi soltanto nel 1986, con la pubblicazione,
da parte del Consiglio dell’Organizzazione, di un rapporto intitolato “Double
Taxation Conventions and the Use of Conduit Companies”. Nonostante l’età, il
Rapporto rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per la definizione del
fenomeno in questione, nonché il punto di partenza per l’evoluzione della disciplina
antiabuso, culminata nel 2015 con l’attuazione del Progetto BEPS.
Il Rapporto opera una fondamentale distinzione tra operazioni “direct conduit” e
operazioni “stepping-stone conduit”. Mentre le prime prevedono la costituzione, in
uno Stato terzo, di una sola società conduit, le seconde presentano una struttura più
complessa. In questo caso, infatti, vengono interposte due società conduit in
39
Per un approfondimento sul regime CFC v., tra gli altri, Fantozzi, Paparella, Lezioni di diritto
tributario dell’impresa, 2° ed., Roma, CEDAM Wolters Kluwer, 2019, pp. 291 e 317.
27
altrettanti Stati, al fine di sfruttare le convenzioni stipulate da entrambi, garantendo
al gruppo un risparmio di imposta ancora maggiore. Nonostante tale distinzione sia
stata frequentemente richiamata da dottrina e giurisprudenza, l’assetto che le
operazioni direct e stepping-stone conduit creano è sostanzialmente il medesimo.
Citando il Rapporto, infatti, in entrambi i casi “the conduit company takes
advantage of the treaty provisions under its own name in the State of source;
economically, however, the benefit goes to persons not entitled to use that treaty. A
net tax advantage results because little or no taxation occurs in the State(s) of
conduit. The advantage arises in the source country. As its tax laws deal adequately
with the situation (it generally taxes all non-residents including the conduit
company) the problem is created exclusively by the treaty itself”.
40
Alcuni esempi possono facilitare la comprensione delle due tipologie di
operazioni.
41
40
OECD, Double Taxation Conventions and the Use of Conduit Companies, Parigi, OECD
Publishing, 1986, p. 4 e ss.
41
Esempi e schemi sono tratti da Antonacchio, Treaty shopping: abuso del diritto convenzionale
mediante pratiche di aggressive tax planning in Il Fisco n° 31/2013.
28
a) Operazione direct conduit: una società Y residente in uno Stato A distribuisce
royalties ad una società X residente in uno Stato B in virtù di un contratto di licenza.
Tra i due Stati è assente una Convenzione internazionale contro le doppie
imposizioni, per cui i canoni vengono assoggettati ad una ritenuta alla fonte pari al
30%. Viene interposta una società conduit in uno Stato C, con la funzione di
ricevere i canoni da Y per ridistribuirli a X. Lo Stato C ha stipulato convenzioni
vantaggiose con gli Stati A e B, in base alle quali i canoni sono tassati al 5% nello
Stato della fonte A ed ulteriormente al 10 % nello Stato conduit. A fronte di una
tassazione ordinaria al 30%, ora Y riceve royalties tassate soltanto al 14,5%.
Schema dell’operazione direct conduit.
29
b) Operazione stepping-stone conduit: all’operazione sopra esemplificata si
immagini di aggiungere un’ulteriore società conduit, costituita in uno Stato D. La
società conduit situata nello Stato C, invece che trasferire direttamente i canoni alla
società beneficiaria X, li distribuisce alla conduit dello Stato D, che a sua volta li
trasferisce alla società beneficiaria X. Le vantaggiose convenzioni stipulate dallo
Stato D con gli Stati C e B prevedono un’esenzione totale delle royalties in uscita,
che dunque in tutta l’operazione saranno tassate soltanto una volta (al 5%) nel
passaggio dalla società fonte Y alla prima conduit dello Stato C, con un
significativo risparmio di imposta anche rispetto all’operazione direct conduit.
Schema dell’operazione stepping-stone conduit.