8
Introduzione
Il concetto di tortura, sebbene possa apparire prima facie del tutto scevro
di criticità e agevolmente definibile, è stato capace di animare accesi dibattiti
politico-legislativi sia in sede internazionale che nazionale.
Le difficoltà definitorie che permeano tale fenomeno si accentuano
notevolmente laddove si decida di introdurre una specifica fattispecie
incriminatrice volta a reprimere penalmente comportamenti che potrebbero
essere qualificabili come tortura, dovendo far collimare un fenomeno che
ontologicamente mal si presta a rigide classificazioni, con i principi
fondamentali tipici del nostro ordinamento penale: primo su tutti, il principio
di legalità, che si declina nel principio di tassatività, determinatezza e
chiarezza della legge penale.
Non può infatti considerarsi un caso che d’introduzione del delitto di tortura in
Italia se ne disquisisse da oltre un trent’ennio, senza però mai pervenire ad un
risultato concreto.
Ancor oggi, sebbene con l’introduzione dell’art. 613-bis (“Tortura”) nel
codice penale italiano si sia giunti a un risultato tangibile che rende l’Italia,
almeno formalmente, compliance agli obblighi internazionali di
criminalizzazione, l’annosa quaestio sembra essere ancora destinata a
fomentare dibattiti tanto dottrinali quanto giurisprudenziali e politici,
dimostrandosi ancora ben lungi da un epilogo pacifico.
Il presente elaborato offre un’analisi critica della scelta legislativa operata dal
nostro legislatore, che non può prescindere da una disamina degli strumenti di
repressione offerti a livello internazionale, con particolare riguardo alla United
Nation Convention Against Torture del 1984 e alla Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo, entrambe ratificate dall’Italia e dalle quali discendono
specifichi obblighi in materia di tortura gravanti sugli Stati parte.
Attenzione specifica è prestata alle ragioni che hanno indotto l’introduzione di
una fattispecie incriminatrice ad hoc per il reato di tortura nel codice penale
italiano, tra cui spiccano per importanza le numerose condanne da parte della
9
Corte di Strasburgo che il nostro Paese ha riportato per violazione sia
sostanziale che processuale dell’art. 3 CEDU.
Tali condanne infatti, oltre ad avere ad oggetto spiacevoli fatti che hanno
avuto quantomeno il pregio di risvegliare l’ormai sopito interesse sociale in
materia, si sono rivelate fondamentali nel dimostrare l’inadeguatezza della
batteria di norme penali utilizzate ante-litteramdalla magistratura per
reprimere il fenomeno de quo, fornendo la spinta necessaria ai lavori
parlamentari che si trovavano in una situazione stagnante e che rischiavano,
per l’ennesima volta, di risolversi in un “nulla di fatto”.
10
CAPITOLO I
STRUMENTI INTERNAZIONALI PER LA REPRESSIONE DELLA
TORTURA: DEFINIZIONI DI TORTURA E OBBLIGHI A LIVELLO
SOVRANAZIONALE
SOMMARIO: – 1.1 Il divieto generale di tortura sancito dall’art. 5 della Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo (1948) e dall’art. 7 del PIDCP. Commento Generale n. 20 del Comitato dei Diritti
Umani. – 1.2 La Dichiarazione sulla Protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura e altre
pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti (1975): una prima definizione di tortura e linee guida
per gli Stati. – 1.3 La Convenzione contro la tortura (CAT) 1984: definizione di tortura e gli obblighi
derivanti per gli Stati. – 1.3.1 la condotta e l’evento: la forte sofferenza fisica o psichica. – 1.3.2 il
soggetto attivo dell’illecito: la tortura come reato proprio. – 1.3.3 l’elemento soggettivo: dolo
intenzionale e dolo specifico. – 1.3.4 la lawful sanctions clause a chusura dell’art. 1. – 1.3.5 obblighi
di tutela imposti agli Stati dalla CAT. – 1.4 La tortura nella giurisprudenza dei Tribunali penali
internazionali ad hoc. – 1.5 L’art. 3 della CEDU e l’interpretazione della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo. La portata assoluta del divieto di tortura. – 1.5.1 Il soggetto attivo secondo
l’interpretazione della Corte EDU. – 1.5.2 Condotte vietate: la distinzione tra la tortura e gli altri
maltrattamenti. – 1.5.3 La soglia minima di gravità come limite esterno ed interno all’art. 3. – 1.5.4 La
distinzione tra trattamenti degradanti, trattamenti inumani e tortura secondo il CPT. – 1.6 Le pene
vietate e l’esecuzione delle pene legittime. – 1.6.1 L’inflizione di pene corporali. – 1.6.2 La pena
dell’ergastolo. –1.6.3 La pena di morte. – 1.6.4 Modalità di esecuzione della pena, in particolare, la
pena detentiva. – 1.7 Obblighi derivanti dall’art. 3 CEDU: obblighi negativi e positivi. In particolare,
il divieto di estradizione.– 1.7.1 Gli obblighi positivi: obbligo di incriminazione e obblighi
procedurali. – 1.8 Lo standard probatorio richiesto. – 1.9 Rapporti tra ordinamento italiano, CEDU e
sentenze della Corte di Strasburgo.
1.1 Il divieto generale di tortura sancito dall’art. 5 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uo m o (1948) e da ll’art. 7 del PIDCP. Commento
Generale n. 20 del Comitato dei Diritti Umani.
Il divieto del ricorso alla tortura e di pratiche inumane, crudeli o
degradanti deriva dal comune sentimento degli Stati, sorto alla fine del
Secondo Dopoguerra, di limitare la diffusione di pratiche e strumenti volti ad
annullare la dignità dell’essere umano
1
.
Ad onor del vero, il secondo conflitto mondiale ha posto l’accento non
soltanto sulla necessità di sancire un divieto del ricorso alla tortura bensì,
piuttosto, su quella di tutelare l’individuo in generale, i cui diritti fondamentali
devono essere garantiti su un piano sovranazionale
2
. Era quindi indubbia la
necessità di prender coscienza dell’importanza del binomio pace-diritti umani
1
C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo,
Genova, p.1.
2
A. CASSESE, I diritti umani oggi, Bari, 2005, pp. 22 ss
11
affinché esso divenisse il fine ultimo che tutti gli Stati, nonché la comunità
internazionale complessivamente considerata, dovevano e devono perseguire
3
.
E’ in questo contesto, e con questo proposito, che l’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, il 10 dicembre del 1948 ha adottato la Dichiarazione
Universale dei diritti dell’uomo
4
.
La Dichiarazione, che è il risultato di oltre due anni di accesi dibattiti
ideologici, affonda le sue radici in quattro pilastri fondamentali. Anzitutto, sui
diritti della persona ove, tra gli altri, spiccano il diritto alla vita e il diritto alla
libertà di ciascun individuo
5
, di cui il divieto di tortura costituisce la naturale
espressione.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’art. 5, ha infatti sancito
per la prima volta in ambito internazionale il divieto generale di tortura
affermando che “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a
trattamento o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”
6
. Da questo momento
in poi,il divieto generale di tortura sarà riaffermato tanto in successivi
strumenti non vincolanti adottati dalle United Nations
7
quanto in trattati
internazionali riguardanti ambiti specifici. Tra questi ultimi, menzione
particolare meritano la Convenzione contro la schiavitù del 7 settembre 1956
8
,
la Convenzione sul Genocidio del 9 dicembre 1948, la Convenzione sui Diritti
del Fanciullo del 2 marzo 1990
9
, nonché la Convenzione per l’eliminazione
della discriminazione razziale. L’art. 5 della Dichiarazione è stato altresì
3
A. CASSESE, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, 1998
4
Resolution N. 217/3
5
Così argomentò il francese Renè Cassin, uno dei padri della Dichiarazione, nel suo intervento
illustrativo avanti l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite appena prima che il testo venisse
approvato.
6
“No one shall be subjected to torture or cruel, inhuman or degrading treatment or punishment”
7
Si veda, tra gli altri, l’art. 31 dello “Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners” del
1955, il quale recita: “Corporal punishment, punishment by placing in a dark cell, and all cruel,
inhuman or degrading punishments shall be completely prohibited as punishments for disciplinary
offences” (Le punizioni corporali, la rinchiusione in una cella buia e tutte le punizioni crudeli,
inumane o degradanti devono essere completamente proibite come strumenti di punizione per gli
illeciti disciplinari commessi dal carcerato)
8
Art 5 “In un paese dove la schiavitù o le istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù non siano
ancora completamente abolite o abbandonate, la mutilazione, la stigmatizzazione o altra marchiatura
di persona schiava o in condizione servile, inflittale per indicarne la condizione, infliggerle un castigo
e per qualsiasi altro motivo, oppure la complicità in tali atti, costituirà un'infrazione penale della
legge dello Stato Parte e le persone riconosciute colpevoli saranno punite”.
9
Art 37 “[…] nessun fanciullo sia sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o
degradanti. Né la pena capitale né l'imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono
essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore a diciotto anni[…]”
12
matrice, volgendo lo sguardo in ambito europeo, dell’art. 3 della Convenzione
Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
del 1950 e della Convenzione europea per la prevenzione della tortura del
1987
10
.
Inoltre, il testo dell’articolo appena illustrato è stato riportato integralmente
nell’art. 7 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP), firmato a
New York nel 1966, in vigore dal 23 marzo 1976 e concluso in seno alle
Nazioni Unite, che è divenuto così il primo trattato internazionale a sancire un
divieto generale di tortura.
Nonostante la sostanziale corrispondenza tra l’art. 5 della Dichiarazione e
l’art. 7 del PIDCP, sussiste una rilevante differenza tra i due.La Dichiarazione
è un atto di soft law che ha lo scopo di formulare dei principi piuttosto che
norme giuridiche, e pertanto non ha un carattere giuridicamente
obbligatorioper gli Stati. Ciononostante, parte della dottrina e la stessa
Assemblea Generale, considerando la Dichiarazione un’integrazione dello
Statuto ONUe affermando che “[…] ogni violazione di uno dei diritti
dell’uomo enumerati nella Dichiarazione compiuta da uno Stato equivale ad
una violazione dei principi dello Statuto” dimostrano di non considerarla una
mera dichiarazione teorica. La stessa prassi dell’Assemblea Generale ha infatti
mostratocome, in numerose occasioni, la Dichiarazione sia stata utilizzata
dalle United Nations come un codice o un modello di condotta per rivolgere
raccomandazioni e inviti agli Stati volti a ripristinare o assicurare il rispetto
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
11
Non c’è dubbio alcuno, invece, circa il carattere giuridicamente vincolante del
PIDCPche, costituendo una convenzione internazionale, obbliga gli Stati
firmatari al rispetto del suo contenuto
12
. Obbligo che, peraltro, è sancito
espressamente dal Patto stesso all’art. 2: “Ciascuno degli Stati parte del
10
F. TRIONE, Divieto e crimine di tortura nella giurisprudenza internazionale, Editoriale Scientifica,
2006, p. 29; C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti
dell’uomo, p.2
11
AG. III Sess. Parte I, III Commissione, p. 31-32; C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei
diritti dell’uomo, Giappichelli, 2013, p. 23-26.
12
C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo,
Genova, p.2.
13
presente Patto si impegna a compiere, in armonia con le proprie procedure
costituzionali e con le disposizioni del presente Patto, i passi per l'adozione
delle misure legislative o d'altro genere che possano occorrere per rendere
effettivi i diritti riconosciuti nel presente Patto […]” con l’ulteriore impegno
per gli Stati Parte di presentare a semplice richiesta del Comitato per i Diritti
Umani, rapporti sulle misure a tal fine adottate
13
. Infine, il PIDCP
rafforzaulteriormente il divieto di tortura dettato ex art. 7, prevedendo la sua
assoluta inderogabilità anche in stato di emergenza.
14
Il Comitato per i Diritti Umani (Human Rights Committee), istituito dall’art.
28 del PIDCP, oltre a ricevere i rapporti sulle misure adottate dagli Stati
Parte
15
, svolge una importante funzione di interpretazione autentica e di
aggiornamento del testo del Patto in considerazione sia delle prassi infrastatali
che delle evoluzioni giurisprudenziali di diritto internazionale emanando
specifici atti c.d. General Comments.
16
Nell’ambito che qui interessa, viene in rilievo il Commento Generale n. 20,
emanato nel corso della sessione n. 44 del Comitato, il quale, in combinato
disposto con l’art. 10 comma 1 PIDCP, va anzitutto a precisare la ratio del
divietoex art. 7 PIDCP, che si ravvisa nella protezione della dignità ed
integrità fisica e morale dell’individuo
17
, per poi andare ad individuare
specifiche proibizioni sia da un punto di vista sostanziale che processuale.
Sul piano sostanziale, il Commento Generale, riconosce come proibite le
condotte di istigazione, tolleranza, ordine di atti di tortura o di trattamenti
crudeli, inumani o degradanti così come la loro perpetrazione, imponendo a
13
Exart. 40 PIDCP.
14
Exart. 4 PIDCP comma 2: “La suddetta disposizione non autorizza alcuna deroga agli articoli 6,7,8
(paragrafi 1 e 2), 11, 15, 16 e 18”; C. ZANGHì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo,
Giappichelli Editore, 2013, p. 100.
15
V. supra, paragrafo 1.1.
16
Il Comitato per i Diritti Umani, ex art. 28 PIDCP, deve essere formato da cittadini degli Stati Parte,
che presentino “[…] riconosciuta competenza nell’ambito dei diritti dell’uomo”. Sono rieleggibili e
non possono superare i due individui per ciascuno Stato.
17
Art 10 comma 1 PIDCP: “Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con
umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana”. La matrice di tale articolo si
rintraccia, non casualmente, nel Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “[…]
i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali
dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana […]”.
14
ciascuno Stato aderente, di sanzionare penalmente tali condotte
indipendentemente dalla qualità dell’individuo attore
18
.
Sul piano processuale, sancisce l’inammissibilità ed inutilizzabilità in processo
delle dichiarazioni nonché delle confessioni che siano state estorte mediante
l’attuazione delle summenzionate condotte proibite.
Quindi, dall’analisi appena effettuata, appare evidente che l’art. 5 della
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e l’art. 7 del PIDCP, con il
relativo Commento Generale n. 20, seppur costituiscano i primi importanti
step nel sancire un divieto generale di tortura, risultino ancora ben lungi dal
fornire una chiara definizione della fattispecie
19
ovvero obblighi specifici
gravanti sui singoli Stati, se non per quelli forniti dall’integrazione effettuata
dal General Comment appena illustrato. Rimangono perciò precetti che di per
sé stessi non sono idonei e sufficienti a garantire la prevenzione e/o la
repressione di eventuali violazioni. La loro importanza, piuttosto, è da
ricercarsi nell’aver funto da catalizzatori per la successiva evoluzione
normativa e giurisprudenziale.
1.2 La Dichiarazione sulla Protezione di tutte le persone sottoposte a
forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti
(1975): una prima definizione di tortura e linee di condotta generale per
gli Stati
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, anche in virtù delle
pressioni
esercitate da varie Organizzazioni non Governative, il 9 dicembre 1975
20
adottava la Dichiarazione sulla Protezione di tutte le persone sottoposte a
forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti che fu
il preludio della successiva Convenzione contro la tortura del 1984.
18
“Coloro che violano l’articolo 7 attraverso l’istigazione, l’ordine, la tolleranza o la perpetrazione
di atti proibiti, devono essere riconosciuti responsabili”
19
L’art. 5 della Dichiarazione e il PIDCP non soltanto non forniscono una definizione della tortura
bensì, neppure chiariscono la differenza sussistente tra tortura, trattamento crudele, inumano o
degradante.
20
Con la Resolution n. 3452, UN doc. A/Res/3452 (XXX), 1975.
15
La Dichiarazione ha il pregio di colmare la lacuna definitoria lasciata dalla
Dichiarazione del 1948 e dal PIDCP
21
e mai colmata negli anni che l’hanno
preceduta, fornendo una prima definizione della fattispecie: “[…] per tortura
deve intendersi ogni atto per mezzo del quale dolore o sofferenza intensi, fisici
o mentali, sono intenzionalmente inflitti da o con l’istigazione di un pubblico
ufficiale su una persona al fine di ottenere da questi o da un terzo
informazioni o una confessione, punirlo per un atto commesso o che si aspetta
abbia commesso, o intimidire questi o altre persone” escludendo il dolore e la
sofferenza che siano derivanti da o incidentali a sanzioni legittime.
22
Analizzando tale definizione se ne ricavano gli elementi costitutivi della
fattispecie. Per quanto concerne la condotta, constando nel “causare sofferenze
o dolore in forma acuta
23
”sia esso fisico che mentale, stante l’ampiezza del
concetto, permette a un ampio spettro di atti di integrare potenzialmente la
fattispecie, quali, ad esempio, atti di lesione e percosse.
Il secondo elemento, è quello maggiormente caratterizzante la fattispecie: il
soggetto attivo. La Dichiarazione richiede infatti che la condotta sia tenuta non
da qualsiasi individuo, bensì è richiesto che gli atti siano posti in essere da un
pubblico ufficiale o con la sua istigazione
24
, facendo così rientrare il fenomeno
nell’ambito dei reati propri.
L’elemento soggettivo lo si ricava agevolmente dal termine
“intenzionalmente”, limitando alle sole condotte dolose l’integrazione della
fattispecie.
L’articolo prosegue poi individuando il quarto elemento: il fine della condotta,
che permette di annoverare la fattispecie tra i reati a dolo specifico. Il primo
fine richiesto consiste nell’agire al fine di “ottenere informazioni o una
21
I cui rispettivi articoli 5 e 7 sono richiamati nel Preambolo, a voler sancire una sorta di continuità
normativa.
22
Art 1: “[…] torture means any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is
intentionally inflicted by or at the instigation of a public official on a person for such purposes as
obtaining from him or a third person information or confession, punishing him for an act he has
committed or is suspected of having committed, or intimidating him or other persons […]”;
A. SACCUCCI, Profili di tutela dei diritti umani, Cedam, 2002, p. 107-108.
23
Il termine “acuto” sarà poi rimosso dalla successiva definizione fornita dalla CAT, poiché l’acutezza
del dolore o della sofferenza non è necessariamente sintomo di “gravità”, come avremo modo di
argomentare nel paragrafo seguente 1.3.
24
Sembra così aprire la strada alla previsione di una ulteriore fattispecie incriminatrice: l’istigazione
alla torura.