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INTRODUZIONE
Il presente lavoro – articolato in tre capitoli – nasce con l’intento di voler fornire un
approfondimento di carattere economico sulla sempre più veemente complessità del rapporto che
intercorre tra il mondo dell’investimento transfrontaliero e le istituzioni, sia nazionali che
sovranazionali; una complessità, quest’ultima, che affonda le proprie radici storiche nella fine della
Guerra Fredda, un evento che possiamo considerare come l’origine per antonomasia della costruzione
di un sistema economico totalmente globalizzato ed interconnesso, grazie al ruolo determinante del
fattore che si presenta come il punto nevralgico del processo di globalizzazione: l’assoluta mobilità
internazionale del lavoro e dei capitali. Tale fattore rappresenta anche il punto di partenza dell’analisi
grafico-descrittiva condotta all’interno del primo capitolo, nel quale si è inteso esaminarlo nell’ottica
delle molteplici innovazioni che esso ha apportato: la possibilità di costruire nuove categorie di spazio
economico e di modelli di business, l’incisiva riduzione del margine operativo dei policy maker in
ambito economico, finanziario e commerciale, e la conseguente proliferazione di accordi e trattati
commerciali di natura multilaterale. A tal proposito, si è inteso dedicare particolare attenzione al tema
degli investimenti diretti esteri (IDE), i quali rappresentano una delle principali forme di
estrinsecazione della mobilità internazionale di lavoro e capitali; in particolare, ne sono state
esaminate le più salienti esegesi teoriche, le molteplici strategie di implementazione e il loro influsso
nella costruzione delle catene globali di valore (CGV) che, a loro volta, sono state oggetto di una
minuziosa disamina riguardante un duplice paradigma: gli schemi e le procedure attuative che
consentono la costruzione di una catena di subfornitura e la sua successiva evoluzione in CGV; i
nuovi modelli di divisione internazionale del lavoro introdotti dalle CGV, unitamente a nuovi livelli
di dispersione salariale fra lavoratori qualificati e non. L’ultimo tema del vaglio condotto nel primo
capitolo inquadra il fenomeno dell’investimento transfrontaliero, non più nella sola prospettiva
dell’investitore, ma anche in quella dei Governi nazionali, con l’obiettivo di comprendere le
dinamiche di bilanciamento fra la remuneratività degli IDE e la tutela di interessi strategici connessi
alla sicurezza nazionale. Viene, pertanto, analizzato l’impatto economico della disciplina dei poteri
speciali esercitabili dai Governi in materia di investimenti e che oggi prende il nome di Golden Power.
Nel secondo capitolo, si è inteso studiare il tipo di correlazione che si instaura fra i fattori di natura
fiscale facenti capo a un determinato Paese e le politiche di investimento decise dalle imprese
multinazionali. In particolare, dapprima sono stati analizzati – anche da una prospettiva storica – il
regime italiano di aliquota d’imposta sulle società e, mediante la disamina di modelli quantitativi, il
modo in cui esso influisce sulle scelte e sui rendimenti degli investimenti. Successivamente, si è inteso
procedere ad un focus sulle dinamiche fiscali dell’investimento negli Stati Uniti, esaminando anche
l’influsso che il modello di tassazione elaborato da Milton Friedman (c.d. Flat Tax) ha avuto dal
momento del suo esordio sino ad arrivare ai giorni nostri. In ultima istanza, la correlazione fra fattori
di natura fiscale e politiche di investimento delle imprese è stata analizzata e interpretata in una chiave
di lettura globale: è stato, infatti, elaborato un approfondimento vertente sull’evoluzione delle
principali aliquote fiscali mondiali dal 1980 al 2021, sulla complessità fiscale e sull’aliquota
marginale effettiva bilaterale; due fattori, questi ultimi, che, unitamente all’aliquota d’imposta sulle
società, concorrono alla scelta della localizzazione di uno o più IDE.
Infine, nel terzo capitolo, si è voluto esaminare il fenomeno dell’elusione fiscale posto in atto
dalle imprese multinazionali e che si basa sulla strumentalizzazione delle disarmonie fiscali
internazionali al fine di aggirare il pagamento di aliquote più elevate. Oltre alle principali pratiche
funzionali al raggiungimento di tali obiettivi e alla trattazione di casi concreti come Apple e Google,
sono stati analizzati anche i principali provvedimenti normativi, sia nazionali che internazionali, volti
al contrasto di un siffatto fenomeno, per concludere la riflessione con una presentazione analitica del
progetto, da poco approvato dal G20, della Global Minimum Tax (GMT).
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CAPITOLO 1 - STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL
PROCESSO PRODUTTIVO: DAGLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI
ALLE CATENE GLOBALI DI VALORE
1.1 I caratteri economici del processo di globalizzazione: mobilità di capitale e lavoro.
Le riflessioni che saranno oggetto del presente lavoro non possono che avere il loro punto di avvio
nel complesso ed articolato paradigma della globalizzazione
(1)
, inquadrandone l’analisi in una duplice
prospettiva: i caratteri economici e il sinergico connubio che si sviluppa fra essi e
l’internazionalizzazione dei processi produttivi.
Partendo dal primo aspetto, è doveroso rilevare che il processo di globalizzazione si estrinseca in
due differenti tipologie di spazio economico (Curzio, 1999):
• spazio internazionalizzato: si configura nel momento in cui la struttura economica
mondiale è costituita da mercati meticolosamente demarcati da confini nazionali, ma tra
loro interconnessi in virtù dell’interscambio commerciale e finanziario. All’interno di uno
spazio economico così costituito, operano imprese nazionali attraverso le esportazioni o
imprese multinazionali localizzate in più paesi ma operanti principalmente entro i mercati
nazionali;
• spazio globalizzato: rappresenta lo stadio evolutivo dello spazio internazionalizzato, in
quanto l’insieme di mercati nazionali e regionali muta in un in conglomerato di mercati
mondiali operanti in un contesto economico-strutturale tendenzialmente privo di vincoli e
barriere nazionali. Nel dettaglio, il ruolo da protagonista è attribuibile alle imprese globali,
del tutto scorporate da qualsiasi sorta di radicamento, sia esso nazionale singolo, multiplo
o prevalente. Tali imprese hanno la possibilità di individuare o modificare la
localizzazione e la distribuzione degli investimenti in ragione delle prospettive di
ampliamento dei propri core business e dei conseguenti miglioramenti delle stime di
profitto.
A tal proposito, è interessante notare come, in ragione dell’evoluzione storica, si stia profilando
un terzo spazio economico che rappresenta un ibrido fra le due dinamiche sopra descritte. Infatti,
queste ultime non si presentano più come mutuamente esclusive, bensì come complementari: vengono
meno le incisività dei confini nazionali e delle barriere economico-culturali, ma al contempo si
intensificano vertiginosamente gli interscambi finanziari e commerciali. Il nuovo spazio economico
così strutturato prende il nome di interglobalizzazione (Curzio, 1999) ed esprime una fattispecie in
forza della quale, grazie anche alla rapidissima diffusione delle innovazioni tecnologiche, mutano
radicalmente i criteri di ripartizione di sovranità e potere contrattuale fra gli Stati nazionali e gli attori
economici multinazionali.
Invero, la rivoluzione tele-informatica ha avuto un ruolo determinante nel neutralizzare le barriere
spazio-temporali, istituzionali, culturali e, diversamente dalle rivoluzioni economiche antecedenti, la
sua onda d’urto non si è limitata all’esclusivo potenziamento dell’industria manifatturiera, ma ha con-
solidato anche e soprattutto l’economia finanziaria, incrementandone l’incidenza in relazione
all’economia reale.
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(1): il termine globalizzazione indica la progressiva integrazione economico-finanziaria dei mercati internazionali, a
partire dal 1990.
3
Grazie a questo nuovo trend, una moltitudine di imprese – soprattutto quelle di telecomunicazioni
– sono state in grado di coordinare con efficacia ed efficienza il proprio business in luoghi molto
distanti dal Paese di origine. Nello specifico, è divenuta prassi sempre più frequente la conclusione
di accordi e alleanze strategiche fra imprese aventi nazionalità e origini differenti, generando una
realtà produttiva che prende il nome di impresa-rete transnazionale (Lo Faro, 2005). Tale contesto
organizzativo è peculiare in quanto, pur non prevedendo alcun tipo di integrazione societaria tra le
imprese ad esso partecipanti, permette a realtà aziendali geodedicamente distanti di contrattualizzare,
secondo schemi di convenienza reciproca, la condivisione di standard produttivi, regole, linguaggi,
progetti e idee comuni, know-how, ma anche capitali finanziari e risorse umane.
Fenomeni economico-commerciali di tale rilievo segnano, come evidenziato dagli studi del FMI
(IMF, 1997), una delle più lapalissiane estrinsecazioni di una transizione di potere contrattuale dai
Governi nazionali ai manager delle imprese transnazionali, grazie all’impiego altamente strategico
delle innovazioni tele-informatiche. Pertanto, i modelli produttivi non sono più determinati dagli
Stati, bensì dalle imprese transnazionali e multinazionali, incentivando i vari Governi statali ad
elaborare nuove strategie di intervento economico e di regolamentazione commerciale (Curzio,
1999):
• investimento in R&S, il quale concretizza la cosiddetta teoria della convergenza fra paesi: una
forte capitalizzazione dei settori ricerca e sviluppo può generare delle ricadute particolarmente
positive non solo sulla produzione potenziale del singolo Paese, ma anche su quella dei suoi
principali partner commerciali;
• consolidamento di organismi per il coordinamento internazionale dei singoli Stati: la maggior
parte dei Governi nazionali ha da tempo compreso che individualmente non può essere
esercitato un controllo costruttivo e proficuo su fenomeni economici che travalicano i confini
nazionali e, pertanto, si sono sviluppate nuove sedi istituzionali ove si definiscono forme e
modalità di cooperazione e regolazione economica internazionale. Una prima forma di
cooperazione avviene attraverso il coordinamento fra autorità indipendenti come le Banche
Centrali, soprattutto all’interno del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC). Tuttavia,
una cooperazione più ampia avviene nei cosiddetti organismi internazionali, quali FMI e
Banca mondiale; all’interno dei Gruppi funzionali, come l’ILO (International Labour
Organization) e la BIS (Bank of International Settlements) per lo svolgimento compiti
specifici (politiche macroeconomiche, standard di lavoro, controversie internazionali);
aggregazioni regionali
(2)
intergovernative e commerciali come NAFTA, APEC,
MERCOSUR; soggetti di coordinamento tra gruppi funzionali e gruppi regionali come la
OECD; ma anche il G7 e il G8 e il G20. Ed infine sistemi confederali-federali come l’Unione
economica che è certamente la forma più completa e avanzata.
Dunque, si delinea un nuovo spettro di azione per attori pubblici e policy maker, i quali, al fine di
mantenere un controllo lineare sulla interglobalizzazione, sono vincolati a “rimodellarsi” in funzione
di un sistema economico-finanziario sempre più tendente all’autodeterminazione.
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(2): Le sigle degli accordi multilaterali menzionati nel testo indicano, rispettivamente: North American Free Trade
Agreement, Asia-Pacific Economic Cooperation e Mercado Común del Sur (Mercato comune del Sud America).
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Un cambiamento così profondo del margine operativo dei policy maker implica un’attenta
riflessione anche sul rapporto tra Stati ed imprese, che trae i suoi presupposti teorici nei profili
innovativi della nascita di una economia finanziaria globale (Curzio, 1999):
• liberalizzazione e deregolamentazione di movimenti e mercati nazionali di capitali;
• introduzione di strumenti finanziari innovativi, che hanno moltiplicato le possibilità di
impiego del risparmio, abbattendone i relativi confini;
• crescita innovativa di operatori istituzionali, come fondi comuni e fondi di previsione, che
hanno incrementato il volume degli investimenti fuori dai mercati di origine.
Sulla base dei suddetti profili, il rapporto Stati-imprese può essere sintetizzato in tre differenti
articolazioni teorico-concettuali (Curzio, 1999):
➢ la prima articolazione è detta impreso-centrica secondo la quale, l’interesse nazionale e
quello delle imprese operanti nel Paese d’origine non sarebbero affatto confliggenti in
quanto, tali imprese mirano esclusivamente al loro interesse nel mercato mondiale e,
pertanto, allo Stato spetterebbe l’onere di rendere il proprio territorio economicamente più
appetibile per esse;
➢ la seconda tesi è detta bilanciata. Essa prevede il mantenimento di un’origine nazionale
delle imprese multinazionali, rappresentata da una cultura aziendale ben definita e da
rapporti di fiducia con lo Stato di origine. Legami come quello descritto risultano essere
di vitale importanza sia nei periodi di crisi, ma anche ai fini dell’orientamento delle scelte
strategiche inerenti il core business e la classe dirigente dell’impresa;
➢ la terza e ultima posizione è detta stato-centrica e, secondo essa, le imprese nate
all’interno di un determinato territorio nazionale devono resocontare al loro Stato
d’origine tutte le attività estere. Alla base di tale costrutto v’è l’assunto, più o meno velato,
che le attività estere possano rappresentare uno svantaggio in termini economico-sociali
per lo Stato d’origine. Quest’ultimo è pertanto tenuto ad ostacolare o comunque
controllare in maniera molto rigida tali attività. Empiricamente, tale teoria assume
concretezza quando alcuni paesi sottosviluppati vedono nelle imprese entranti dall’estero
potenziali nemici, anziché un’opportunità di crescita.
Ovviamente, la tesi che riesce ad inquadrare una chiave di lettura più realistica ed equilibrata è la
seconda perché fonda le proprie radici su valori culturali, comunicativi e di convenienza economica,
escludendo però qualsivoglia tipologia di coercizione. Inoltre, tale posizione riesce a delineare un
rapporto di sinergia e complementarità fra Stati ed imprese nella gestione operativa e
regolamentazione di due fenomeni che rappresentano sia i principali frutti del processo di
interglobalizzazione, sia i nuclei concettuali dirimenti ai fini dell’internazionalizzazione dei processi
produttivi: la mobilità internazionale del capitale e del lavoro.
La mobilità internazionale dei fattori produttivi è, da alcuni anni, un fenomeno ampiamente
dibattuto anche nelle sedi di comunità epistemiche, generando spesso assunti teorici contrastanti in
merito alla correlazione costi-benefici che tale fenomeno determina.
Al fine di avere un quadro più chiaro, è opportuno analizzare individualmente i due tipi di
mobilità, per poi sinergizzare delle valutazioni conclusive.
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Partendo dalla mobilità internazionale dei capitali, è doveroso studiare tale fenomeno avvalendosi
di un approccio teorico poliedrico e inquadrante sia la struttura economica di un paese di riferimento,
sia l’assetto dinamico della bilancia dei pagamenti. Essendo la bilancia dei pagamenti pari a EXP –
IMP + FKE – FKV
(dove FKE e FKV sono rispettivamente gli afflussi e deflussi di capitale), un
approccio analitico come quello sopra descritto permette dunque di esaminare la mobilità dei capitali
non solo nell’ottica del rapporto fra esportazioni e importazioni, ma anche e soprattutto in relazione
agli afflussi e deflussi di capitale, relativi agli investimenti in entrata e in uscita (De Arcangelis, 2017).
Sulla base di tali premesse, il punto di partenza della nostra disamina è un assunto teorico molto
semplice, elaborato grazie agli studi di Dixit e Norman nel 1980: in un contesto economico nel quale
vige una perfetta sostituibilità fra la mobilità delle merci e la mobilità dei fattori, quest’ultima diviene
irrilevante poiché, al verificarsi di determinate condizioni nel modello di Heckscher-Ohlin, la
mobilità delle merci porta all’equalizzazione delle remunerazioni dei fattori (Drudi, 1986). Prima di
analizzare le condizioni generanti la fattispecie predetta, è opportuno esplicare i profili maggiormente
salienti del modello di Heckscher-Ohlin: esso è un modello elaborato per la prima volta nel 1919 e
poi perfezionato nel 1933, la cui finalità è quella di analizzare le specializzazioni produttive, il
commercio internazionale e le annesse cause in un contesto temporale di lungo periodo, nel quale
tutti i fattori produttivi sono mobili. In forza di tali fondamenti, la teoria di H-O, detta anche teoria
della proporzione dei fattori, afferma che le specializzazioni produttive sono una conseguenza diretta
della dotazione fattoriale di ogni singolo Paese. Pertanto, un determinato Paese potrà avere un
vantaggio comparato nel momento in cui si specializzerà nella produzione di un bene il cui processo
produttivo utilizza intensivamente il fattore produttivo di cui il Paese è ricco. Per converso, nelle
produzioni per le quali il Paese non ha un vantaggio comparato, sarà comunque possibile soddisfare
la domanda dei consumatori, avvalendosi del commercio internazionale, il cui schema viene dunque
a determinarsi proprio in virtù delle dotazioni fattoriali di ogni singolo Paese (De Arcangelis, 2017).
Veniamo ora alle condizioni che determinano l’equalizzazione dei prezzi dei fattori, considerando
sempre due Paesi come nel modello di H-O:
a) i paesi hanno identica tecnologia;
b) i paesi hanno identiche funzioni di utilità omotetiche;
c) si hanno rendimenti di scala costanti;
d) si ha concorrenza perfetta;
e) non si hanno distorsioni allocative;
f) le dotazioni fattoriali sono differenti fra i due Paesi e ciò implicherà il commercio
internazionale;
Considerando inoltre un modello 2x2, possiamo affermare che l’uguaglianza fra i prezzi dei fattori
sarà raggiungibile solo se entrambi i beni saranno prodotti in entrambi Paesi. In termini grafici, per
ottenere la produzione di entrambi i beni, sarà necessario individuare un prezzo relativo dei due
fattori, in corrispondenza del quale l’isocosto unitario
(3)
sia tangente ai due isoquanti unitari
(4)
, come
sintetizzato dalla figura 1, di seguito riportata:
________________________________________________________________________________
(3): l’isocosto unitario è una retta che indica una determinata combinazione di capitale e lavoro e che implica un
determinato livello di costo.
(4): l’isoquanto è una curva che individua il bilanciamento produttivo ottimale fra capitale e lavoro.
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Fonte: Drudi F., Effetti redistributivi e di benessere di un’apertura a movimenti di capitale, Giornale degli
Economisti e Annali di Economia, Luglio-Agosto 1986; pp. 433-462.
All’interno del grafico, un elemento di fondamentale importanza è rappresentato dal raggio di
dotazione dei fattori, la cui pendenza fornisce il rapporto capitale-lavoro della dotazione fattoriale del
Paese. Se tale rapporto non giace per entrambi i Paesi all’interno della regione geometrica POP’, detta
anche cono di diversificazione, allora non sarà possibile ottenere l’equalizzazione dei prezzi dei
fattori e, di conseguenza, non vi sarà perfetta sostituibilità fra mobilità delle merci e mobilità dei
fattori. Pertanto, all’infuori del cono di diversificazione, si avranno solo delle situazioni di tendenza
all’equalizzazione, ma che comunque lasceranno adito alla mobilità dei fattori.
La fattispecie di non equalizzazione è, indubbiamente, quella che configura un maggior riscontro
empirico e, di conseguenza, oggetto di una moltitudine di studi inerenti la complementarità fra
movimenti di fattori produttivi e movimenti di beni. Fra i più autorevoli, spiccano senz’altro i lavori
di Svensson del 1985, riguardanti una lettura innovativa della teoria di H-O resa possibile da un
brillante arricchimento concettuale ravvisabile nella cosiddetta cooperatività fra fattori della
produzione: un fattore commerciato si dice cooperativo con un fattore non commerciato se
all’aumentare della dotazione del fattore non commerciato si incrementa l’utilizzo (attraverso
importazioni) del fattore commerciato (Drudi, 1986). Tale intuizione, se unita al teorema di
Rybczynski, può essere particolarmente utile per comprendere gli effetti redistributivi dei movimenti
di capitale. Più nello specifico, infatti, il teorema di Rybczynski afferma che se i prezzi relativi dei
beni rimangono costanti, ma aumenta una determinata dotazione fattoriale, si registrerà un aumento
della produzione del bene il cui processo produttivo necessita di un impiego intensivo del fattore
produttivo la cui dotazione è aumentata (De Arcangelis, 2017). Pertanto, se consideriamo due Paesi
identici, A e B, con la medesima dotazione fattoriale di partenza e con dei successivi aumenti di
capitale in A e di lavoro in B, avremo un nuovo contesto economico nel quale il paese A tenderà ad
esportare il bene intensivo in capitale (in cui è abbondante) e B ad esportare il bene intensivo in
lavoro.
Tuttavia, l’ambito di tale fattispecie non si esaurisce solo con quest’ultima asserzione, bensì è
articolabile in una duplice chiave di lettura:
• se i fattori sono cooperativi, con movimenti di capitale, B tenderà ad importare capitale,
sottraendolo alla produzione in A e riducendo le ragioni per avere scambio;
7
• se i fattori sono non cooperativi, B tenderà a impiegare meno capitale e dunque ad esportarlo
verso A, specializzandosi nella produzione del bene intensivo di lavoro.
Ai fini di una maggiore completezza applicativa, è opportuno dimostrare gli effetti redistributivi
dei movimenti di capitale anche per via analitica. A tal proposito, si considerino sempre gli assunti
del modello di H-O e sia r (p,v) la funzione di ricavo di un determinato paese, dove p è il vettore dei
prezzi fissato esogenamente e v è la dotazione nazionale dei fattori. Inoltre, sia W la remunerazione
internazionale dei fattori al cui commercio il paese decide di aprirsi ed f la quantità di fattori
commerciati a livello internazionale. Dunque, avremo la seguente relazione: ri - Wi = fi. Se il ricavo
del paese è maggiore della remunerazione internazionale dei fattori produttivi, allora ri - Wi > 0 e, di
conseguenza, anche fi > 0, indicando l’ingresso nei confini nazionali di una nuova dotazione fattoriale
(Drudi, 1986). Pertanto, se l’incremento della dotazione fattoriale è in grado di influire positivamente
sul ricavo del paese, è lapalissiano che tale aumento riguarda il fattore utilizzato intensivamente nel
processo produttivo del bene per il quale il paese ha un vantaggio comparato. Nel dettaglio, un
incremento della dotazione fattoriale come quello sopra descritto determina a sua volta un aumento
della capacità produttiva del paese per il bene intensivo del fattore la cui disponibilità è aumentata.
Sotto questo aspetto, un potenziamento della capacità produttiva determina un miglioramento della
ragione di scambio e un conseguente aumento del prezzo relativo del bene nella cui produzione il
paese è specializzato. A questo punto, è semplice intuire che le conclusioni traibili da quanto sopra
esplicato sono le medesime del celebre teorema di Stolper-Samuelson: nel lungo periodo, quando
tutti i fattori sono mobili, un aumento del prezzo relativo di un bene implica un aumento del reddito
reale del fattore usato intensivamente nella produzione di quel bene e una diminuzione del reddito
reale dell’altro fattore (De Arcangelis, 2017). Nel nostro specifico caso, l’aumento del prezzo relativo
è determinato proprio dall’incremento della dotazione fattoriale, reso possibile dalla mobilità dei
fattori.
È ovvio che un simile ragionamento presenti una maggiore flessibilità applicativa nel caso della
mobilità internazionale del capitale in quanto, la mobilità internazionale del lavoro è un fenomeno
per il quale la discrasia fra profili teorici e rilevazioni empiriche è senz’altro più marcata. Ciò è dovuto
prevalentemente al fatto che i movimenti del fattore lavoro – specialmente quello non qualificato –
determinano anche lo spostamento fisico dei rispettivi proprietari, eventualità che non
necessariamente si verifica nel caso del capitale. Invero, è affermazione fortemente condivisa fra
economisti del lavoro e giuslavoristi quella secondo cui vi sia un significativo gap di mobilità tra i
due principali fattori della produzione, il quale descrive il lavoro come il fattore produttivo dalla
mobilità meno flessibile. Nello specifico, è pacifico ritenere che le diverse politiche di
liberalizzazione del mercato – soprattutto in fase di costituzione del mercato unico europeo – abbiano
avuto un influsso maggiore sui mercati dei capitali finanziari e sul libero scambio di beni e servizi. A
tal proposito, è congruo sottolineare come tale asimmetria sia stata chiamata in causa anche durante
l’attuazione del progetto di mercato comune, elaborato nel Trattato di Maastricht del 1992. In quella
circostanza, la carente mobilità del fattore lavoro, peculiare soprattutto in ambito europeo,
rappresentava un alibi concettuale da contrapporre alle strategie di regime shopping
(5)
attuate dalle
imprese multinazionali, poiché l’obiettivo comune in ambito comunitario era quello di prevenire il
rischio che tali imprese potessero bypassare e successivamente sgretolare i sistemi nazionali di tutela
________________________________________________________________________________
(5): Il regime shopping è il processo di scouting, in virtù del quale, le imprese multinazionali individuano gli Stati più
appetibili per l’attuazione dei loro investimenti.
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del lavoro, portando ad una scarsamente confortante competizione regolativa al ribasso tra le
molteplici strutture giuslavoristiche nazionali. Proprio in ragione di quanto detto, la mobilità
internazionale dei lavoratori è progressivamente divenuta parte integrante e sostanziale di un sistema
organizzativo ben più complesso: il cosiddetto capitalismo molecolare
(6)
. Una simile realtà si
configura nel momento in cui a compartecipare al network delle aziende globali, non sono più soltanto
le grandi imprese, ma anche e soprattutto le imprese di medio-piccola dimensione, grazie alla proficua
flessibilità dei nuovi metodi organizzativi.
È interessante notare che nel novero di suddetti metodi organizzativi non rientrano soltanto gli
investimenti diretti esteri, ma anche la già citata impresa-rete transnazionale e la fornitura
internazionale dei servizi. Anche se relativamente agli IDE, verranno forniti approfondimenti più
dettagliati nel prossimo paragrafo, ai fini dell’analisi condotta in tale sede, è comunque doveroso
anticiparne la definizione: stando a quanto stabilito dal combinato disposto fra le indicazioni del FMI
e gli studi del CNEL, l’investimento diretto è una categoria di investimento internazionale che riflette
l’obiettivo di un soggetto residente in un paese di ottenere un interesse duraturo in un’impresa
residente in un altro paese. Nell’ambito di una tale fattispecie, il soggetto residente è detto investitore
diretto e l’impresa destinataria è detta impresa di investimento diretto.
Pur essendo tale definizione particolarmente ampia ed estesa, essa configura un contesto che non
esaurisce l’ambito dell’organizzazione su scala internazionale dei processi produttivi. Infatti, anche
nei casi dell’impresa – rete transnazionale e della fornitura internazionale dei servizi, vi è
l’opportunità per i partecipanti di contribuire alla creazione di un sistema di specializzazione
flessibile, da declinare all’interno di una dimensione cross-border, sia per i capitali che per i
lavoratori. Non a caso, sono sempre più frequenti le prestazioni di lavoro svolte a favore di imprese
localizzate in aree geografiche diverse da quella dei lavoratori e che rappresentano i principali tasselli
dei meccanismi d’integrazione produttiva fra imprese, le quali conservano comunque l’individualità
dei rispettivi assetti societari e di proprietà. Quest’ultima peculiarità, come già anticipato, è tipica
dell’impresa – rete transnazionale e della prestazione di servizi su scala transnazionale, le quali
presentano dinamiche di lavoro particolarmente interessanti poiché, è proprio in virtù di tali
dinamiche che l’impiego – anche temporaneo – di lavoratori oltre confine cessa di presentare i profili
di eventualità eccezionale per attestarsi stabilmente in un percorso di mobilità che può definirsi
ordinario, in quanto funzionale alla materiale attuazione dei programmi di integrazione produttiva fra
imprese. Grazie a tali programmi, è possibile riprodurre spazi di lavoro transnazionali, le cui logiche
non si discostano eccessivamente da quelle che sono alla base dei mercati del lavoro interni alla
singola impresa (Lo Faro, 2005).
Nel dettaglio, i lavoratori hanno la possibilità di muoversi fra contesti produttivi differenti, ma
facenti capo ad uno stesso spazio organizzativo, come nel caso della mobilità fra reparti di un’unica
impresa. È interessante sottolineare che, contrariamente all’immaginario collettivo, tali paradigmi di
mobilità riguardano non soltanto il lavoro non qualificato, ma anche quello qualificato e individuabile
nelle fasce del cosiddetto non production employment
(7)
.
Tale tendenza può essere ravvisata e analizzata attentamente anche mediante l’osservazione delle
rilevazioni empiriche prodotte dal 2004 in poi in sede OCSE e inerenti ai processi di
internazionalizzazione: esse rivelano in modo lapalissiano che la proliferazione, in ambito aziendale,
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(6): https://www.ilsole24ore.com/art/la-frammentazione-capitalismo-molecolare-artigiano-AEBraMZ
(7): Definizione con la quale si fa riferimento ai lavoratori non direttamente coinvolti nel processo produttivo,
comunemente conosciuti come “colletti bianchi”.