II
Prima fra queste è la soggettiva negata, richiamata ma non costruita al
punto da riconoscersi come classica. Ogni elemento, narrativo e
stilistico, nei primi film da camera rappresenta un richiamo, un
accenno senza che venga soddisfatto.
Il dramma è concentrato negli angoli di un volto, nello sguardo che
rinvia ad eventi lontani quasi impercettibili per lo spettatore.
Il dramma da camera assume i contorni di studio del paesaggio umano
senza arrivare a conclusioni (il film a tesi è lontano dalla concezione
bergmaniana del cinema), ma interrogando lo spettatore, ponendogli
dei problemi.
Questo continuo rimando alla sala cinematografica si esprime
attraverso una delle figure più emblematiche del cinema di Bergman:
lo sguardo in camera.
La conversazione privata che si instaura nel Kammerspiel
bergmaniano implica in primo luogo un gioco di sguardi diretti allo
spettatore, richiamati dall’istanza narrante o dai personaggi.
Oltremodo lo scavo della psicologia dei personaggio costituisce uno
sguardo interiore, mentale, vicino ai mondi del sogno.
Quest’ultimo campo riflette la necessità negli ultimi film bergmaniani
di approfondire lo studio del personaggio sino a registrarne la visione
interiore.
Il percorso del dramma da camera (che potremo identificare
cronologicamente dagli anni sessanta sino ai primi ottanta) parte da
una negazione della soggettiva, e quindi dell’identità del personaggio,
fino ad impietose analisi della psiche.
III
Bergman ritorna al teatro attraverso il cinema utilizzando l’unità
aristotelica di tempo, luogo e azione; e in un processo lineare sembra
rinchiudere lo spazio ripreso dalla cinepresa per un’estetica del
dettaglio dei sentimenti umani.
1
1 Sguardo e Dramma fuori campo
“ Ho affermato che Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio e Persona
erano film da camera. È musica da camera. Si riparte un certo numero di temi tra un
numero ristretto di voci e personaggi. Si estrae il passato dei personaggi, e li si pone in
una sorta di nebbia, ci si fa un distillato” Ingmar Bergman
1
.
Con cinema da camera si intende un cinema “minimo”, essenziale,
raccolto, dove i personaggi sono gli assoluti protagonisti e i loro volti
campo e agenti del dramma.
La narrazione è rarefatta, interiore, in cui ciò che si sviluppa è la
complessità del personaggio; gli eventi sembrano essere già accaduti,
e gli esistenti sono testimoni e similitudini degli animi. Da qui si
muove l’analisi presa in considerazione da questa tesi, che ha per
oggetto il personaggio e il suo sguardo, che si orienta in tutte le
direzioni possibili, anche quelle “proibite” dal linguaggio
cinematografico. Uno sguardo ostinato, perché braccato dalla
macchina da presa, sfuggente e impotente, volto ad esplorare i
meandri della psiche secondo il nuovo ciclo della poetica
cinematografica bergmaniana.
Nel 1960 Bergman, all’età di 42 anni, è già un regista molto affermato
in campo internazionale, ha già vinto a Cannes nel ’56 con “ Sorrisi di
una notte d’estate” e proprio nel’59 riceve l’Oscar per il miglior film
1
S. Bjőrkmann, T.Manns, J.Sisma, Le cinéma selon Bergman, Editions Seghers, Paris, 1973, p.204
2
straniero con “La fontana della vergine”, non dimenticando i successi
di “ Il settimo sigillo” e “ Il posto delle fragole”.
Bazin disse di lui con anticipo su tutti nel 1947: ”Ha saputo evocare
un mondo di una purezza cinematografica abbagliante”.
2
Eppure dopo
questi premi e le attenzioni che i critici portarono alla sua opera e alle
sue tematiche opta per un cambiamento stilistico e narrativo: inizia a
girare una serie di film che egli stesso definisce come Cinema da
camera. Insomma mette in discussione il proprio passato, intendendo
iniziare da zero cambiando attitudine di fronte alla specificità del
linguaggio cinematografico.
Certo il cinema di Bergman antecedente non è prossimo alle
concezioni del kolossal o dei grandi affreschi storici, ma la narrazione
include tempi e spazi maggiori.
Prendendo spunto dai drammi da camera di Strindberg di inizio
secolo, che influenzarono non poco il clima culturale nordico-
mitteleuropeo di inizio secolo, come il cinema con il Kammerspiel di
Carl Mayer, il regista svedese muove le proprie concezioni verso
un’arte visiva sempre più essenziale, con pochi personaggi, ambienti e
tempi limitati. È un ritorno all’unità di tempo, luogo e azione
aristoteliche.
Teatro da camera che evidentemente prende le origini dalla musica da
camera, tipo di composizioni alle quali dal seicento in poi la maggior
parte dei compositori si cimentarono, nel segno di una musica intima,
raccolta, per pochi strumenti e per pochi spettatori.
Lo stesso Strindberg mise in scena i suoi drammi all’Intima Teatern
di Stoccolma che accoglieva poco più di centosessanta persone, una
tale idea applicata al cinema va un po’ contro la natura dell’istituzione
2
François Truffaut, I Film della mia vita, Marsilio editori, Venezia, 1978, p.55
3
stessa, eppur visto il proliferare di cine club negli anni sessanta, non
del tutto fuori luogo.
In questo modo già Godard aveva rilevato, nel suo articolo
“Bergmanorama”
3
, il carattere démodé del regista svedese, sempre
presente nelle sue svolte stilistiche. Anche se forse a ragione la sua
carriera cinematografica può ben essere identificabile con la figura
della spirale, mai un voltare le spalle al passato, ma approfondendo,
scavando sempre di più.
Quindi il nuovo ciclo di film di Bergman si avvia dalle sue grandi
passioni: il teatro di Strindberg e la musica; infatti, ancora in articoli
recenti il regista scrive in modo analogo a certe teorie ontologiche
degli anni venti e trenta parlando del cinema come musica in immagini
(Cine-poemi), la cui logica deve essere come quella musicale: per
intervalli, cadenze, logica dei sentimenti e non narrativa. Egli stesso
nel libro Immagini scrive: ”Attraverso Kabi, (la moglie), imparai
molto sulla musica. Tra il dramma da camera e la musica da camera il
confine è inesistente, come tra l’espressione filmica e l’espressione
musicale.”
4
Ad ogni modo, Bergman inizia un gruppo di nuovi film all’inizio degli
anni sessanta, sensibile ai cambiamenti del cinema europeo e mondiale
di quegli anni, sotto diversi comuni denominatori: un nuovo direttore
della fotografia, Sven Nykvist, con cui approfondisce il discorso sulla
luce, vero elemento centrale del suo cinema; gira la maggior parte dei
film nell’isola di Faro, pochi personaggi, quattro normalmente, come i
quattro strumenti della musica da camera; una struttura narrativa
sempre più esile, essenzialità delle scenografie, un dramma
3
Roger W. Oliver, Ingmar Bergman, Gremese, Roma,2000, p. 58
4
Ingmar Bergman, Immagini, Garzanti, Milano,1991, p.210
4
psicologico dei personaggi attraverso lo studio dei volti come
autentici protagonisti.
È interessante notare come prima del 1960 i film di Bergman al di là
dei soggetti trattati la struttura narrativa era sempre ben concepita, i
personaggi spesso in viaggio si muovevano verso qualche luogo,
invece in questo gruppo di film sembra mostrare una sospensione della
narratività.
Forse, un cinema dell’istante come ebbe a dire sempre Godard, poco
accade, o meglio ciò che era importante nella storia dei personaggi
non è raccontato, il dramma del racconto è altrove, fuori campo, essi
sembrano non far altro che raccogliere i cocci di un’esistenza irrisolta
o sprecata. Infatti, tutti i personaggi vivono nel paradosso, sempre
appartengono a un buon livello sociale e culturale, sono artisti o
intellettuali, ma il loro essere non coincide con la loro quotidianità;
perciò lo scrittore confesserà di non avere mai scritto una parola
sincera (Come in uno specchio), il pastore di non avere mai creduto in
Dio (Luci d’inverno), una traduttrice si ritrova in un paese senza
comprendere nulla, (Il silenzio), l’attrice non parla più chiusa in un
silenzio isterico (Persona).
Oltre a ciò non accade quasi nulla, non cambia nulla e ciò che cambia
sembra non modificare il destino dei personaggi, pensiamo ai finali de
Il Silenzio, di Persona.
La struttura narrativa è spesso circolare, termina dove è partita, il
poco che è accaduto è vissuto come inevitabile.
Proprio come sottolinea il direttore della fotografia Nykvist: “A
partire da Come in uno specchio i film di Ingmar cambiarono
radicalmente stile. L’aver contribuito a questo passo in avanti è la
cosa più importante che mi sia capitata come direttore della
5
fotografia. Fu un viaggio alla scoperta della luce. Possono essere
considerati più o meno tutti drammi da camera. Pochi personaggi, la
storia limitata nello spazio e nel tempo. Era il primo film in cui la
luce naturale era il nostro obiettivo, catturare le luci e le
impercettibili ombre dei tramonti svedesi estivi.”
5
Il cinema dell’istante
6
sembra quindi configurarsi come un dramma
fuori campo dove i personaggi, o meglio i propri volti tentano di
esserne i testimoni, ma non gli agenti; quindi lo sguardo e la parola e
la luce sono i veri agenti narrativi del racconto. Forse come vorrebbe
Morin
7
, identificando il volto come specchio dell’interiorità e tavola
antropomorfizzata del mondo esterno, o nell’ipotesi affascinante di
Deleuze
8
secondo cui Bergman ha spinto in confini dell’individualità
fino a farla scomparire, al nichilismo, alla più perfetta espressione di
cinema esistenzialista. Ipotesi affascinate che questa tesi cercherà di
approfondire specialmente.
L’ipotesi di un dramma escluso e non generato dalla situazione
narrativa, e quindi “ fuori campo” rispetto al racconto, ci sembra
essere confermata dalla tipologia degli sguardi dei personaggi dei
primi film degli anni sessanta. Il fuori campo negato, sia che i
protagonisti lo cerchino oppure lo rifuggano; le anomalie della visione
sembrano il primo dato caratteristico filmico di una narrativa
stagnante, immobile e dell’incapacità di agire.
5
Sven Nykvist, Nel rispetto della luce, Lindau, Torino,2000, p.72
6
Jean-Luc Godard, Bergmanorama, cit., p.58
7
Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, Milano, 1982,p. 82
8
Gilles Deleuze, L’image-mouvement, Les éditions de minuit, Paris,1983
6
1.1 PUNTO DI VISTA APERTO: la visione impossibile
L’idea di una struttura narrativa sospesa, mancante di un dramma
lasciato alle spalle nel passato dei personaggi è applicabile a tutti i
film di Bergman di questo periodo; in ogni caso rappresenta un
percorso volto al dramma intimo legato agli incubi (a occhi aperti e
chiusi) dei personaggi.
I film presi in considerazioni sembrano muoversi verso un cinema
“mentale”, irrazionale e illogico; in questo processo la narrazione si fa
esplicitamente confusa come in un sogno, aprendosi ai pensieri e ai
sentimenti dei personaggi.
Prendiamo come valida e opportuna, per Bergman, la dichiarazione
fatta da Alain-Robbe Grillet
9
a proposito dello sguardo in Antonioni:
“…la camera, In Antonioni, guarda qualcuno che guarda altrove. E
quando ci sono più personaggi la situazione si complica, perché
ciascuno guarda altrove! E l’altrove in questione non è affatto un
controcampo che si potrebbe dare in seguito, per mostrare cosa
guarda questo sguardo. No, è lo sguardo ad essere diretto verso
qualcosa che è fuori campo, che voi dunque non vedete, ma che si può
supporre che il personaggio non veda più di voi. Semplicemente egli
è, lui stesso, come la rappresentazione del proprio immaginario.”
Come in uno specchio (1960) è il primo film della cosiddetta trilogia
sul silenzio di Dio, secondo il nostro punto di vista invece è
9
Alain Robbe-Grillet, Reflexions sur Antonioni, intervista rilasciata a Milano il 22 Giugno 1993, da Lorenzo Cuccu ”Antonioni- Il discorso
dello sguardo”, Edizioni ETS,Pisa,1997,p.216
7
soprattutto l’inizio di un processo di ricerca estetica che attraverserà il
cinema di Bergman degli anni sessanta. Come sottolinea Baldelli:
10
“Negli ultimi film Bergman concentra la narrazione, scarnisce la sua
materia per far convergere l’immagine sull’essenza delle questioni
che gli premono. Predominano il dialogo, e la recitazione. Alla
ricerca di Dio: dio che è in noi, non al di fuori. Dio non c’entra un
fico secco. La pazzia di Karin tra fede e allucinazione, è follia
romantica un po’ antiquata”.
Karin (Harriet Andersson) è una giovane donna malata, forse
schizofrenica, vive in un’isola con il marito medico Martin (Max von
Sidow) e il fratello Minus (Lars Påssgard), il padre dei due ragazzi,
David (Gunnar Björnstrand), è un celebre scrittore che torna da lunghi
viaggi di lavoro per passare un po’ di tempo con la famiglia. Poco
accade se non il riaprirsi di vecchie ferite e il peggiorare della
malattia di Karin che la porterà ad essere ricoverata in un ospedale
psichiatrico. Invece il padre cercherà di tornare verso la famiglia da
lui trascurata, nel finale del film parlando al figlio Minus, anche se
non sappiamo se rinuncerà ai prossimi impegni in terra straniera.
Finale interpretato come avvicinamento di Dio all’uomo, e invece
secondo altri critici e secondo Bergman il momento più debole del
racconto.
I personaggi ci vengono presentati tutti insieme sul calare del giorno
mentre escono dal mare dopo un bagno ridendo e scherzando, ma in
controluce, come ombre, non identificabili. Poi, attraverso un
montaggio alternato il regista dispone i personaggi in coppie, Karin e
Minus vanno a prendere del latte, mentre il marito e il padre gettano le
reti per la pesca.
10
Pio Baldelli, Il cinema dell’ambiguità, Samonà e Savelli, Roma, 1971, p. 123
8
Questo primo film è il più elaborato come trattamento del linguaggio
filmico, vi soggiace ancora una forte esigenza di raccontare e non è
così fortemente ambiguo, come quelli che lo seguono. Infatti, la
sequenza di Karin e Minus è in piano sequenza, la macchina li segue
con una carrellata da sinistra verso destra, mentre l’altra sequenza è
spezzata dal montaggio, utilizzando anche alcune angolature rare dal
basso, con macchina a livello del suolo.
In queste due sequenze ci sono dei richiami al fuori campo, attraverso
dei punti di vista anomali, ossia sono richiamati dal dialogo, ma al
limite abbiamo solo una delle condizioni che determinano una
soggettiva.
Secondo Branigan
11
il POV classico è definibile come chiuso, quando
tutti i sei elementi (Point/Glance, Transition, From Point, Object,
Character) sono presenti e danno stabilità alla costruzione narrativa e
massima chiarezza allo spettatore (Il Pov è un’inquadratura nella
quale la camera assume la posizione di un soggetto al fine di
mostrarci che cosa il soggetto vede). S’intende POV aperto, quando
l’oggetto della visione non è rappresentato ma solo richiamato, dal
dialogo, dal punto d’origine della visione e dallo sguardo verso la sua
supposta collocazione spaziale. Normalmente il POV aperto viene
utilizzato nel genere del thriller, o dell’horror per accentuare suspense
o mistero o terrore, l’oggetto è tanto orribile che è meglio lasciare la
reazione che provoca sul volto del personaggio che vederlo.
Certo il film di Bergman, non è un thriller, né un film horror, ma il
senso di mistero pervade tutta la storia, più volte viene evocato, un
temporale, un suono, che colpisce la curiosità della ragazza senza che
lo si possa scorgere. Mistero e incredulità per le parole della
11
Edward Branigan, The point of view in the cinema, Mouton publishers, Berlin. New York. Amsterdam, 1984, p.103
9
protagonista, ma anche sguardo verso l’ignoto, necessità di rompere il
cerchio magico tracciato dai protagonisti alla deriva in un tempo
sospeso. Non inquadrare l’oggetto, tende a lasciare cadere nel vuoto le
parole di Karin e pensare che ciò che lei avverte non è altro che frutto
della sua malattia, invece nel momento in cui queste voci e suoni si
concretizzano durante la notte lo spettatore entra nel mondo
soggettivo di Karin, ogni sua azione è pervasa di soggettività.
Karin sente un suono di un animale e ne informa il fratello cerca di
guardare verso un fuori campo per giustificare ciò che ha udito.
Lo spettatore è più vicino a Minus, non ha udito nulla e neppure
guarda verso l’orizzonte. O meglio allo spettatore non viene offerta
l’immagine che Karin sta osservando, cercando l’oggetto di quelle urla
che la tormentano. L’impressione di questo POV mancato o anomalo è
chiaramente a sfavore di Karin, lei appare veramente malata, sente
voci che non si odono, come conferma anche la diagnosi del medico al
padre. Intanto il medico e il padre discorrono sulla salute della figlia,
mentre preparano la barca per andare a pescare; ancora una volta c’è
un riferimento ad un fuoricampo dato dal dialogo: “ Sta per arrivare
un temporale” osserva il padre gettando una breve occhiata, lo
spettatore ancora una volta non viene coinvolto. È come se
l’enunciatore volesse evitare di porci subito la visione di un
personaggio, quindi di essere dalla parte dell’uno o dell’altro.
Il Pov mancato determina una frustrazione visiva da parte di chi è
spettatore e mette anche in dubbio le parole di chi indica questo
fuoricampo. Inoltre suggerisce un universo chiuso, impotente di fronte
al mondo, come lo conferma il padre dicendo verso la fine del film: ”
Si traccia un cerchio magico intorno a noi stessi, lasciando fuori tutto
quello che non conviene ai propri giochi segreti. Ogni volta che la
10
vita spezza un cerchio, i giochi diventano insignificanti, ridicoli.
Allora si tracciano nuovi cerchi e si costruiscono nuove difese.”
Questi personaggi isolati dal mondo fingendo per un attimo di
sospendere il tempo e ciò che li circonda, lentamente si rendono conto
di quanto tutto ciò sia vano.
Abbiamo le prime vere soggettive del film, intese in senso classico,
dove lo spettatore è immaginariamente posto al centro dello spazio, in
una chiara scena di dialogo attraverso un campo controcampo. I due
uomini sono finalmente andati a pescare, hanno gettato le reti e
conversano tra loro; dopo un piano d’insieme in cui li vediamo in
barca remando, la mdp si avvicina attraverso uno stacco sull’asse e
iniziano le soggettive ripetute nel dialogo dei due personaggi.
Il temporale evocato dal padre si rende concreto dietro la sua figura:
nubi minacciose sono dietro di lui, mentre il clima è semplice e sereno
alle spalle di Martin. Questi è l’uomo semplice, concreto e
pragmatico, non a caso è il personaggio che “vede” di meno ed è
anche meno visto, forse ambiguo per questo, poco approfondito ma il
suo essere lo dimostra così: semplice e sincero.
Egli stesso lo confessa nella seconda gita in barca. Mentre Martin,
colui che ha “intravisto” il temporale, ha il paesaggio carico di oscuri
presagi, o forse un passato che viene da lontano ancora a tormentarlo.
Il montaggio esprime inoltre una forte discrepanza tra i due giovani,
ripresi in piano sequenza da sinistra verso destra, mentre i due adulti,
in direzione contraria con un numero molto maggiore di piani. Scende
la notte, tutti i personaggi si ritrovano a casa per la cena.
Questa sequenza mostra chiaramente chi sarà il protagonista: gli
sguardi sono di Karin, Minus e il padre, specialmente la coppia Karin/
il padre, mettendo in gioco i risentimenti, il passato irrisolto e
11
raramente accennato. Ma l’istanza narratrice vuole dirci qualcosa di
più, dopo la serie di soggettive durante la cena, il padre si alza e la
mdp lo scopre piangente nella cucina buia. È la prima volta che un
personaggio è ripreso totalmente isolato, cosa che lo rende più
individuabile e fuori della messa in scena del ritrovo con i familiari.
Non a caso la seguente sequenza sarà una piccola rappresentazione
organizzata da Minus per il padre, il suo sguardo è annoiato, di
sfuggita guarda l’ora è distratto dai propri pensieri. Nonostante la
messinscena sia una critica della vita del padre dedito all’arte
vanamente e trascurante l’amore e l’affetto. C’è questo sentimento di
dramma lontano, d’ambiguità nei confronti di ciò che è presente che
continua a farci pensare a un qualcos’altro che è accaduto e non è
mostrato. Il dramma è già consumato, non restano che le “ Tragedie
minori” (Stig Dagerman)
12
Karin è malata irrimediabilmente, ha già
ricevuto un elettroshock.
La notte impedisce a Karin di dormire, sente le grida di gabbiani, che
questa volta sentiamo anche noi, il suo sguardo spaventato ed
impotente non cerca più al di fuori di se stessa l’origine di quei suoni.
Lascia il letto dove il marito dorme, è l’unico che dorme
tranquillamente, e va verso la soffitta: dove il suo sguardo cerca
ancora qualcosa, il fuori campo questo caso è una tappezzeria
sgualcita da dove sente uscire voci confuse sempre più forti, a
contrappunto il suono di una nave in lontananza e le luci della lunga
notte svedese sulla parete. Confusa getta uno sguardo verso la finestra,
ma non è ciò le importa, noi sentiamo tutto ciò che lei sente, ciò che
lei vede è visto ed udito anche dallo spettatore.
12
Stig Dagerman, Il viaggiatore, Iperborea, Milano, 1991. P.32