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Introduzione
Nel panorama economico e sociale si è da tempo affermata una nuova concezione di
fare impresa. Le teorie economiche classiche, secondo le quali il fulcro dell’agire
imprenditoriale è rappresentato dal raggiungimento di successi sul piano economico-
finanziario, hanno progressivamente ceduto il passo a nuove prospettive che
ammettono finalità ulteriori rispetto a quelle meramente economiche.
Questo insieme di idee e concezioni hanno portato all’emersione dell’imprenditoria
socialmente responsabile, vale a dire un modo di fare impresa che si fa carico degli
impatti di natura sociale e ambientale che la stessa impresa ha sulla società, affiancando
alla responsabilità economica una responsabilità sociale, che crea valori tangibili e
intangibili, per l’azienda e per tutto ciò che le sta attorno: le persone, il territorio e
l’ambiente. Si fa strada così il concetto di sviluppo sostenibile, ovvero uno sviluppo in
grado di «assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza
compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri» (Rapporto
Brundtland, 1987).
Il mondo imprenditoriale diventa protagonista attivo nel mettere in atto le politiche di
sostenibilità promosse in ambito internazionale, comunitario e nazionale. L’evoluzione
in chiave sostenibile ha coinvolto numerosi settori, tra cui quello della moda. Per la
maggior parte dei big del settore la svolta sostenibile è divenuta uno dei principali
obiettivi strategici, secondo solo al miglioramento della soddisfazione del cliente.
Il cambiamento di rotta si sta traducendo nell’introduzione di misure di sostenibilità a
tutta la filiera produttiva, in particolare ponendo l’attenzione su aspetti quali
l’approvvigionamento delle materie prime, l’adozione di un approccio basato
sull’economia circolare, la riduzione dei gas serra, l’investimento in nuove tecnologie,
l’attenzione e il rispetto verso le persone, la comunicazione trasparente.
Il presente elaborato analizza questo percorso evolutivo, partendo dal concetto di
responsabilità sociale d’impresa e proseguendo lungo la sua evoluzione declinata nello
sviluppo sostenibile, con l’obiettivo di mostrare come tali concetti siano divenuti un
binomio ormai inscindibile e ineludibile per il mondo imprenditoriale. Nella seconda
parte viene illustrato nello specifico come tale nuova filosofia è stata interiorizzata dal
settore della moda, analizzando le principali iniziative adottate in termini di sostenibilità.
La terza parte prende in esame il caso del Gruppo Armani e la sua personale
interpretazione di sostenibilità. Dopo aver presentato l’azienda e la sua storia, viene
illustrato l’approccio e il percorso di sostenibilità seguito dall’azienda.
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1. L’evoluzione della responsabilità sociale
1.1 Definizione e fondamenti della RSI
Una delle definizioni più autorevoli e diffuse di Responsabilità Sociale d’Impresa – RSI (o
Corporate Social Responsibility – CSR, secondo la terminologia anglosassone) è quella
contenuta nel Libro Verde pubblicato nel 2001 dalla Commissione Europea, secondo il
quale la responsabilità sociale delle imprese consiste nella «integrazione volontaria delle
preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e
nei loro rapporti con le parti interessate». In altre parole, ciò significa essenzialmente
che le imprese decidono di propria iniziativa di agire in maniera responsabile e di
contribuire ad una società migliore e ad un ambiente più pulito. Si tratta di una nuova
concezione del fare impresa, che vede l’introduzione, all’interno del sistema aziendale,
di pratiche e strumenti che nel lungo termine contribuiscono, oltre al raggiungimento di
risultati economico-reddituali, anche ad un utilizzo responsabile e sostenibile delle
risorse sociali e naturali.
Oggi più che mai, in un contesto di globalizzazione, ipercompetizione, digitalizzazzione
dell’informazione, nonché a fronte dei recenti scandali societari (come i casi Enron,
WorldCom e Parmalat) e della crisi economica-finanziaria in corso dal 2008, il mondo
imprenditoriale è chiamato a contribuire al perseguimento di obiettivi di natura sociale
e ambientale. E lo può fare solo guardando il business attraverso le lenti della
responsabilità sociale, la quale diventa così una chiave di lettura nelle relazioni con gli
stakeholder e una parte integrante delle strategie e operazioni commerciali, e degli
strumenti gestionali.
Nel tempo si sono susseguiti numerosi tentativi di approdare ad una definizione univoca
e compiuta della Responsabilità Sociale d’Impresa, un concetto trasversale, innovativo
e in continuo sviluppo, ma non nuovo (Fiorani et al., 2012). Infatti, sebbene lo studio sul
tema della CSR inizi a consolidarsi a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, gli elementi
che, sedimentandosi nel tempo, hanno concorso alla nascita e diffusione del fenomeno
in questione, sono rintracciabili in un’epoca anteriore, a conferma del fatto che
«nessuna “etichetta” riferita a qualsivoglia fenomeno sociale possa apparire sulla scena
out of the blue per poi divenire oggetto di studio e di ricerca empirica» (Nigro, Petracca
2016).
1.2 Breve excursus sulla CSR
I primi contributi teorici affrontano il tema della CSR ponendo l’attenzione
prevalentemente sulla responsabilità sociale individuale dell’uomo d’affari più che sul
soggetto collettivo, l’impresa in quanto tale.
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Una pietra miliare negli studi sulla CSR è rappresentata dal pensiero di H. Bowen,
considerato universalmente il padre della responsabilità sociale d’impresa. Nel suo
lavoro del 1953 l’Autore teorizza il rapporto tra imprese e società, sottolineando
l’influenza delle prime, in particolare delle imprese di maggiori dimensioni, sulla vita
della società. Con Bowen si ha un riorientamento del focus della visione dell’impresa, in
quanto si passa dal modello d’impresa filantropica, orientata al finanziamento di cause
sociali, ad un modello in cui l’impresa «interiorizza una finalità di promozione di valori
sociali verso i dipendenti e la comunità di riferimento, e si muove di conseguenza con
specifiche azioni ed interventi, grazie anche alla comunicazione sociale (marketing
sociale)» (Fiorani et al., 2012).
Il primo a riferire la responsabilità all’impresa è Drucker, il quale elabora nel 1958
l’espressione “social responsibilities of business”, classificando la public responsibiliy tra
gli obiettivi primari che l’impresa – e non già il management – doveva prefiggersi (Nigro,
Petracca 2016).
Nel 1967 Davis elabora la sua celebre “iron law of responsibility” (“ferrea legge della
responsabilità”), che stabilisce l’esistenza di uno stretto legame tra responsabilità
sociale e potere. Secondo Davis, infatti, se l’impresa non usa il proprio potere in maniera
socialmente responsabile nel corso del tempo finirà per perderlo. In tale prospettiva
«l’integrazione della dimensione sociale contribuisce a determinare vantaggi di tipo
economico nel lungo periodo» (Rinaldi, Testa 2013). Contemporaneamente, nel 1960
Frederick approfondisce il tema della responsabilità, analizzando il rapporto tra
l’azienda e il contesto ambientale in cui è inserita. Con la sua analisi Frederick arriva a
sostenere che «il fine dell’impresa è il miglioramento delle generali condizioni
economiche e sociali» (Rinaldi, Testa 2013).
L’idea di una responsabilità delle imprese che va oltre il perseguimento di obiettivi
prettamente economici ha suscitato sin dall’inizio anche critiche ed obiezioni da parte
della comunità accademica. Il premio Nobel Milton Friedman, grande sostenitore della
shareholder view, nel suo articolo pubblicato sul New York Times Magazine nel 1970, si
scagliava contro la dottrina della CSR, da lui considerata come una minaccia, sovversiva
della vera responsabilità dell’impresa in una società libera con un libero mercato, vale a
dire quella di incrementare la profittabilità e il valore per gli azionisti, con il solo limite
del rispetto delle “regole del gioco”, senza cioè ricorrere a inganni o frodi (Nigro,
Petracca 2016). Secondo tale visione, il comportamento socialmente responsabile
rappresenterebbe un costo superfluo, giustificabile solo in termini di strategia volta ad
ottenere maggiori profitti, in risposta ad incentivi provenienti dai mercati in cui opera
l’impresa (Fiorani et al., 2012).
Nel 1984 R. Edward Freeman elabora la Stakeholder Theory, prima teoria organica sugli
stakeholder, nella quale l’autore identifica questi ultimi come «quei gruppi o soggetti
che sono influenzati o possono influenzare il raggiungimento degli obiettivi
dell’impresa», distinti al loro interno tra stakeholder primari e secondari. Tale teoria
prospetta una visione relazionale dell’impresa che si pone in netta contrapposizione alla
tradizionale concezione, di natura tipicamente neoclassica, secondo la quale la finalità
principale dell’impresa consiste nella massimizzazione del profitto. Secondo Freeman,
invece, un’organizzazione, nello svolgimento della propria attività, è tenuta a rispondere
– seppure in maniera differenziata – a tutte le categorie di soggetti coinvolti e non solo
allo shareholder (Nigro, Petracca 2016). In tale prospettiva il successo diventa funzione