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INTRODUZIONE
Il divieto di processare un individuo più volte per lo stesso fatto, sintetizzato nel
sintagma latino ne bis in idem, rappresenta una componente irrinunciabile
dell’ordinamento di un moderno Stato di diritto. Tale divieto costituisce un limite
all’esercizio dell’azione giurisdizionale da parte dello Stato e, oltre a tutelare
l’individuo dal rischio di abusi del potere giudiziario, è funzionale al rispetto della res
iudicata e, in ultima analisi, alla garanzia della certezza del diritto.
Tra i diritti fondamentali, che rappresentano un limite ed al contempo un fine
nell’esercizio dei pubblici poteri, è dunque senz’altro da annoverarsi il divieto
racchiuso nel brocardo latino ne bis in idem.
Nella prospettiva di ciò che verrà analizzato in questo elaborato si può parlare più
nello specifico di un limite al potere giudiziario e, di conseguenza, all’esercizio
dell’azione giurisdizionale da parte dello Stato: con questo divieto si vuole, quindi,
da un lato tutelare l’individuo da plurime persecuzioni per un medesimo fatto,
dall’altro rispettare il concetto della res iudicata, ottenendo così il risultato, per nulla
scontato, di garantire la certezza del diritto.
In questo contesto, il mio lavoro si propone di analizzare l’evoluzione dell’istituto,
con particolare attenzione alla dimensione assunta dallo stesso grazie all’apporto della
giurisprudenza unionale.
Prendendo le mosse da un breve inquadramento nel diritto romano, si esaminerà il
progressivo consolidamento dell’istituto nel corso dei secoli, fino a giungere
all’assetto attuale, sancito nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nella
Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
In seguito, attraverso l’analisi della giurisprudenza della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea (CGUE) sarà possibile evidenziare il contributo fornito dalla
stessa nell’interpretazione e nell’applicazione concreta dell’istituto. A questo esame
si affiancherà un raffronto con gli orientamenti seguiti dalle Corti interne italiane,
talvolta in recepimento della giurisprudenza unionale, talaltra in contrasto con i
principi enunciati da quest’ultima. In particolare, le divergenze più significative si
concentrano in settori, come quello tributario e quello del contrasto agli abusi di
mercato, in relazione ai quali lo strumento sanzionatorio dell’illecito amministrativo
può facilmente affiancarsi a quello di tipo penale, laddove la condotta contestata
dall’amministrazione competente costituisca anche reato.
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Tutto ciò ci condurrà quindi alla conclusione che il principio giuridico del ne bis in
idem, pur vantando origini antichissime ed una storia plurisecolare, sia ancor oggi in
evoluzione sotto il profilo sia interpretativo che applicativo, aspetto che presenta
importanti ricadute sull’assetto dell’ordinamento interno e sovranazionale.
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CAPITOLO I
IL PRINCIPIO DEL NE BIS IN IDEM: ORIGINI, SVILUPPO E FISIONOMIA
DI UN ISTITUTO PLURISECOLARE
SOMMARIO: 1. La genesi e le radici greco-romane del divieto di bis in idem – 2. Il
principio del ne bis in idem in epoca contemporanea – 2.1 Il profilo sostanziale – 2.2
Il profilo processuale – 3. La nozione di idem factum ed eadem persona: i fattori della
res iudicata – 3.1. Il concetto di medesimo fatto e le sue divergenti ricostruzioni
giurisprudenziali ad opera della Corte EDU e della Corte Costituzionale – 3.2 La
nozione di eadem persona e la sua interpretazione da parte della CGUE nelle cause
riunite Orsi e Baldetti – 3.3. Il ruolo della Corte di giustizia nella definizione dei
confini applicativi del divieto del ne bis in idem
1. La genesi e le radici greco-romane del divieto di bis in idem
Con la locuzione latina ne bis in idem - letteralmente “non (si processi) due volte per
lo stesso fatto” - si intende il divieto di sottoporre un individuo a più di un
procedimento penale per i medesimi eventi per i quali è già stato giudicato.
Come suggerito dal nome stesso dell’istituto, le radici del divieto di bis in idem vanno
ricondotte all’esperienza giuridica romana
1
.
Un simile principio sarebbe difatti rinvenibile nelle opere di Quintiliano
2
, sotto
l’espressione bis de eadem re ne sit actio
3
e in un frammento di Ulpiano all’interno
del Corpus Iuris Civilis giustinianeo (il Digesto nella specie): isdem criminibus
quibus quis liberatus est, non debet praeses pati eundem accusari
4
.
1
Sul punto, cfr. in dettaglio: G. NEGRI, Il processo romano nel pensiero di Arnaldo Biscardi, in Ledonline,
http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/attipontignano.html.
2
Quintiliano, Institutio oratoria, Libro VII, cap. 6, par. 4.
3
N.d.R. traduzione a cura dell’autrice: “che non vi sia azione due volte in ordine al medesimo fatto”. A tal
proposito, si veda G. DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, 1963, p. 136, dove
viene specificato come il principio fosse applicato nella tradizione della consumptio per litis contestationes.
La litis contestatio, che si perfezionava quando le parti tra le quali pendeva una controversia si accordavano
circa la definizione degli elementi della lite, comportava l’instaurazione di un rapporto processuale tra le
parti stesse. Conclusa la litis contestatio, dunque, l’azione era consumata, con la conseguenza che le parti
non potevano riutilizzare una seconda volta la stessa formula per promuovere una nuova azione.
4
ULPIANO, Digesto, 48.2.7.2; N.d.R. traduzione a cura dell’autrice: “il procuratore non deve permettere
che lo stesso soggetto sia accusato per i medesimi crimini dai quali è stato prosciolto”.
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Non manca tuttavia chi rinviene l’origine del principio in esame nel diritto dell’antica
Grecia, riconoscendo in passi di Platone e Demostene le tracce di un analogo principio
caratterizzante il processo attico
5
.
Nell’orazione contro Leptine, infatti, Demostene ebbe modo di scrivere: “Le leggi
non permettono che cause private, rendiconti, cause di eredità e simili siano intentati
due volte riguardo alla stessa questione e contro lo stessa persona”
6
.
D’altronde i legami tra diritto romano e diritto dell’antica Grecia si collocano in una
prospettiva più ampia rispetto a quella in esame: basti ricordare il contributo di
Ermodoro di Efeso, giurista greco chiamato ad illustrare il sistema legislativo di Atene
ai decemviri che avrebbero poi redatto le XII Tavole (451 a.C.)
7
.
In forza del notorio rapporto di amicizia e stima che legava Ermodoro ad Eraclito
8
,
si potrebbe pensare che la teoria secondo cui “tutto scorre, non ci si può immergere
due volte nello stesso fiume” sia stata traslata nell’ambito dei rapporti giuridici: la
reiterazione di un processo nei confronti del medesimo soggetto a fronte della stessa
fattispecie sarebbe, per sua stessa natura, in contrasto con la regola universale del
πάντα ῥεῖ.
9
La trasmigrazione all’interno del mondo latino dei principali elementi fondanti il
pensiero filosofico greco si deve ad uno dei più importanti uomini politici romani del
I secolo a.C.: Marco Tullio Cicerone.
5
M. KOSTOVA, professoressa e ricercatrice in morfologia latina e diritto romano presso il Dipartimento di
Filologia Classica e Moderna, Università di Sofia, in “Ne /non bis in idem. Origini del principio”, 2013,
consultabile in www.dirittoestoria.it.
6
DEMOSTENE, Conto Leptine, punto 147; così recita il testo originale: οἱ νόμοι δ' οὐκ ἐῶσι δὶς πρὸς τὸν
αὐτὸν περὶ τῶν αὐτῶν οὔτε δίκας οὔτ' εὐθύνας οὔτε διαδικασίαν οὔτ' ἄλλο τοιοῦτ' οὐδὲν εἶναι (N.d.R.:
traduzione a cura dell’autrice).
7
Secondo lo storico italiano Lorenzo Pignotti (1739-1812), fu Ermodoro di Efeso, in seguito all’esilio dalla
penisola ellenica ad aver comunicato “le sue cognizioni ai legislatori di Roma”; Storia della Toscana sino
al Principato, con diversi saggi sulle scienze, lettere e arti, volume 2, Firenze, 182, pag. 285.
8
E’ famosa l’invettiva lanciata da Eraclito contro i cittadini di Efeso che cacciarono Ermodoro dalla città,
che aveva tentato di dare nuove norme alla città: “Gli Efesini, dai giovani in su, dovrebbero tutti impiccarsi
per quello che essi meritano e lasciare il governo della città ai bambini. Essi hanno cacciato Ermodoro,
l’uomo da cui potevano trarre maggior giovamento”; D. KRANZ, ERACLITO, Frammenti, Bompiani, 2006,
Frammento nr. 121.
9
Enunciato con cui gli eraclitei esprimono l’eterno divenire della realtà, paragonando quest’ultima ad un
fiume che solo apparentemente rimane uno e identico, ma che in effetti costantemente ed incessantemente
muta e si rinnova, trasformandosi in ogni istante, cosicché non è possibile tuffarsi in esso più di una volta,
perché la seconda, a rigor del vero, non è lo stesso fiume della prima. Questa concezione costituisce
l’antitesi di quella dell’assoluta eterna unità ed immutabilità dell’essere, affermata dalla scuola eleatica; N.
ABBAGNANO G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Dalle origini ad Aristotele, Volume I, Milano, 2012,
pp. 35-38.
14
Il famoso oratore di Arpino si impegnò con costanza per la diffusione della filosofia
greca a Roma, ritenendo la sua conoscenza di fondamentale importanza per la
formazione della classe dirigente romana.
A Cicerone dobbiamo non solo l’invenzione del linguaggio filosofico latino, ma
anche la conoscenza della filosofia greca, giacché, per molto tempo, le opere
ciceroniane furono le uniche fonti disponibili per la sua divulgazione.
La filosofia greca, in una forma adattata alla mentalità latina, diventò così un elemento
fondamentale della cultura romana. I romani, infatti, scelsero dalla filosofia greca gli
elementi che meglio si adattavano alla loro mentalità, fondendoli in un unico pensiero,
in forza di quella concezione unitaria meglio nota come Eclettismo.
Una traccia “per tabulas” del passaggio al mondo latino del pensiero di Eraclito e del
fatto che Cicerone conoscesse bene Ermodoro è rinvenibile nelle “Tusculanae
disputationes”
10
, alla luce del quale si riesce a meglio comprendere l’origine ed il
significato della frase ciceroniana contenuta nell’orazione “Pro Sulla”
11
: “la
stabilità di un sistema politico dipende dall’osservanza soprattutto delle sentenze.”
12
L’interpretazione di questa frase, secondo la lettura proposta dal romanista Matteo
Marrone, è appunto nel senso che la stabilità di un sistema politico dipende soprattutto
dall’osservanza delle sentenze e dal loro effetto positivo, ossia “stabilizzante”,
derivante nel contesto della convivenza civile tra i consociati dal rispetto della “cosa
giudicata” che, appunto, garantisce ad ogni cittadino la certezza di non poter essere
giudicato una seconda volta in relazione a fatti per i quali è già stato sottoposto a
giudizio conclusosi con sentenza divenuta definitiva
13
.
Alla luce di tali premesse, pare fondato sostenere, che l’applicazione specifica al
contesto giuridico della più generale idea filosofica del “tutto scorre”, originariamente
formulata in Grecia, sia avvenuta appunto allorquando tale principio filosofico,
pervenuto al mondo romano, ivi assunse autonoma e distinta accezione giuridica,
assurgendo al ruolo dell’istituto tipico che ancora oggi identifichiamo mediante il
sintagma ne bis in idem
14
.
10
CICERO, Tusculanae Disputationes, 5.36
11
CICERO, Pro Sulla, 63, “Status enim reipublicae maxime iudicatis rebus continetur”.
12
A tal proposito si rimanda, per ragioni di approfondimento, al volume di L. VACCA (a cura di), Diritto
romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo, Padova, 2008
13
Cfr. M. MARRONE, Riflessioni in tema di giudicati: l’autorità del giudicato e Cicerone sulla cosiddetta
funzione positiva dell’exceptio rei iudicatae, in L. VACCA (a cura di) Diritto Romano, cit., pp. 61-80.
14
Si veda per ulteriori informazioni la rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana
Diritto e storia, vol. 11-2013, a cura di M. KOSTOVA, in “Ne /non bis in idem. Origini del principio”.