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INTRODUZIONE:
Questa tesi nasce dalla grande passione che ho per il montaggio, in particolare quello di
Thelma Schoonmaker, e soprattutto dalla voglia di sollevare una questione alquanto spinosa e
provocatoria: la considerazione del montatore come quinto autore di un film al fianco del
regista, del soggettista, dello sceneggiatore e dell’autore delle musiche appositamente create, i
quali – secondo gli articoli 44-50 della Legge sui Diritti d’Autore – costituiscono i quattro
autori di un’opera cinematografica.
Il discorso è suddiviso in quattro capitoli. Il primo ha come focus la New Hollywood, a
partire dalla definizione e dall’analisi del termine, nonché la sua collocazione storica e sociale.
Infatti, come vedremo in modo più approfondito nel capitolo, la New Hollywood è considerata
una fase di rottura fondamentale nella storia del cinema, la cui data di nascita è dubbia e
sembra collocarsi tra la fine degli anni ‘60 e la fine degli anni ‘70, con l’uscita nelle sale dei
film: The Graduate (Il laureato, Mike Nichols, 1968), Bonnie and Clyde (Gangster Story,
Arthur Penn, 1967) ed Easy Rider (Easy Rider - Libertà e paura, Dennis Hopper, 1969). Da
qui l’attenzione si concentra sull’analisi e il confronto delle posizioni teoriche e critiche
sostenute da diversi ed illustri studiosi di cinema, quali ad esempio Carlo Altinier, Giaime
Alonge, Vincenzo Buccheri, Giulia Carluccio, Geoff King e Simone Emiliani. Dalla questione
etimologica si sviluppa l’analisi del contesto storico, politico e sociale degli anni Cinquanta, in
quanto proprio in questo periodo inizia ad affermarsi un cospicuo filone di romanzi, canzoni e
film incentrati sulle vite, i desideri e le abitudini degli adolescenti. Questo nuovo e
rivoluzionario interesse mostra l’esistenza di un gran numero di ragazzi e ragazze delusi e
annoiati, che vogliono allontanarsi dalla loro quotidianità piena di perbenismi e regole imposte
dai genitori e dalle istituzioni. L’analisi della storia e della cultura degli anni ’50 prepara e
preannuncia l’analisi degli avvenimenti sconvolgenti degli anni ’60-’70, come le contestazioni
giovanili (1968), lo scoppio della guerra in Vietnam (1955), la costruzione del muro di Berlino
(1961), la Guerra Fredda, gli omicidi di John F. Kennedy (1963), Martin Luther King (1968) e
lo scandalo Watergate (1972), e alle loro ripercussioni nelle radici del cosiddetto American
Dream, che scomparve del tutto con la morte del presidente Kennedy. L’analisi del periodo
prende in considerazione non solo gli eventi storici e politici, ma anche le loro ripercussioni
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nella vita delle persone e soprattutto nell’affermazione della New Hollywood. Questo perché i
registi di questa fase cinematografica non hanno fatto altro che mettere in scena tutto quello
che viveva intorno a loro. Negli anni della New Hollywood si respirava nell’aria un clima di
forti tensioni non solo per quanto riguarda la politica estera, ma anche e soprattutto per quella
interna: era, infatti, il periodo in cui ancora gli afroamericani erano costretti ad una
segregazione che li privava della loro dignità; in cui ancora c’erano locali, autobus, scuole,
bagni pubblici distinti per le persone di colore, considerate all’epoca di serie B. Di
conseguenza l’analisi del periodo mette in evidenza quanto un’opera, o una corrente artistica
in generale, non possa essere considerata a prescindere dal periodo storico-politico-culturale in
cui nasce e si sviluppa. Per non parlare della crisi finanziaria del sistema di produzione
cinematografica, meglio conosciuto come studio system, che ha investito Hollywood all’inizio
degli anni Sessanta e che ha prodotto una serie di cambiamenti; primo fra tutti quello che
riguarda i registi e l’abitudine, ancora odierna, di etichettare i film in base al loro nome, con
frasi quali “Un film di…, una produzione di…, un lavoro di…, dai creatori di…”. Un altro
cambiamento, altrettanto importante, è stato quello degli attori che ha segnato l’avvento di
interpreti maschili molto diversi dallo star system degli anni precedenti, poiché questi ora
rispecchiavano l’uomo qualunque, nei panni di personaggi problematici svolgendo una vita
normale e finendo nelle difficoltà delle persone comuni che li vedevano sul grande schermo;
mentre le donne iniziarono ad interpretare ruoli sempre più forti e decisivi.
Nel secondo capitolo si analizza la figura del regista, a partire dalla definizione di regia
per arrivare alla teoria degli auteurs. Come per ogni inizio capitolo, il discorso prende il via
con il tentativo di fornire una definizione di regia oltre che una spiegazione del lavoro svolto
dal regista; questo perché, pur essendo un lavoro estremamente ammirato e considerato come
il più importante all’interno di un film, è decisamente poco conosciuto nello specifico. Per
spiegare la grande difficoltà che si riscontra nella definizione di questa professione, ho deciso
di riportare una breve storia della regia, distinguendo la storia in 5 fasi che coprono un periodo
vasto quasi cento anni: a partire dalla proto-regia (anni 1896-1914) fino ad arrivare al cinema
post-moderno (1970-1995). Dopo aver passato in rassegna le numerose definizioni di regia e
di regista che si sono succedute nel corso dei decenni, si passa all’analisi specifica della regia
degli anni ’50 e poi della New Hollywood. Questo perché da quel periodo in poi il rapporto tra
regista e competenze tecniche inizia a rovesciarsi completamente rispetto alla situazione del
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cinema muto. Infatti, se alle origini le scoperte tecniche dipendevano direttamente da chi
realizzava i film, negli anni ‘50 la tecnologia si sviluppa in modo più autonomo e
indipendente, determinando un nuovo terreno per il lavoro creativo dei cineasti. Da qui si
passa all’analisi del cambiamento della figura del regista durante la New Hollywood, che –
come anticipato nel primo capitolo – inizia a ricoprire un ruolo sempre più importante.
Un’altra loro interessante caratteristica è il fatto di avere alle spalle una conoscenza
universitaria del cinema, che ha permesso loro di rinnovare il cinema statunitense facendo
convergere sia influenze del cinema classico hollywoodiano, sia novità linguistico-espressive
del cinema europeo degli anni ‘50-’60 quali il Neorealismo italiano, la Nouvelle Vague
francese e il Free Cinema britannico. L’influenza europea sul cinema di questo periodo viene
analizzata in profondità, nel corso del capitolo, poiché costituisce uno dei punti cardine
dell’estetica cinematografica della New Hollywood, dovuta senz’altro all’arrivo in America di
registi europei che tra i due conflitti mondiali sono stati costretti a fuggire dalla loro patria.
Dopo questa attenta analisi, viene delineata la famosa teoria dei politique des auteurs elaborata
dai critici dei «Cahiers du cinéma», dove l’uso del termine auteur intendeva sottolineare la
specificità del lavoro filmico contro ogni forma di sottomissione alle altre forme espressive.
Inevitabile porre l’accento su questa teoria dato che essa ha sollevato una questione importante
circa la figura sociale del regista, il suo ruolo nell’industria cinematografica e il modo in cui
pubblico e critica hanno iniziato a guardare, e guardano tutt’ora, questa professione.
Parallelamente alla politique des auteurs viene analizzata la auteur theory del critico
americano Andrew Sarris, il cui fine era l’indagine della visione autoriale che realizza nel film
un significato interiore attribuibile all’intenzione del regista stesso.
Il terzo capitolo costituisce il centro nevralgico della tesi, nonché del mio interesse, che
vede protagonista il montatore e l’analisi della sua figura nel corso della storia del cinema, a
partire dalla definizione di montaggio – e la distinzione dei termini editing, cutting e montage
– per arrivare alla provocatoria questione del montatore come nuovo autore di un film.
Similmente a quanto eseguito per il capitolo dedicato alla regia, in questo capitolo il discorso
inizia con la considerazione del montaggio come arte invisibile, in grado di creare senso e
significato, oltre alla possibilità di essere considerato una forma di comunicazione – al pari
della lingua parlata – con tanto di regole e convenzioni, al di là della semplicistica e ordinaria
definizione di montaggio quale “arte del taglio e cucito”. Come per la regia, anche in questo
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caso il concetto è tanto interessante quanto complesso e ambiguo da definire, e proprio per
questo motivo sono riportate e messe a confronto le diverse visioni di studiosi e professionisti
del settore, quali Vincent Amiel, André Bazin, Christopher J. Bowen, James Clark, Diego
Cassani, Giuseppe Chiaramonte, Christian Metz, Walter Murch, Gianni Rondolino, Roy
Thompson, Dario Tomasi e Federico Vitella. Da alcuni di questi studiosi e professionisti
emerge un elemento che costituisce uno dei punti cardine della mia analisi: l’importanza del
rapporto tra regista-montatore, in particolare il grande esponente della Nouvelle Vague Jean-
Luc Godard sosteneva che il montaggio fosse prima di tutto la chiave della regia, oltre che
considerare assolutamente impossibile la separazione dell’uno dall’altra senza danno. Questo
perché il montaggio è in grado di far individuare uno stile di regia, al di là dei contenuti e della
vicenda narrata, infatti spesso i registi amano lavorare sempre con lo stesso montatore, come
per le coppie Martin Scorsese-Thelma Schoonmaker, Luchino Visconti-Mario Serandrei,
Woody Allen-Susan Morse, François Truffaut-Martine Barraqué e moltissimi altri. Subito
dopo il binomio regia-montaggio, si passa all’analisi specifica della figura del montatore,
conosciuto come colui/colei che plasma l’esperienza visiva per gli spettatori, o la persona che
capace di cogliere e creare connessioni inedite tra le diverse inquadrature; e proprio da questa
analisi si sviluppa la proposta di considerare il montatore come uno degli autori del film. La
premessa alla base di questa tesi è la constatazione del fatto che un montatore deve essere
dotato di grande creatività, sensibilità, musicalità e senso del ritmo, oltre che di grandi abilità
tecniche. È più volte messo in evidenza quanto egli non debba essere considerato un semplice
tecnico, poiché se due montatori decidessero di realizzare un video utilizzando lo stesso
materiale girato, quel che ne uscirebbe fuori sarebbero due opere diverse; ciò dimostra la
necessità di essere molto creativi e avere gran senso della narrazione, perché la tecnica di per
sé non è sufficiente, altrimenti i due montatori sarebbero in grado di realizzare lo stesso film.
Senz’altro in tal senso ha fatto la differenza il progresso tecnologico, quindi il passaggio dal
taglio della pellicola al mondo del digitale. Proprio collegato a questo sviluppo tecnologico
della tecnica di montaggio, nel corso dell’ultima parte del capitolo, viene affrontata una parte
della storia del montaggio spesso trascurata o almeno ancora poco conosciuta, ovvero la
presenza quasi esclusiva delle donne al montaggio nel primo periodo della storia, circa anni
’20-’30, poiché era considerato umile, noioso e manuale poiché simile all’atto del cucire,
finché con il passaggio del cinema al sonoro sono state piano piano sostituite dagli uomini.
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Dopodiché sono prese in analisi le tecniche innovative di editing messe in atto durante la New
Hollywood, o come le definisce Federico Vitella le “sgrammaticature”, e la discussione tra
continuità e discontinuità del montaggio in questo periodo: confrontando le posizioni da una
parte di studiosi come Bordwell e Thompson, che sostengono la continuità; dall’altra la
posizione di studiosi come Thomas Elsaesser, che sostengono la discontinuità.
Nel quarto ed ultimo capitolo l’analisi si sofferma sulla figura della montatrice Thelma
Schoonmaker, nonché sulle sue tecniche di montaggio incredibili e innovative, come ad
esempio il fermo-immagine per sottolineare un’azione, l’uso sconvolgente della dissolvenza, i
jump cuts disorientanti e l’uso del ralenti per dare tempo ed importanza alla narrazione.
Dopodiché l’analisi passa al regista Martin Scorsese, al suo stile registico, alla sua origine
italo-americana e l’influenza che quest’ultima ha avuto su di lui e sui film. Infine, la tesi si
conclude con i lavori realizzati dalla Schoonmaker al di fuori di Scorsese, quali: Letters From
Baghdad (Zeva Oelbaum e Sabine Krayenbüh, 2016); Bombay Velvet (Anurag Kashyap,
2015), Learning to Drive (Guida per felicità, Isabel Coixet, 2014) e Grace of my heart (La
grazia del mio cuore, Allison Anders, 1996).
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CAPITOLO PRIMO:
1.1 Definizione e caratteristiche della New Hollywood
Quando si affronta un discorso sul cinema statunitense è facile prendere in considerazione solo
alcune figure dell’intero gruppo di lavoratori che partecipa alla realizzazione di un film, come
ad esempio gli attori – conosciuti anche come star o divi – quali Leonardo di Caprio, Brad
Pitt, Meryl Streep e Julia Roberts, o a registi straordinari come Steven Spielberg, Stanley
Kubrick, George Lucas e Martin Scorsese. Non viene ricordata e spesso riconosciuta
l’importanza di altre figure come le case di produzione e/o distribuzione, montatori,
scenografi, costumisti, o gli stessi sceneggiatori da cui tutto ha origine. In questo capitolo si
tenterà di affrontare un discorso che abbracci lo stile filmico, il quadro industriale e il contesto
storico-sociale di una fase complessa e fiorente del cinema americano degli anni ‘60-‘70: la
cosiddetta New Hollywood.
All’interno della storia del cinema sono state numerose le fasi di rottura, alle quali si
può attribuire il merito di aver provocato un importante rinnovamento del linguaggio
tradizionale. Se volessimo individuarne tre potremmo dire che il primo sia costituito dalla fase
di passaggio dal cinema muto a quello sonoro con il film The Jazz Singer (Il cantante Jazz,
Alan Crosland, 1927). Questo passaggio comportò una serie di problemi tecnici, infatti non
esistevano microfoni direzionali, né leggeri e pratici supporti su cui collocarli; non vi era la
possibilità di effettuare il missaggio, ovvero l’unione di diverse tracce audio registrate
separatamente in un’unica traccia; le macchine da presa dovevano essere chiuse in pesanti
cabine insonorizzate, affinché il rumore da esse prodotto non venisse registrato nel film; gli
attori erano costretti a muoversi lentamente e a recitare scandendo chiaramente ogni sillaba,
mentre fino a quel momento erano stati abituati a muoversi in modo teatrale, contando su una
gestualità molto marcata
1
.
Il secondo è riconoscibile nell’esplosione negli anni Quaranta del genere noir che,
secondo la critica cinematografica, è caratterizzato dalla presenza di scene violente, trame
1
Cfr. Piergiorgio Mariniello, Breve storia del cinema – capitolo 5 paragrafo 1: Il passaggio al sonoro, reperibile
al link, http://www.brevestoriadelcinema.org/storia-del-cinema/05-gli-anni-trenta-e-la-seconda-guerra-
mondiale/05-1-il-passaggio-al-sonoro/, ultimo accesso giugno 2017
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delittuose ed atmosfere inquietanti
2
. Detto ciò, bisogna far presente però che il noir più che un
genere costituisce una tendenza dell’immaginario, uno stile, la cui data di nascita è considerata
il 1940-1941, anno di produzione del film The Maltese Falcon (Il mistero del falco, John
Huston), e la cui data di fine coincide con l’uscita nelle sale di Touch of Evil (L’infernale
Quinlan, Orson Welles, 1958). La nascita del noir in America è collegata al cospicuo numero
di cineasti europei che – tra le due guerre mondiali – emigrarono ad Hollywood e che
costituirono una tappa fondamentale nello sviluppo non solo del cinema statunitense ma anche
nella nascita del noir; il quale si formò proprio dalla mescolanza tra l’espressionismo tedesco e
il tipico realismo delle produzioni americane. Di conseguenza è chiaro che il noir sia nato
avendo in sé l’uso delle riprese inusuali e oblique, le scenografie distorte e oniriche, la
concretizzazione visiva degli incubi dei protagonisti, ma anche la ricerca di una
rappresentazione realistica del crimine come avveniva nei romanzi hard-boiled di Dashiell
Hammett e Raymond Chandler
3
. Il noir aveva presente l’esperienza del cinema gangster degli
anni Trenta e della sua visione del criminale, la cui complessità psicologica aveva favorito il
grande interesse del pubblico; ma a causa delle censure imposte dal Codice Hays i gangster-
movie finirono per ridursi al semplicistico scontro tra male (il criminale) e il bene (il
poliziotto), senza più quelle sfumature di grigio che ne avevano decretato il successo
4
. Così il
genere noir negli anni Quaranta ereditò la sfida di rendere il genere poliziesco di nuovo
interessante, nonostante la censura, e grazie alle influenze tedesche emigrate e delle
produzioni horror della Universal fu possibile rappresentare «le paure psicologiche, i drammi
sociali e lo stato di smarrimento che tutta l’America provava dopo la crisi economica del ‘29,
la nascita dei fascismi in Europa e l’approssimarsi dell’entrata in guerra»
5
.
2
Cfr. Fabio Giovannini, Noir, Enciclopedia del Cinema (2004), reperibile al link
https://www.treccani.it/enciclopedia/noir_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/
3
Cfr. Carlo Altinier e Simone Emiliani, Fughe da Hollywood: i dieci anni che sconvolsero il cinema americano,
Le Mani-Microart’S, Recco, 2014, pp. 110-111
4
Cfr. http://panizzi.comune.re.it/Sezione.jsp?idSezione=2504
5
Ibidem