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Nota introduttiva
È una considerazione elementare che in una ricerca quello che eventualmente
si troverà non possa essere noto a priori. Per questo motivo, prima di dare una
descrizione degli argomenti trattati capitolo per capitolo, vorrei soffermarmi su alcuni
dei principali passaggi attraverso i quali si è determinata la direzione del lavoro
1
.
All’inizio c’era un interesse per la metafora che, sebbene fortemente ridimensionato
nel seguito, ha continuato a sussistere per tutto il lavoro. Il seguito si è articolato in
quattro momenti: la possibilità di dare una spiegazione psicoanalitica del fenomeno
metaforico; l’allargamento della discussione all’ambito del Witz, inteso sia come
motto (configurazione linguistica) che come arguzia (facoltà mentale); la relazione
che dal Witz viene a stabilirsi con lo sfondo metapsicologico freudiano, in particolare
attraverso la lettura de La negazione e i rimandi agli scritti degli anni che precedettero
l’autoanalisi; l’indagine etimologica - e storica - sul termine (Witz). Da tutto questo - e
in particolare dal terzo momento - è derivata un’ipotesi secondo la quale una
conoscenza del dinamismo inconscio psicoanalitico potrebbe offrire degli spunti
attraverso i quali dare un contributo allo studio del linguaggio.
In origine, come accennavo, il problema riguardava l’ambito della metafora.
Il dibattito, che su tale questione si alimentava dai contributi di autori come Black,
Richards, Ricoeur, Hesse, Rorty, e altri, verteva sul problema del significato di
un’asserzione metaforica. Oltre a questo, tuttavia, mi era sembrato interessante
approfondire la considerazione sul prodursi di una metafora nella mente di chi la
1
Un atteggiamento di questo genere denota un’impostazione metodologica in qualche modo
assimilabile a quella espressa in P. Feyerabend, Contro il metodo (1975), trad. it. Feltrinelli,
Milano 1991. Un tale atteggiamento è riscontrabile, ad esempio, nel fatto che una serie di
considerazioni che hanno assunto una fondamentale importanza – mi riferisco all’indagine
etimologica sul termine Witz – sono probabilmente il frutto di un mio errore di valutazione. In
sostanza, dopo una prima ricognizione sul Witz mi è sembrato che potesse rivelarsi utile chiarire
quell’aspetto che, nel secondo capitolo, chiameremo il “doppio statuto” del termine, ovvero il fatto
che il vocabolo Witz è traducibile sia come “motto” (inteso come configurazione linguistica) che
come “arguzia” (inteso come la facoltà mentale che tale configurazione produce). Ebbene,
l’indagine etimologica che da qui muoveva mi ha permesso di fare alcune considerazioni che si
sono poi rivelate determinanti allo sviluppo del discorso. Ciò sembrerebbe in qualche modo
dimostrare che, nel ricercare, “tutto va bene”. In conclusione vorrei riportare un brano da un
documento cinematografico che mi è sembrato “sintomatico” di un tale atteggiamento. In questa
commedia sul genere “assurdo”, dal titolo The bed sitting room (Inghilterra, 1980), durante
un’indagine, “il sergente”, rivolto agli astanti, afferma: “E poi - se l’Ispettore mi consente -
staremmo anche cercando un baule e … quando lo avremo trovato, sapremo perché lo stavamo
cercando”.
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proferisce. Questo aspetto, che non dava l’impressione di esser stato preso in
considerazione, sembrava che in qualche modo avrebbe potuto fornire elementi utili a
prendere posizione in tale dibattito. Un’attenzione al meccanismo attraverso il quale si
produce una metafora, come vedremo, era stata presa in considerazione da Max Black,
oltre che da Richards e da Goodman; autori come Rorty e Ricoeur, al contrario, una
tale “preoccupazione” sembravano averla programmaticamente esclusa. Il primo di
questi autori è stato considerato più approfonditamente; la sua indagine, tuttavia,
aveva in generale altri obiettivi e tali considerazioni avevano essenzialmente il
carattere di uno spunto da approfondire
1
.
La psicoanalisi sembrava invece poter dare una risposta. In una sezione de
L’interpretazione dei sogni, dove la discussione sul lavoro onirico prendeva in
considerazione i modi attraverso i quali il sogno riesce a rappresentare le relazioni
esistenti tra i propri pensieri, si trovava “descritta” l’origine psicologica del
metaforizzare. In quella che Fechner aveva chiamato “altra scena”, e che con il lavoro
di Freud veniva a caratterizzarsi come dominata da quella particolare attività psichica
nota come “processo primario”, la relazione della somiglianza, del “come se”, ovvero
uno dei “capisaldi del sogno”, si faceva esempio della genesi psicologica di una
1
Nel dibattito sul problema del significato di un’asserzione metaforica Black sostiene che essa
abbia valore cognitivo – sebbene ritenga fuorviante attribuirgli un valore di verità. Ora, la sua
riflessione riguarda la “grammatica logica della metafora”, il tentativo di “rendere più chiari certi
usi della parola metafora” e in definitiva è rivolta ‹‹verso gli “aspetti cognitivi” della metafora […]
e verso il loro potere di offrire, in modo unico e insostituibile, intuizioni su “come sono le cose”››
(M. Black, Modelli archetipi metafore, trad. it. Pratiche Editrice, Parma 1983, p. 100). Per quanto
riguarda il “pensare in metafore”, come vedremo, Black manifesta tuttavia la mancanza di un
adeguato quadro psicologico di riferimento. Anche Richards si interroga sul meccanismo psichico
attraverso il quale si produce una tale asserzione: crede che possa rivelarsi fruttuoso un incontro tra
psicologia e retorica, sebbene resti molto dalla parte di quest’ultima, e dà anche una lettura
dell’azione esercitata dalla “fissazione edipica” (I. A. Richards, Filosofia della retorica, trad. it.
Feltrinelli, Milano 1979, p. 126 sgg.). La Metafora viva, di Ricoeur (trad. it. Jaca Book, Milano
1976), si presta allo sviluppo di altre considerazioni. Da un lato possiamo istituire un confronto tra
la sua affermazione ‹‹l’“è” metaforico significa, ad un tempo, “non è” ed “è come”›› (p. 5) e lo
studio freudiano dei “mezzi di raffigurazione” che in particolare riguarda la concezione della
negazione e il ruolo della somiglianza. Anche il tema della referenza sdoppiata può collegarsi a
diversi punti dell'indagine freudiana (p. 295 sgg.). Il problema è che quella lettura del fenomeno è
orientata verso una discussione sulla riflessione metafisica da Platone a Heidegger, strada questa
che si muove in direzione contraria al presente lavoro. Infine Rorty, l’animo “contrario”. Dallo
spirito che mi auguro emerga dalla ricerca, l’insistenza su espressioni come “estinzione nella
letteralità”, o sul dover “distruggere la metafora per pervenire a una teoria soddisfacente di come
funziona”, sul suo cominciare a “morire” e il divenire “stantia” (R. Rorty, Suoni non familiari: la
Hesse e Davidson sulla metafora, in Scritti filosofici, trad. it. Laterza, Bari 1993, p. 225),
sembreranno sintomo di una concezione che vorrei poter chiamare “non etica” di questi
significanti.
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metafora
1
. Con ciò si poteva spiegare il prodursi di un asserto metaforico attraverso il
dinamismo inconscio psicoanalitico e, per dirla con le parole di un autore che, quanto
al significato di un’asserzione metaforica, si era peraltro mostrato assai “cauto”,
potremmo quindi riassumere questa prima parte della ricerca in questi termini: ‹‹la
metafora è il lavoro onirico del linguaggio››
2
.
A questo punto è sembrato in un certo senso d'obbligo passare attraverso una
lettura de Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. Il rapporto tra motto e
metafora si è rivelato fin da subito: la metafora si produce come una freie Einfall,
come un’intuizione; essa è, in altri termini, una “formazione arguta”. D’altronde, non
tutti i motti si realizzano per mezzo di metafore e anzi, come vedremo, esistono altri
tipi di “figurazioni” – si pensi alla metonimia, all’ironia e più in generale all’ambito
delle “figurazioni” di cui si è occupata, storicamente, la retorica – che, pur non
rientrando nell’ambito della metafora, possono nondimeno venir ricondotti alla
medesima origine e quindi spiegati, nel loro meccanismo produttivo, con riferimento
alla concezione freudiana, ovvero al meccanismo che regola la produzione dei sintomi
nevrotici, dei sogni e dei lapsus.
In questa occasione si è prodotto un allargamento dell’ambito di indagine e
con esso una radicale reimpostazione del lavoro: da un lato, Il motto di spirito, in
forza dei molti collegamenti con la Interpretazione dei sogni e con gli altri scritti di
metapsicologia, sembrava permettere al discorso di estendersi sia verso l’interno che
verso l’esterno della psicoanalisi. Dall’altro, ho ritenuto di poter approfondire il
discorso attraverso un’indagine inizialmente etimologica (e successivamente storica)
del termine Witz. Per questi motivi l’opera sui motti e sull’arguzia ha finito per porsi
come nuovo centro gravitazionale del lavoro.
Per quanto riguarda il primo punto, i collegamenti che partivano da Il motto
di spirito conducevano a loro volta in più direzioni: da un lato, l’esame delle tecniche
del motto sembrava porsi in relazione con quello dei mezzi di raffigurazione del
sogno; da ciò scaturiva l’idea del legame di questi mezzi e di queste tecniche con il
1
S. Freud, Interpretazione dei sogni, in Opere di Sigmund Freud, trad. it. Boringhieri, Torino
1980, (nel seguito OSF), vol. 3, p. 294.
2
L’espressione, che è di D. Davidson e compare nel suo What metaphors mean, viene discussa, in
senso “rigorosamente metaforico”, da Rorty nel suo articolo Suoni non familiari…, cit., p. 226. Il
senso in cui utilizzo questa affermazione corrisponde, al contrario, alla considerazione della sua
“letteralità”. Per uscire totalmente da qualsiasi definizione metaforica dovremmo dire che la
metafora è il processo primario del linguaggio e, più in particolare, che essa è il lavoro arguto del
linguaggio. Da questo punto di vista alcune delle posizioni assunte da Rorty sono criticabili.
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linguaggio (e la sua origine). Da un altro si trovavano infatti molti riferimenti agli
scritti di metapsicologia del 1915 - e in particolare a Pulsioni e loro destini, a La
rimozione e a L’inconscio - e, oltre alle Precisazioni sui due principi dell’accadere
psichico (1911) e alla Nota sull’inconscio (1912), a L’Io e l’Es (1920) a La negazione
(1925) e da qui fino ad alcune delle lezioni della Introduzione alla psicoanalisi (1932)
e al Compendio di psicoanalisi (1938). Inoltre, la considerazione degli “intenti
dell’arguzia”, che come vedremo rende bene l’idea del diverso spessore di quest’opera
rispetto alla Psicopatologia della vita quotidiana, vedeva nascere quel riguardo per la
dimensione sociale, collettiva, che caratterizzerà quelle opere “sulla civiltà” alle quali
Freud si è dedicato, potremmo dire, nella seconda parte della sua attività. Infine, ne Il
motto di spirito si potevano rintracciare piuttosto agevolmente molti altri rimandi ad
ipotesi che risalgono agli anni che precedettero la nascita della psicoanalisi e in
particolare al Progetto di una psicologia (1895) e ad altri scritti del periodo che va dal
1890 al 1895.
In particolare, un momento chiave del lavoro è risultato dalla lettura de La
negazione. In questo scritto, attraverso spunti che da Il motto di spirito permettono di
richiamare alcune tesi che risalgono alla stesura del Progetto, troviamo chiaramente
formulata un’idea dell’origine psicologica della negazione, ovvero di quella
particolare “funzione del giudizio” che consente al pensiero “un primo grado di
indipendenza dal dominio di piacere”. In particolare, un’affermazione contenuta in
questo articolo sembrava porsi in collegamento con un’altra che era stata posta per la
prima volta nel libro sui motti: nel 1905, Freud aveva infatti scritto che ‹‹la rimozione
può ben essere descritta come il grado intermedio tra il riflesso di difesa e il giudizio
di condanna››
1
; venti anni più tardi troviamo l’idea che ‹‹la condanna è il sostituto
intellettuale della rimozione››
2
. In queste due affermazioni si vede operare quell’ottica
evoluzionista, che era già nota a Freud dal tempo degli studi sulle afasie (1891).
Quello che sembrava interessante era lo stretto legame concettuale tra le due
affermazioni: presupponendo che la prima “risposta” con cui l’individuo reagisce agli
stimoli dell’ambiente circostante fosse comunque il meccanismo di difesa (inteso,
come vedremo, come fuga dalla fonte o come allontanamento della stessa), si vedono
avvicendarsi la rimozione e il suo “sostituto intellettuale” – il giudizio di condanna.
Ora, sebbene in entrambi i casi si abbia a che fare con un’ottica “graduale” dello
1
S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, OSF, vol. 5, p. 156.
2
S. Freud, La negazione, OSF, vol. 10, p. 198.
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sviluppo delle funzioni intellettive, vorrei sottolineare che: 1) nel 1905 la rimozione è
descritta come il grado intermedio di un processo evolutivo che culmina nel giudizio
di condanna - per questo motivo essa è anteriore a quella Verneinung descritta in La
negazione, la cui essenza consiste appunto in tale giudizio; 2) nel brano del 1925 si
nota una focalizzazione sul momento successivo, posteriore: il giudizio di condanna
viene detto un “sostituto”, e per di più “intellettuale”. Quest’ultimo attributo merita
una breve considerazione: il “riflesso di difesa” rappresenta uno stadio iniziale che
riguarda il corpo; la stessa rimozione, che è un sostituto di quel riflesso, si pone
comunque a un livello che potremmo dire prelinguistico; infine, tale sostituto, nel
momento in cui si connota come verbale, ci conduce alla parola. Si è così stabilito il
legame tra “i primi e più antichi moti pulsionali primari”, e quindi la corporeità, il
comportamento, e le funzioni più evolute, come la parola e il linguaggio
1
.
Veniamo adesso alla seconda questione che è sorta dalla lettura de Il motto di
spirito. Lo studio etimologico sul significato del termine Witz si è posto come uno
studio delle trasformazioni che il significato di questo termine ha subìto nel tempo. Da
ciò è risultato che il problema del significato dei motti di spirito ha radici valutabili
dal punto di vista storico, delle culture, delle società. Per fare un esempio, si può
vedere come una stessa affermazione circa l’arguzia come “capacità di creare
somiglianze” sollevi reazioni diverse a seconda del periodo storico in cui viene
sostenuta: una questione è infatti se una tale posizione viene espressa, a metà
Ottocento, da Novalis; diverso è invece il caso se a farlo è un Black, nel XX secolo,
sotto il “potente imperio” del wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man
schweigen.
2
A quest’ultima riflessione ne segue un’altra circa la perdita del
riconoscimento di valore a facoltà mentali che, da questo momento in poi, verranno
collocate in quella che ormai può solo venir considerata una zona oscura delle nostre
conoscenze. Eppure, come vedremo nell’esame del termine Witz, questa facoltà – il
cui prodotto è, oggi, lo sberleffo – era in origine “l’intelligenza delle cose”, “il potere
dello spirito per antonomasia”.
In estrema sintesi, se all’inizio la metafora appariva letteralmente “il lavoro
onirico del linguaggio”, il passaggio per il Witz ha portato a questo argomento un
1
Il che richiama l’idea di Hannah Arendt secondo cui “la violenza è muta”: la violenza, come
azione fisica, corrisponde al lato corporeo; la parola, al contrario, è uno dei tratti distintivi della
“vita activa” (H. Arendt, Vita activa, trad. it. Bompiani, Milano 1988).
2
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. Einaudi, Torino 1989, p. 174. La
traduzione italiana (ivi, p. 175), recita: ‹‹Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere››.
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riscontro e una potente articolazione attraverso l’idea freudiana della connessione tra
lavoro arguto e lavoro onirico. Ora, se da un lato il lavoro fatto sulla metafora poteva
continuare a fornire degli esempi di come operi il lavoro dell’arguzia, dall’altro era
evidente che la spiegazione che si affacciava alla ricerca andava ben oltre tale ambito.
Stando a queste considerazioni, lo studio del sogno, che si pone a fondamento della
speculazione teorica psicoanalitica, verrebbe quindi a trovarsi come a metà strada tra
il sintomo nevrotico e il motto di spirito, rivelando così una nuova direttrice di
sviluppo alle indagini freudiane: da un lato la psicopatologia, dall’altro il linguaggio
1
.
Ora, sebbene qui non sia stato trattato molto in profondità, il discorso sul
lapsus
2
potrebbe esser ricondotto all'interno di quello sull'arguzia; l’atto mancato
sarebbe infatti qualcosa come un motto privo di intento (come accade nel motto
cosiddetto ingenuo), nel quale però a chi l’ascolta non sfugge il carico del quale poi si
libera con una risata (tale è peraltro l’ambito del lapsus e più in generale della gaffe).
Nel lapsus, la mancanza dell’intento (ma non necessariamente del conflitto psichico)
evidenzia una sorta di interferenza: la considerazione (psicologica) della superficie.
Come ha mostrato Timpanaro vi sono fenomeni, che potremmo dire di superficie,
quali banalizzazioni, polarizzazioni, inversioni, lectio facilior e difficilior e così via,
che contribuiscono a quell’aspetto di casualità che caratterizza il lapsus. Questo viene
dunque a configurarsi come il prodotto spurio di uno spirito – comunque Witz – in
qualche modo “distratto” e certamente non nelle condizioni più favorevoli al suo
dispiegarsi. Certo, è significativo che sia il sogno ad esser detto la “via regia” che
porta all’inconscio; d’altronde sembra poco verosimile immaginare Freud nel
1
La questione della “teoria della civiltà”, ulteriore sviluppo dell’opera di Freud, benché posta
problematicamente per la prima volta nel libro sui motti, si svilupperà all’interno di quella che
chiameremo la “direttrice psicopatologica”. Dallo studio (clinico, psicopatologico) dell’individuo
Freud passerà allo studio della civiltà e dunque dell’individuo “sociale”. In questo caso vedremo
che l’istanza individualizzante verrà a perdere di importanza – e con ciò anche buona parte del
senso di psicoanalisi come terapia – e ciò in favore di una più generale riflessione sui “mali della
civiltà”. Da questo punto vista, il linguaggio è rimasto assolutamente in disparte, dando ben più
che l’impressione che Freud non si fosse accorto dello spazio che da lì si apriva (o giudicandolo
troppo stretto per quelle che come vedremo erano le sue “ambizioni”). In effetti sono molte le
affermazioni dello stesso Freud, secondo le quali risulta assai chiaramente che tale studio non
aveva, ai suoi occhi, grande importanza.
2
Questo aspetto non è stato tematizzato se non nella misura in cui non poteva essere taciuto. Gli
spunti offerti dal testo di Timpanaro (S. Timpanaro, Il lapsus freudiano: psicanalisi e critica
testuale, Bollati Boringhieri, Torino 2002) consentono di portare una prima serie di “fenomeni di
superficie” nel campo di indagine. Inoltre, essi consentono di collegare le considerazioni che
stiamo facendo con un approccio “linguistico”.