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Introduzione
Ogni individuo vive immerso in una realtà che egli organizza a seconda della propria
immagine e somiglianza, e che spesso lo induce a credere di esercitarvi più o meno il
controllo. Frasi come “è tutto nelle tue mani”, o al contrario, “non puoi fare nulla per
cambiare le cose”, sono due estremi di un continuum il più delle volte distanti dalla realtà
obiettiva, e questo perché ogni assolutismo, di solito, seppur voglia avere la pretesa di
incarnare certezze e verità, è di fatto soltanto un modo per credere di avere il completo
controllo degli eventi o di non averne per nulla, e per quanto potrebbe rivelarsi
psicologicamente confortante o devastante, il più delle volte risulta fuorviante. Tra le
variabili che ci sfuggono di mano, ad esempio, e che esulano dal totale controllo
individuale, vi sono quelle che dipendono da contesti e fenomeni più ampi come quelli
sociali e di gruppo: volenti o nolenti si vive immersi in un macrosistema sociale, e sia
laddove ci si immerga completamente in virtù di una componente vulnerabile da
compensare, sia laddove se ne ritragga sperimentando nella marginalità vissuti di
solitudine e di rifiuto sociale, si rischia paradossalmente di aderire ad appartenenze non
necessariamente sane, ma per lo più estremiste e fanatiche. Una parte più o meno cospicua
dell’identità personale, infatti, constata di quella sociale. Ciò comporta delle implicazioni
sia individuali che sociali, che per quanto possano potenzialmente tradursi in risvolti sia
positivi che negativi, fungendo quindi sia da fattori protettivi che di rischio, il più delle
volte sfociano in competizioni, ostilità e conflitti tra gruppi. Considerando questi
fenomeni sociali come parte integrante della vita di ciascuno che in maniera anche
indiretta si interseca con quelle altrui, ed essendo alcuni tra questi fenomeni molto recenti
e attualissimi, ho sentito la curiosità di approfondire i processi e le motivazioni che li
compongono, poiché sarebbe davvero riduttivo escluderli eventualmente, dall’esperienza
(anche clinica) di un individuo. Mossa dalla curiosità instillata da dinamiche che
continuano e molto probabilmente continueranno ciclicamente a riproporsi nella storia
dell’umanità, seppur apparentemente attraverso espedienti differenti, ho deciso di
impegnarmi in questo percorso. È possibile che in questo particolare momento, la lettura
di questo elaborato, possa dar particolare eco a reazioni emotive delle più disparate.
Prenderne atto e comprendere, e però un aspetto molto importante dell’argomento, se non
altro proprio in virtù del fatto che si è umani. Esseri umani significa anche necessitare di
conoscenza, affinché non si incanali ciò che è intrinsecamente e naturalmente umano, in
qualcosa di potenzialmente pericoloso e disumano. La conoscenza è una arma a doppio
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taglio, essa può sconvolgere, ma è la chiave delle risorse in nostro potere: attraverso di
essa si organizzano cambiamenti propositivi, funzionali e strategici al miglioramento
dello status quo; la conoscenza stessa insegna che l’apprendimento è continuo, e per
contro, avere la presunzione di raggiungere certezze inoppugnabili se ne discosta da essa,
soprattutto in virtù della complessità; la conoscenza suggerisce che sia saggio non porsi
con arroganza e prevaricazione; è la conoscenza che ci permette di prendere atto dei nostri
stessi limiti e delle preziose risorse in nostro potere, ed è la conoscenza che permette di
comprendere meglio sé stessi e gli altri. Ciò ci è permesso a patto che si mantengano
intatte le facoltà di rimanere ricettivi, elastici e critici sul piano cognitivo, poiché la
conoscenza, più che dalle informazioni, è filtrata dall’elaborazione delle stesse. Le
conseguenze di una chiusura cognitiva conducono alla stagnazione della conoscenza,
preparano il terreno fertile a bias cognitivi e a credenze che, polarizzandosi sempre più,
allontanano la conoscenza da quelle che sono le realtà tangibili più plausibili. Per contro,
si incanala ogni credenza in atteggiamenti anche estremi e potenzialmente violenti, tipico
dei processi pregiudizievoli. Lasciare aperto il varco all’apprendimento e alla conoscenza
permette di accrescere costantemente, di migliorare sé stessi, e di riflesso anche quanto
ci circonda.
Mi auguro che questo lavoro possa catturare l’interesse di quanti vorranno leggerlo, ma
soprattutto, che possa lasciare tracce di amore, o volendolo definire in maniera meno
romantica e spirituale, tracce di competenza nell’approcciarsi al prossimo e ai fenomeni
sociali che ci accadono intorno e… dentro.
Ho sviluppato questo lavoro in tre capitoli, ciascuno dei quali organizzati secondo
peculiarità ben precise: nel primo si descrivono le teorie sulle quali si basa l’intero
approccio del lavoro che vado ad articolare, il secondo entra nel vivo dei fenomeni sociali
presi in analisi, il terzo prospetta strategie di intervento per scenari sociali a cui auspicare.
Il tutto viene discusso chiaramente aderendo alle evidenze che ci pervengono dalla
letteratura a disposizione.
Non mi resta che augurarvi una buona lettura e un buon cammino lungo il perpetuo
viaggio della conoscenza.
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COME NASCONO I CONFLITTI INTERGRUPPI
L’esistenza propedeutica di due o più gruppi, dove gli individui si percepiscono, e al
contempo percepiscono gli altri come membri di uno specifico gruppo piuttosto che di un
altro, è necessaria affinché i conflitti tra gruppi possano concretizzarsi e svilupparsi.
Veniamo quindi un attimo all’origine: come e perché si formano i gruppi?
Come suggeriva Bruner (1957; Brown, 2005), affinché il pensiero e la percezione siano
possibili, abbiamo bisogno di riferimenti e quindi di semplificare e di sistematizzare il
mondo in categorie. Si utilizzano processi simili a quelli euristici esattamente come
avviene di norma nel quotidiano in situazioni del tutto extra gruppali. In questa maniera
vengono organizzate le informazioni utili alla comprensione del mondo mentale e sociale
ottimizzando le risorse cognitive a disposizione. Questo processo è essenziale ed è alla
base delle dinamiche che andranno successivamente a instaurarsi intra e intergruppi e, in
stretto riferimento ad essi, il fenomeno viene definito come “categorizzazione sociale”.
Attraverso questo processo, le persone tendono ad organizzare sé stessi e gli altri, usando
le categorie che sono loro più immediatamente accessibili e più integrate con la situazione
di un preciso momento della vita, per lo più da combinazioni che emergono sia dalle
caratteristiche degli stimoli ambientali che dalla disposizione del soggetto in un preciso
momento di vita e contesto (Brown, 2005). Oltre a categorizzare gli altri e il mondo, in
realtà categorizziamo anche noi stessi, e questo è un punto importante dello sviluppo
dell’identità sociale. Tra i maggiori esponenti della categorizzazione sociale troviamo i
contributi di Turner e collaboratori (Turner et al., 1987), con la teoria della
categorizzazione del Sé, in inglese con l’acronimo di SCT (self-categorization theory).
Essi ci spiegano quanto questo processo sia fondamentalmente il frutto della
rappresentazione cognitiva di sé, a differenza della teoria dell’identità sociale (SIT) come
vedremo in seguito, che scaturisce invece proprio in seguito a una già avvenuta
categorizzazione, e quindi già dall’appartenenza ad uno specifico gruppo (o a specifici
gruppi). La SCT, quindi, è un processo primario squisitamente cognitivo che in pratica
tenta di spiegare come le persone concettualizzino sé stesse e gli altri come appartenenti
a specifiche categorie sociali. Mentre la SIT si focalizza sul ruolo dell’identità nei conflitti
e nell’armonia intergruppi, la SCT si focalizza sull’architettura social-cognitiva dei
processi dell’identità sociale (Abrams, 2010).
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La categorizzazione è fondamentalmente alla base della formazione dei gruppi, e sembri
addirittura avere delle componenti innate: basti pensare agli esperimenti dove essa viene
osservata anche nei bambini più piccoli (Brown, 2005).
La categorizzazione ha implicazioni importanti in riferimento ai conflitti sociali: essa è
causa diretta di stereotipi e pregiudizi, e inoltre, il semplice fatto di appartenere a uno
specifico gruppo, fosse anche per motivi banali, è già sufficiente a generare sia favoritismi
nei confronti dell’ingroup, sia discriminazioni nei confronti dell’outgroup. Questa
tendenza a preferire l’ingroup viene chiamata ingroup bias, e rappresenta una forma di
pregiudizio positivo verso l’ingroup (Brown, 2005).
A tal proposito è degna di nota ed è inequivocabilmente esplicativa la teoria dei gruppi
minimi di Tajfel di cui si discuterà in maniera più approfondita nel primo paragrafo di
questo capitolo. Vedremo come la categorizzazione sociale possa essere sufficiente per
generare discriminazione e conflitti intergruppi anche in assenza di conflitti di interessi o
risorse scarse (Hewstone & Stroebe 2004).
Non in ultimo, tra le più importanti funzioni della categorizzazione sociale, c’è quella di
rafforzare le differenze fra gruppi diversi e di appianare quelle all’interno di un gruppo,
così che possano distinguersi bene i membri di un gruppo dai non membri (Brown, 2005).
1.1. Confronto e identificazione sociale e di gruppo
Passiamo ora dall’organizzazione in categorie sociali alle dinamiche di confronto
intergruppo e quindi alla personale identificazione sociale con l’insieme dei membri
dell’ingroup.
Tajfel e colleghi (1978; Hewstone & Stroebe, 2004) in seguito agli studi di Rabbie e
Horwitz del 1969, ispirati a loro volta da Lewin (1948), svilupparono il concetto di
identità sociale a partire dal paradigma dei gruppi minimali. Essi poterono osservare, che
categorizzazioni del tutto arbitrarie (estrazioni a caso), banali (preferenza per Paul Klee
o per Vassilij Kandinsky), in completo anonimato, con nessuna interazione tra i membri
e nessun vantaggio personale materiale verso sé stessi (come, ad esempio, somme di
denaro), portavano gli individui a favorire a prescindere il proprio gruppo, agendo quindi
con indubbia evidenza in termini di appartenenza al gruppo. Questi risultati contrastavano
con il pensiero scientifico del tempo di Sherif (1967) di cui parleremo successivamente,
che vedeva il conflitto tra gruppi fondamentalmente come espressione di una
interdipendenza negativa: nel paradigma dei gruppi minimali, non vi era alcuna
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interdipendenza tra i membri, né positiva nei confronti dell’ingroup, tantomeno negativa
nei confronti dell’outgroup.
Quindi, ricapitolando, per spiegare ulteriormente i processi di categorizzazione, in seguito
al paradigma dei gruppi minimali, Tajfel e collaboratori, nel 1978 elaborano la teoria
dell’identità sociale, la SIT (Social Identity Theory). Secondo l’autore, “l’identità sociale
è quella parte del concetto di sé che deriva dalla conoscenza della propria appartenenza a
un gruppo (o a più gruppi) sociali insieme al valore sociale e al significato emotivo
riconosciuti a tale appartenenza” (cit. in Brown, 2005, p.296). Secondo tale teoria,
l’appartenenza e l’identificazione nei gruppi, è fondamentale per l’identità degli
individui, di cui per l’appunto l’identità sociale ne fa parte. Si capisce quindi il perché
delle implicazioni intergruppi, che nascono nell’attimo in cui ciascuno abbia il bisogno
di mantenere un concetto di sé positivo. Ecco perché le persone procedono con la
tendenza di mettere a confronto l’ingroup e l’outgroup: il confronto è funzionale a
mantenere una specificità positiva e uscire quindi vincitori dal confronto,
indipendentemente dalla reale situazione. Non per niente, il concetto di identità sociale è
stato più volte utile per approfondire studi con diversi costrutti correlati, tra i quali quello
dell’autostima (Abrams, 2010; Brown, 2005).
In poche parole, mentre la categorizzazione determina come gli individui classificano sé
stessi e gli altri in vari gruppi, il confronto sociale stabilisce come i vari gruppi si
distinguono, e con quali inevitabili influenze sull’identità sociale, e quindi anche sul
concetto di sé. Festinger (1954) evidenziava già l’importanza del confronto sociale da un
punto di vista individuale/interpersonale; ebbene, in un certo senso, lo stesso processo
avviene anche nelle dinamiche di gruppo per quanto concerne l’identità sociale. Tajfel e
Turner, infatti, sviluppano la teoria del confronto sociale di Festinger rapportandola ai
processi di confronto intergruppo, suggerendo che le nostre valutazioni sul valore o il
prestigio del nostro gruppo provengono dai confronti con altri gruppi, e che questo sia
peculiare per la nostra identità e per il consolidamento della nostra autostima: se il nostro
gruppo di appartenenza dimostra esser superiore in qualche dimensione di una certa
importanza, allora automaticamente, per il semplice fatto di appartenere al nostro gruppo,
sentiamo di godere altrettanto di questa virtù che lo contraddistingue (Hewstone &
Stroebe, 2004).
I processi di identificazione sociale sono talmente importanti per l’identità e il concetto
di sé, che una caratteristica centrale della SIT, è che i membri di gruppi sociali
insoddisfatti o comunque in qualche modo svantaggiati dallo status quo, possono attuare