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comuni, piuttosto che al dettato dell’art. 217 c.c. del 1942, secondo il quale erano comuni gli
acquisti fatti a qualunque titolo durante il regime di comunione, e dunque anche quelli a titolo
originario.
Fra le argomentazioni addotte per escludere la compatibilità fra regime di comunione legale e
acquisti a titolo originario vi è poi l’analisi della lettera dell’art. 177 lett a) c.c. ed il raffronto di
questo con l’art. 217 c.c. 1942. Da un lato, il fatto che l’art. 177 parli di acquisti “compiuti”,
porterebbe ad escludere dalla comunione tutti gli acquisti a titolo originario: infatti, la locuzione
verbale impiegata richiederebbe il pregresso espletamento di un’attività negoziale da parte del
coniuge, ossia un acquisto a titolo derivativo, e non anche il semplice giovarsi di effetti acquisitivi
collegati dalla legge al verificarsi di alcuni fatti, ancorché questi siano stati favoriti o promossi dal
coniuge che se ne è avvantaggiato. Dall’altro, la mancata riproduzione da parte del Riformatore
dell’inciso contenuto nell’art. 217 c.c. 1942 a qualunque titolo, sarebbe indizio della volontà di
limitare l’operatività del regime di comunione ai soli diritti pervenuti a titolo derivativo.
Queste osservazioni si prestano, però, a numerose critiche da parte dei fautori dell’opposta tesi.
Innanzitutto non pare possibile un collegamento fra l’art. 1436 c.c. 1865 e l’art. 177 del codice
vigente, per il fatto che quest’ultimo non riproduce la limitazione, contenute invece nell’art. 1436,
per cui gli acquisti comuni dovevano derivare dall’industria di entrambi i coniugi.
Il legislatore del 1975, anzi, sembra aver seguito l’orientamento manifestato nel codice del 1942,
che era quello di rendere comuni gli acquisti compiuti dopo il matrimonio a prescindere dal titolo: il
Riformatore, infatti, ha voluto realizzare un perfezionamento della normativa previgente al fine di
adeguarla ad esigenze di eguaglianza fra i coniugi, e dunque non pare si possa ravvisare in esso un
intento limitativo dell’ambito di operatività della comunione. Il fatto che poi l’art. 177 c.c. presenti
una formulazione più generica rispetto a quella del codice previgente, non contenendo l’inciso a
qualunque titolo, non giustifica un’interpretazione riduttiva dello stesso, cioè limitata ai soli acquisti
a titolo derivativo.
Innanzitutto perché l’argumentum a silentio di per sé non è mai risolutivo, secondariamente perché
anche in vigenza dell’art. 217 c.c. 1942, che conteneva l’inciso a qualunque titolo, la giurisprudenza
sosteneva che la proprietà della costruzione eseguita dal coniuge sul suolo a lui appartenente prima
della stipulazione del patto di comunione degli acquisti (proprietà che veniva appunto acquistata a
titolo originario), non si comunicasse all’altro coniuge.
Dunque, il criterio della comparazione non appare, in questo caso, di alcuna utilità.
Quanto all’uso del termine compiuti nell’art. 177 c.c., bisogna rilevare come lo stesso sia utilizzato
anche nell’art. 1159 c.c. a proposito dell’usucapione chi si compie a determinate condizioni: questo
lascia intendere che il legislatore quando impiega tale verbo non lo fa necessariamente per porre
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l’accento sullo svolgimento di un’attività, ma per indicare la realizzazione in concreto di tutti gli
elementi costitutivi di una fattispecie acquisitiva, anche a titolo originario.
Per quanto riguarda, invece, l’orientamento della giurisprudenza relazione al problema in esame,
c’è da rilevare come, accanto ad un’alternarsi di opinioni fra le corti di merito, si collochi una
posizione univoca della Suprema Corte di Cassazione, volta ad escludere dalla comunione gli
acquisti a titolo originario.
In realtà la Corte di Cassazione si è prevalentemente occupata di una sola delle varie tipologie di
acquisto a titolo originario che possono verificarsi nell’ambito di un rapporto di coniugio: si tratta
dell’ipotesi di utilizzazione di mezzi economici comuni per la costruzione di un edificio su suolo
personale di uno dei due coniugi.
Con riferimento a questo specifico problema, la S.C. è sempre stata constante nell’asserire la
personalità dell’edificio, pur adducendo, nel corso del tempo, argomentazioni differenti.
Per quanto concerne, invece, il problema più ampio degli acquisti a titolo originario, si è
manifestata una lieve apertura della stessa nella sentenza n.651, 27 gennaio 1996. In quest’ultima, la
Corte ha sostenuto che l’acquisto a non domino in buona fede di cosa mobile mediante il possesso
ex art. 1153, realizzato da uno dei due coniugi, ove non rientri tra i beni personali ai sensi dell’art.
179 c.c., ricade certamente nell’ambito della comunione legale, sebbene l’acquisto vada qualificato
tra quelli a titolo originario e non a titolo derivativo.
L’ACCESSIONE
L’acquisto a titolo originario che ha creato le maggiori dispute, tanto in dottrina quanto in
giurisprudenza, è quello dell’accessione.
L’accessione è un fenomeno disciplinato dagli artt. 934 ss. c.c. i quali attribuiscono al proprietario
di un fondo la proprietà di qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il
suolo.
Tra le varie forme di accessione (mobile a mobile, immobile ad immobile, ecc.), quella che
maggiormente rileva nel rapporto di coniugio, sia per la sua frequenza che per la sua importanza, è
quella che si verifica nell’ipotesi di edificazione di un immobile, utilizzando denaro o materiali
comuni, su suolo di esclusiva proprietà di uno solo dei coniugi. Sarà, questo edificio, comune di
entrambi i coniugi, o risulterà bene personale del dominus soli?
Rispetto a tale fattispecie sono emerse, sia in dottrine che in giurisprudenza, fondamentalmente due
tesi, cui se ne aggiunge un’altra a carattere del tutto residuale.
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a) TEORIA DELL’ACCESSIONE.
Questo primo indirizzo sostiene che l’accessione non costituisce titolo per l’acquisto in
comunione legale, facendo sorgere unicamente a favore del coniuge non proprietario del suolo il
diritto a pretendere che l’altro ricostituisca la comunione nello stato in cui questa si trovava prima
del compimento dell’atto. In sostanza, il coniuge non proprietario del suolo diverrebbe titolare di un
diritto di credito pari alla somma prelevata dalla comunione, da far valere esclusivamente
nell’interesse di quest’ultima.
b) TEORIA DELLA PROPRIETA’ SUPERFICIARIA.
Secondo questa teoria, ferma restando la proprietà del suolo in capo al coniuge già titolare, la
costruzione ricadrebbe in comunione legale immediatamente: in capo alla comunione, pertanto, si
costituirebbe automaticamente ex lege un diritto di superficie. Questa tesi, secondo i suoi fautori,
sarebbe quella che meglio permetterebbe di realizzare il principio di comunione, anche economica,
fra i coniugi.
c) TEORIA DELLA PROPRIETA’ COMUNE CONTEMPORANEA.
In forza di quest’ultima tesi il coniuge proprietario del suolo acquisterebbe per accessione
l’immobile costruito, e questo, automaticamente, ex art. 177 comma 1 lett. a) c.c., diverrebbe
comune dell’altro coniuge. Tuttavia, tale comproprietà avrebbe ragione di esistere soltanto finchè
esiste la comunione, infatti, al momento dello scioglimento di tale regime, il diritto di proprietà
sull’opera tornerebbe a dilatarsi in capo al coniuge cui appartiene il terreno, con suo obbligo di
corrispondere all’altro una indennità pari alla metà del valore della costruzione.
LA SUPREMA CORTE E L’ACCESSIONE.
Il problema dell’accessione era già stato preso in considerazione dalla Suprema Corte prima ancora
che fosse introdotta nel nostro Codice Civile la novella del 1975, in vigenza del regime di
comunione convenzionale degli utili e degli acquisti.
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Nella sentenza 30 maggio 1951 n. 1354 la Cassazione affermò che il coniuge proprietario del
terreno aveva acquistato per accessione l’opera su di esso effettuata, ma doveva corrispondere al
consorte una somma pari alla metà del valore dei materiali utilizzati.
Dopo la riforma del diritto di famiglia la Corte è intervenuta sul problema dell’accessione solo a
partire dai primi anni novanta. Nella sua prima sentenza, la n. 6622 dell’11 giugno 1991, ha escluso
l’edificio dalla comunione in quanto l’accoglimento dell’opposta tesi si sarebbe tradotto in uno
svuotamento del contenuto economico del diritto di proprietà personale sul fondo, in quanto se ne
sarebbe venuta a comprimere una delle principali facoltà - quella di edificare, appunto - la quale
all’atto del suo esercizio, avrebbe prodotto l’acquisto alla comunione dell’edificio, senza che,
peraltro, il dominus soli ne avesse ricevuto alcun indennizzo.
Nella successiva sentenza, la n. 3141 del 14 marzo 1992, la decisione della Corte di escludere
l’edificio dalla comunione si è basata, invece, sull’inconciliabilità fra l’accessione, come modo di
acquisto automatico della proprietà, e il tenore letterale dell’art. 177 lett. a) c.c. (“acquisti
compiuti”), che implicherebbe il pregresso espletamento di un’attività negoziale da parte del
coniuge, e quindi un acquisto a titolo derivativo, nonché sulla migliore conciliabilità della soluzione
accolta con le disposizioni in materia di pubblicità immobiliare: essa, infatti, consentirebbe di
individuare immediatamente e in modo univoco il titolare del fondo.
A queste sentenze ne sono succedute delle altre (la n. 1921 del 16 febbraio 1993 e la n. 1163 del 25
novembre 1993) nelle quali non sono state, però, introdotte novità di rilievo.
Nel 1996, vista la rilevante importanza pratica del problema, e non per dirimere un contrasto
interpretativo tra le sezioni semplici, sempre concordi sul medesimo indirizzo, la Suprema Corte ha
deciso di pronunciarsi a sezioni unite. Nella sentenza n. 651 del 27 gennaio 1996 non si riscontra
alcun mutamento di indirizzo con riferimento allo specifico problema in oggetto, ma si rileva una
prima apertura della giurisprudenza di legittimità a favore dell’inclusione in comunione legale di
alcune fattispecie di acquisto a titolo originario, quali l’acquisto a non domino ex art. 1153.
Questa decisione della S.C. fa ben sperare in un cambiamento di prospettiva che sia più conforme
alla ratio del regime della comunione legale, il quale sembra aver voluto realizzare la finalità di
rendere i coniugi partecipi di tutte le ricchezze prodotte dopo il matrimonio, a prescindere dal titolo
dell’acquisto, finalità che verrebbe senz’altro frustrata se si escludessero dalla comunione gli
acquisti a titolo originario.