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0. Introduzione
Obiettivo del presente lavoro è quello di offrire una proposta di lettura di una categoria,
testualmente presente sottotraccia nel progetto scritturale di Una donna e cioè quella della sorellanza
come istanza narrativamente attiva. Se è vero che la scrittura del romanzo trova la sua ragione più
manifesta – per altro dichiarata nel finale
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– nella volontà dell'autrice di rivelare al figlio il perché
dell'abbandono
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, altrettanto significativo il messaggio – pacifico, ma tutt'altro che inerte – che ella
rivolge all'universo femminile. Messaggio che è caratterizzato da una duplice natura. Da un lato infatti
è un monito per il risveglio delle coscienze, di cui i primi passi da compiere vengono illustrati tramite
la rappresentazione dell'itinerario formativo percorso dall'eroina: l'affrancamento individuale non può
prescindere dall'educazione, sia formale, attraverso lo studio e le letture, sia empirica, tramite i viaggi,
i confronti e i contatti con realtà sociali e intellettuali diverse. Dall'altro lato vi è l'appello a creare
delle autentiche relazioni sororali, improntate alla disponibilità verso nuove modalità di sguardo sulle
altre, al fine di interrompere quel denigrante “gioco sociale” – dove a muovere le pedine sono
prevalentemente gli attori del patriarcato – e contrastare concretamente le disparità di genere. Rete
all'interno della quale, il primo filo da annodare è quello con la figura femminile più prossima e cioè
quella materna. E proprio nel recupero, anche se tardivo, di questo vincolo solidale tra la protagonista
e sua madre è possibile intravedere un ulteriore “indicazione” all'interno del romanzo: la via della
sorellanza parte o – come nel suo caso – riparte da lì.
Per dimostrare la mia tesi ho dapprima cercato di delineare brevemente il concetto di sorellanza
avvalendomi di alcuni studi moderni sulla questione di genere, basandomi su fonti diverse sia per
quanto riguarda la provenienza geografica (Europa, Usa, Centro America), sia storica (in particolar
modo gli studi dagli anni settanta dello scorso secolo fino a quelli più recenti), ma anche prelevati da
ambiti di studio distinti, ad esempio, oltre a quello femminista, anche della politica, dell'antropologia
e della psicoanalisi. Dopodiché ho selezionato, esaminato e argomentato quei brani del testo in cui la
sorellanza emerge in tutte le sue possibili accezioni e nelle sue diverse ipotesi di realizzazione.
La tesi è articolata in due capitoli, nel primo dei quali descrivo le vicende biografiche che hanno
plasmato la forma mentis dell'autrice, il suo approdo alla scrittura e all' impegno pubblico (§ 1.1.);
uno spaccato storico della contraddittoria società in cui vede la luce l'opera (§ 1.2.); un'analisi sulla
peculiarità del genere che la contraddistingue, cioè quella di fondere armonicamente romanzo e
vissuto reale (§ 1.3.); l'originale impianto narrativo retto da due ordini, uno temporale ed uno “mentale”
e l'alternarsi dei punti di vista veicolati dall'istanza enunciatrice (§ 1.4.), infine i grandi contenuti del
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«Ed è per questo che scrissi. Le mie parole lo raggiungeranno» (Aleramo 1906: 165).
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Cioè risparmiarlo da un destino “famigliare” di pazzia materna che incombe e trasmettergli quella “virtù umana”
(Aleramo 1906: 74) per poterlo avviare «integro e libero all'incontro della sua compagna» (Aleramo 1906: 116).
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testo: la ricerca della felicità e il disperato bisogno d'amore, la maternità e la scrittura (§ 1.4.). Nel
secondo capitolo mi concentro sulle varie tappe formative della protagonista, testimoni del percorso
culturale che la condurrà alla piena consapevolezza del proprio e dell'altrui valore umano e
all'autodeterminazione (§ 2.1.); successivamente affronto l'oggetto d'interesse del presente studio e
cioè il concetto di sorellanza inteso sia come apporto offerto al processo di costruzione e di
affermazione identitaria sia come forma di militanza contro il conflitto di genere (§ 2.2.) e infine
mostro come sia stato proprio un atto di sorellanza “pratica”– l'opposizione alla prevaricazione
paterna sulla madre – ad avviare il ricongiungimento tra quest'ultima e la protagonista (§ 2.3.).
Seguono le mie conclusioni con una breve “apologia” in favore dell'autrice.
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1. Diventare Sibilla Aleramo
1.1. Dalla vita alla scrittura
Marta Felicina Faccio, detta Rina, nasce nell’agosto 1876 ad Alessandria, maggiore di due sorelle
e un fratello, e si trasferisce con la famiglia a Milano al seguito del lavoro del padre Ambrogio Faccio.
A Milano frequenta la scuola, che interrompe però a dodici anni, a causa di un altro trasferimento,
stavolta a Porto Civitanova Marche, dove il padre è chiamato a dirigere una fabbrica di vetro.
Comincia un’epoca contrassegnata progressivamente da diverse ombre al cospetto della quale la
sua luminosa infanzia le sembra quasi irreale («V’era stato davvero un tempo in cui io potevo recarmi
alla spiaggia a mio piacere, e tuffarmi per ore nell’acqua, e vagar nella campagna, e abbandonarmi a
sogni di lavoro e di bellezza senza fine?» Aleramo 1906: 32): la crisi irreversibile fra i genitori, la
malattia mentale della madre Ernesta Cottino, il suo intento suicida e il ricovero in manicomio – da
cui non uscirà più –, la rottura del legame con l’amatissimo padre e, soprattutto, l’evento che la
strapperà in modo brutale e definitivo dall’adolescenza. A soli quindici anni, infatti, viene violentata
da un impiegato della vetreria, Ulderico Pierangeli e si ritrova così scaraventata di colpo, nella vita
adulta e matrimoniale, visto che un anno dopo sposerà il suo carnefice. La grande gioia per la nascita
del figlio Walter (1895) pare mitigare l’umiliazione di essere «condannata a camminare curva»
(Aleramo 1906:74) sotto il giogo impostole dallo sposo, ma non è sufficiente ad impedirle, due anni
dopo, di replicare il gesto suicida della madre.
Da questo momento inizia una nuova tappa, in cui le assidue letture la portano man mano ad
approfondire le considerazioni sulle disparità sociali e di genere e a dedicarsi intensamente alla causa
umanitaria e socialista. Al contempo si affaccia alla pratica della scrittura: vede pubblicati diversi
articoli in giornali come «L’indipendente», la «Gazzetta letteraria» e «Vita moderna» rivista
quest’ultima, di carattere femminista, movimento in cui Rina Faccio milita – per poi prenderne le
distanze
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– fino al 1910, offrendo il suo contributo, non solo scrivendo, ma anche nell’impegno per
creare delle sezioni del movimento nelle Marche, manifestando per la pace, il diritto di voto alle
donne e contro la prostituzione.
Dopo il licenziamento del marito dalla vetreria, a fine 1899 si trasferiscono a Milano dove lei ha
accettato di dirigere la rivista socialista «L’Italia femminile» per la quale ricerca e ottiene la
collaborazione letteraria di intellettuali di rilievo come Giovanni Cena, Maria Montessori, Matilde
Serao, Ada Negri, Felice Damiani. Stringe una salda amicizia con la militante femminista
Alessandrina Ravizza, aderendo poi alla neonata Unione Femminile Nazionale
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, ed entra poi in
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Al punto di affermare che la donna: «invece di accordare alla vita e all’arte la profonda realtà del suo essere e portare
nella vita e nell’arte la sua autentica anima, è entrata nell’azione come un misero, inutile duplicato dell’uomo» Apologia
dello spirito femminile in Andando e stando (cfr. Aleramo 1921: 60).
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Creata per «l’elevazione ed istruzione della donna» (o.l.) e in particolare per il miglioramento delle condizioni delle
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contatto con gli esponenti socialisti Anna Kuliscioff e Filippo Turati.
Purtroppo, solo dopo un anno, è costretta ad abbandonare il capoluogo lombardo e a rientrare nel
paese marchigiano, dove al marito è stata affidata la direzione della fabbrica in luogo del suocero. È
l’ultima rinuncia a “vivere”, infatti, il nuovo soggiorno marchigiano dura solo un paio d’anni poiché
nel febbraio 1902, estenuata dalla schiavitù coniugale, dal provincialismo ipocrita e animata dalla
relazione col poeta Felice Damiani, trova il coraggio di porre fine al continuo annichilimento della
propria dignità, abbandonando la famiglia e trasferendosi a Roma. Lì si lega poi a Giovanni Cena, il
quale la invita a collaborare alla rivista di cui è direttore (la «Nuova Antologia»). È lui che la
incoraggia a scrivere il romanzo Una donna e a suggerirle lo pseudonimo
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di Sibilla Aleramo che
l’accompagna da quel punto in poi nella sua “seconda vita”: di donna e di scrittrice.
Il libro ha immediatamente successo e viene tradotto in quasi tutti i paesi europei e negli Stati Uniti
d’America. Alla relazione con Cena seguono altre, di varia durata, con i più noti artisti, letterati e
letterate di quegli anni tra cui: Lina Poletti, Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Giovanni Boine,
Vincenzo Cardarelli, Clemente Rebora, Salvatore Quasimodo, Dino Campana e tante altre. Fino al
1926 (anno in cui “mette radici” a Roma) viaggia e soggiorna da una città all’altra e ha così modo di
conoscere le personalità culturali più rilevanti del tempo, sia in Italia (D’Annunzio, Grazia Deledda,
Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper) che in Francia (Apollinaire, Colette, Rodin).
Se nel 1925 firma il «Manifesto degli intellettuali antifascisti», quattro anni dopo, oppressa
dall’indigenza chiede, in un’udienza allo stesso Mussolini, l’ammissione all’Accademia d’Italia per
ottenere la pensione mensile prevista per i membri e poi s’iscrive all’Associazione nazionale fascista
donne artiste e laureate. Intanto nel 1929 pubblica il suo secondo romanzo, anch’esso autobiografico,
Il passaggio, che riceve però critiche unanimemente negative. Quando, nel 1943 il Ministero della
Cultura le intima di trasferirsi a Salò si separa definitivamente dal fascismo e nel 1946 chiede e viene
accolta nel PCI di Palmiro Togliatti e a cui lascerà il proprio archivio e l’intera biblioteca
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: oltre
25.000 lettere e 1532 tra volumi e opuscoli
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, a testimonianza del «capolavoro della sua cultura»
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.
Accanto all’impegno politico e sociale continua a scrivere e pubblicare opere in prosa e poesia fino
alla fine dei suoi giorni, dopo una lunga malattia che la porta alla morte nel 1960, all’età di ottantatré
anni.
lavoratrici, cit. Manifesto programmatico (o.l.).
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Così canta Cena nel suo sonetto pubblicato in Homo: «Io la scopersi e la chiamai Sibilla» (o.l.) p.39. Invece il
completamento dello pseudonimo è scelto da Rina, che lo riprende, a rievocare le sue origini monferrine, dalla poesia
carducciana Piemonte: «l'esultante di castella e vigne suol d'Aleramo» cfr. (o.l.) p.16. Il suggerimento di ricorrere a un
nome d'arte non era dovuto solo (come molti sostenevano) alla gelosia di Cena per il cognome coniugale della scrittrice
ma anche all'intento di tutelare i proventi eventuali della sua produzione letteraria, in quanto, come previsto dall'art.134
del Codice Civile, sarebbero andati automaticamente al marito.
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Oggi di proprietà della Fondazione Gramsci di Roma.
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Dati reperiti dal sito web del SIUSA (o.l.).
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Cfr. Folli A., Prefazione di Una donna, quarantottesima edizione, Feltrinelli, 2009 p. VII.