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TECNICHE NARRATIVE
2.1. Dalla banca agli uffici editoriali: caratteristiche e
influenze dello spazio lavorativo
La figura dell’impiegato vanta una tradizione letteraria quanto mai considerevole. In Italia, in
particolare, - tenendo comunque ben presenti le influenze europee e non, da Kafka a Courteline,
da Melville a Dickens e Balzac – ha acquisito una discreta fortuna antonomastica il personaggio di
una commedia
1
composta in piemontese da Vittorio Bersezio, Ignazio Travet, il cui cognome,
propriamente “piccola trave”, è diventato sinonimo di “impiegato modesto e mal pagato, che si
sacrifica per il suo monotono e ingrato lavoro d’ufficio”. Quando Pontiggia fa sua questa
espressione per riutilizzarla, quasi un secolo dopo, nel suo primo romanzo, la società italiana ha
sviluppato nuove strutture economiche e culturali che, pur allargando gli orizzonti del progresso
dando vita a una rinnovata speranza di crescita e affermazione personale, mantengono tuttavia
intatte le prerogative dell’impiegato medio. Se al tempo di Bersezio il lavoro di ufficio si inseriva
in un contesto ancora marcatamente rurale, rivelandosi “privilegio” perlopiù del burocrate statale,
nel Novecento del boom cambiano forse le aspirazioni e sicuramente i luoghi
2
dove poter
esercitare la propria condizione di salariato, ma non l’avvilente consapevolezza dei propri limiti.
Barenghi
3
osserva come in letteratura l’apologia dell’impiegato pubblico o privato non dia esiti
differenti in rapporto a diverse strutture socio-economiche tipiche di un periodo storico più che
1
Le miserie 'd Monsù Travet, commedia in cinque atti in piemontese rappresentata per la prima volta nel 1863. Dell'opera esiste
anche una versione in italiano edita dallo stesso autore nel 1871.
2
Alla macchina statale si aggiungono le banche e gli uffici industriali dei “colletti bianchi”, crescono gli studi professionali e la
supremazia del mercato finanziario.
3
Barenghi, M., Postfazione, in Pontiggia, G., La morte in banca. Un romanzo breve e sedici racconti, Milano, Oscar Mondadori, 2003
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di un altro, quanto a una più matura sensibilità artistica, a un approfondimento moderno del
ruolo impiegatizio in chiave esistenziale. È utile riprendere un esempio a carattere esplicativo,
confrontando due romanzi quasi coevi ma di distinto orientamento: Demetrio Pianelli (1890) di
Emilio De Marchi e Una vita (1892) di Svevo. Entrambi, infatti, approfondiscono un caso di
«piccola borghesia impiegatizia di recente inurbazione
4
», ma il fallito inserimento nella moderna
società assume un significato pressoché opposto. Le persecuzioni a cui va incontro Demetrio
assumono i tratti del sacrificio che «ribalta l’umiliazione mondana in esaltazione spirituale
5
»; la
morte di Alfonso Nitti non è l’effetto di una rinuncia, non deriva «dall’incapacità di adattarsi ad
una realtà deludente
6
», bensì da un’irreversibile indecisione. Se da una parte quindi, la condizione
di salariato appare come la conseguenza di una nuova organizzazione del lavoro, in Svevo diventa
quasi un tratto congenito: «non è più il ruolo sociale a imprimere sul personaggio il proprio
marchio, fiaccandone gli slanci
7
», ma, al contrario, è l’impaccio esistenziale del personaggio ad
abbigliarsi della veste pubblica a lui più acconcia. Questa lezione, che anticipa e si inserisce a
pieno titolo nelle contraddizioni dell’arte novecentesca, sarà un punto di riferimento sia per il
giovane Pontiggia, che coltiva velleità letterarie nelle stanze del Credito Italiano, sia per lo
scrittore più consapevole di Lettore di casa editrice. A tal proposito, sebbene sia inesatto sminuire
l’originalità dei due racconti a differenti risultati della stessa ispirazione, è interessante notarne gli
aspetti comuni nel rapporto che intrattengono con lo spazio, in questo caso con gli ambienti
lavorativi.
Quando incomincia a scrivere La morte in banca, il suo primo romanzo breve o racconto lungo,
Giuseppe Pontiggia è un ragazzo appena diplomatosi al Liceo Ginnasio Carducci di Milano due
anni prima dei suoi coetanei, a diciassette anni, spinto dalla necessità di trovare un’occupazione
4
Ibid.
5
Ibid.
6
Ibid.
7
Ibid.
16
per ovviare alle condizioni economiche in cui verte la famiglia, in difficoltà dopo la tragica morte
del padre Ugo nel 1943
8
. Ottiene un impiego presso il Credito Italiano dove rimane per dieci anni
(1951-1961), iscrivendosi parallelamente alla facoltà di Lingue della Bocconi, per poi passare a
Lettere in Cattolica. La prima stesura dell’opera risale al ’52-’53 e, pur alludendo a tematiche note
e ad elementi del suo vissuto, si inserisce con originalità in una tradizione ampiamente consolidata
senza scadere nell’autobiografismo. Convinto delle sue doti, l’aspirante autore compie in seguito
una scelta lungimirante: bussa alla porta di Elio Vittorini, che a quel tempo curava la collana “I
Gettoni” per Einaudi, portandosi dietro il manoscritto. Così racconta lo stesso Pontiggia
l’incontro con lo scrittore siciliano:
Nel ’53 mi presentai con La morte in banca a Vittorini. Mi spiegò le cose che secondo lui erano ben riuscite e
quelle non perfettamente riuscite. Gli piacevano i dettagli realistici, le scene, i dialoghi. Ciò che non andava
bene era quello che lui chiamava “recensione dei sentimenti”, ricapitolazione psicologica, che aveva
sicuramente meno forza dei dialoghi
9
.
Vittorini non si limita tuttavia a dare un giudizio positivo all’opera, ma lo incoraggia a continuare
a scrivere, a cambiare facoltà per iscriversi a Lettere e a lasciare il posto in banca. Il preside di
indirizzo dell’Università, a conoscenza dell’incarico di Pontiggia in un periodo storico in cui gli
studenti lavoratori erano pochissimi, gli sconsiglia di lasciare la banca per dedicarsi
all’insegnamento, sicuro che avrebbe in seguito rimpianto un impiego così redditizio. «Ma scusi,
lei è mai stato in banca?» risponde il giovane scrittore
10
. Ed è proprio nell’anticamera di una banca
che prende le mosse il breve romanzo pubblicato infine nel 1959
11
, non dalla scuderia einaudiana,
8
In merito all’omicidio del padre, rispettabile funzionario di banca che aveva ricoperto la carica di podestà a Monguzzo, un
piccolo paese vicino Erba, Giuseppe ipotizza che i mandanti, «partigiani che venivano da fuori», potessero aver voluto colpire un
simbolo apprezzato per la sua integrità. (Dedola, R., Giuseppe Pontiggia. La letteratura e le cose essenziali che ci riguardano, Roma,
Avagliano, 2013, pp. 41-42)
9
Intervista rilasciata a P. Musticchio nel 1991, in appendice a Giuseppe Pontiggia narratore, Tesi di Laurea, a.a. 1992-1993. Dedola ne
riporta il passo a p. 66.
10
Dedola, p. 68
11
La morte in banca. Cinque racconti e un romanzo breve, Milano, Rusconi e Paolazzi, 1959
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ma nei Quaderni di una neonata rivista di avanguardia curata da Luciano Anceschi, «Il Verri», a cui
Pontiggia inizia a collaborare già nel ’56:
La porta di velluto si aprì improvvisamente e la voce del commesso pronunciò il nome di Carabba.
Carabba era seduto su un lungo divano, dove aveva posato i suoi documenti in uno strano ordine. Li raccolse
affannosamente, si ravviò agitato i capelli e, cercando di darsi un contegno composto, entrò in un piccolo
salotto rosso.
Dietro la scrivania il Segretario lo invito cortesemente a sedere.
Carabba obbedì con grande misura nei gesti, mentre il cuore gli martellava in gola. Si rinfrancò quasi subito alle
prime domande:
«Lei è il signor Carabba, vero? Quanti anni ha?»
«Diciassette anni.»
«E ha già il diploma di maturità classica?»
«Sì, è perché ho compiuto il salto della quinta classe elementare e della terza classe di liceo.»
Carabba cercava per l’occasione il linguaggio più corretto. Il Segretario tacque per un momento.
«Non ha persone a carico?»
«No. Avrei mia madre, che è vedova, ma prende già la pensione.»
Nuova pausa.
«Intende continuare gli studi?»
«Sì, vorrei iscrivermi all’università di lingue straniere.»
Pensava invece di iscriversi a lettere. Ma gli avevano consigliato, per la domanda di impiego in banca, di dire
che studiava lingue, l’Ufficio del Personale ne avrebbe tenuto conto.
Infatti il Segretario si mostrò compiaciuto, assentì con il capo. [11-12]
Il ritratto della banca che si ricava dalla sequenza iniziale è filtrato dalle sensazioni e dagli
autoconvincimenti del giovane Carabba, unico nome proprio ad apparire nell’intero racconto,
rivelandoci un’immagine nel complesso «astratta, mentale, poco concreta, simile ad un oggetto
del desiderio per il quale si è disposti a mentire
12
». Non a caso, il testo prende avvio con la
metafora di una porta in velluto che si apre su un mondo sconosciuto che, di conseguenza,
appare ancora positivamente vago.
Secondo Dedola inoltre, il velluto potrebbe indicare «eleganza,
12
Ceteroni, A., Alle origini del romanzo aziendale. Un’interpretazione de La morte in banca secondo la narratologia cognitivista, in «Enthymema»,
X, 2004
18
raffinatezza, possibilità di elevazione sociale, di ingresso nella élite che la carriera in banca
sembrerebbe prospettare
13
».
Non appena Carabba prende posto in ufficio, «luogo infernale
14
» abitato da segretari e commessi
disseminati in stanze sempre più piccole e sempre più buie, ha inizio invece una «decostruzione
dell’immagine idealizzata della banca
15
». Questo processo, frutto di un’esperienza diretta che
delude le aspettative di realizzazione professionale, costringe il protagonista ad interrogarsi sulla
propria esistenza: uniformarsi all’orgoglio della mediocrità e ad uno stanco e rancoroso cinismo
oppure «perseguire nella via della ricerca, anche a costo di sacrificare il proprio rassicurante posto
in banca
16
». Dirà Carabba:
Io studio per avere la possibilità di scegliere tra la banca e un’altra vita. [60]
Ma questa “altra vita”, che a tratti assume il volto della biblioteca nella quale si rifugia dopo il
lavoro alla ricerca di «un autentico spazio di verità
17
», si avvicinerà sempre di più a un’utopia priva
di concretezza fino a quando, in un finale fortemente e volutamente ambiguo, il giovane
impiegato troverà la risposta che insegue nella consapevolezza più matura della sua condizione,
nella sintesi tra aspirazione e necessità.
13
Dedola, p. 72
14
Ruozzi, G., La banca, in A.A.V.V, Luoghi della letteratura italiana, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 49
15
Ceteroni
16
Ibid.
17
Ibid.