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2. Introduzione
Gli effetti causati dall’uso cronico di sostanze stupefacenti rappresentano un grave
problema medico e socioeconomico nella società odierna (1). Secondo i più recenti dati
dell’Agenzia delle Nazioni Unite sulle Droghe e il Crimine (UNODC), si stima che
attualmente nel mondo 275 milioni di persone facciano uso di sostanze stupefacenti; fra
queste, oltre 36 milioni soffrono di gravi disturbi legati al consumo di droga. Sempre
secondo questi dati, i decessi attribuiti direttamente all’abuso di sostanze stupefacenti
sono oltre 167.000 ogni anno (2). Sebbene siano disponibili programmi di trattamento per
la disintossicazione, l'accesso a questi servizi rimane limitato a livello globale, e solo una
persona su otto con disturbi causati da uso di sostanze d’abuso riceve adeguate cure
farmacologiche (3). In Italia, secondo il report 2020 del Ministero dell’Interno, i decessi
riconducibili all’abuso di sostanze stupefacenti sono stati 373, mentre dal 1973 ad oggi
risultano morti nel nostro Paese, per cause direttamente legate alle droghe, 25.780 persone
(4).
Quando disponibili, i trattamenti delle dipendenze consistono sostanzialmente in terapie
di sostituzione o terapie di avversione, con l’eventuale aggiunta di farmaci volti alla
mitigazione della sintomatologia (5). Anche in questi casi, tuttavia, l’efficacia del
trattamento, intesa come numero di persone che non presentano ricadute a lungo termine,
risulta generalmente ridotta, con percentuali di ricadute comprese tra il 40% e il 60%, e in
alcuni contesti fino al 77% circa (1) (6). Per questi motivi è presente un notevole interesse
medico e sociale nella ricerca e nello sviluppo di nuove possibili strategie terapeutiche
delle dipendenze da sostanze d’abuso. Tra queste, negli ultimi anni è stato proposto
l’utilizzo clinico dell'ibogaina, un alcaloide presente in natura nelle radici di un arbusto
africano (Tabernanthe Iboga) (7). Diversi studi mostrano un’apparente elevata efficacia di
questa molecola nel trattamento della dipendenza, in particolar modo nel ridurre la
sintomatologia d’astinenza, il desiderio irrefrenabile della sostanza e le ricadute, sia in
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modelli animali che sull’uomo, talvolta anche dopo una singola somministrazione,
soprattutto in relazione alle dipendenze da oppioidi, cocaina, alcol e nicotina (8) (9) (10).
Poiché l’ibogaina possiede proprietà allucinogene, la Food and Drug Administration (FDA)
ha inserito questa molecola nella categoria 1, sostanze col maggiore rischio d’abuso,
rendendola di fatto illegale, se non a scopo di ricerca scientifica preventivamente
autorizzata (11) (12). Proprio questa classificazione ha in parte ostacolato le
sperimentazioni cliniche, già complesse e difficoltose data la natura multifattoriale
dell’azione sia dell’ibogaina sia del disturbo da trattare (13). La maggior parte delle
applicazioni sull’uomo, inoltre, proviene da contesti scarsamente affidabili, come gruppi
di auto-aiuto per tossicodipendenti, o cliniche private prive di protocolli ufficiali di
sperimentazione (14) (15). Alcuni paesi, tra i quali l’Australia, il Canada e la Nuova
Zelanda, hanno autorizzato l’uso dell’ibogaina, previa prescrizione, mentre in altri paesi,
quali il Messico ed i Paesi Bassi, l’uso è diffuso ma non regolamentato (16) (17). Un altro
ostacolo nell'uso dell'ibogaina a fini terapeutici proviene dalla sua potenziale tossicità
cerebellare e cardiaca, descritta per alte dosi in studi sugli animali, e da documentati casi
di decessi umani (18) (19) (20). Di conseguenza si è sviluppato negli ultimi anni un nuovo
filone di ricerca, rivolto alla sintesi di molecole analoghe all’alcaloide, ma prive dei suoi
effetti collaterali (21) (22).
La presente tesi si propone di eseguire una revisione più completa possibile degli studi
pubblicati finora sull’ibogaina ed i suoi derivati, con una particolare attenzione agli aspetti
farmacologici in campo preclinico e clinico, ed una ricognizione delle future prospettive di
ricerca.
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2.1 La dipendenza patologica, la tolleranza e la sindrome d’astinenza
La “dipendenza patologica” è una malattia psichiatrica cronica che coinvolge il circuito
della ricompensa cerebrale, la motivazione e la memoria (23). Una disfunzione in questi
circuiti conduce a caratteristiche manifestazioni biologiche, psicologiche e sociali (11).
L’individuo dipendente persegue ossessivamente il sollievo legato alla ricompensa tramite
l'uso di sostanze e/o altri comportamenti disfunzionali, come la ludopatia o la dipendenza
da cibo (24) (25). La dipendenza è caratterizzata dall’incapacità di astenersi da un
comportamento morboso, che finisce per diventare un’abitudine incontrollabile e
irrefrenabile, arrecando un disagio clinicamente significativo (26). Tale comportamento,
definito “craving”, descritto come un desiderio incontrollabile verso uno stimolo di
rinforzo, spesso è conseguente ad un periodo di astinenza, ed è un elemento fondamentale
della patologia (27). La dipendenza compromette il controllo comportamentale (28),
riducendo la capacità di riconoscere problemi significativi nei propri comportamenti e
nelle relazioni interpersonali e provocando risposte emotive disfunzionali (29). Come altre
malattie croniche, comporta cicli di ricaduta e remissione (30). Il trattamento risulta
necessario poiché il disturbo è progressivo e può provocare conseguenze sulla salute quali
malattie croniche, disabilità o morte prematura (3).
La “dipendenza fisica” è un adattamento fisiologico e biochimico caratterizzato da una
sindrome comportamentale e da sintomi fisici caratteristici, generalmente spiacevoli, che si
verificano a seguito di un’interruzione improvvisa della somministrazione cronica di una
sostanza (31) (32). La sospensione improvvisa nell’assunzione oppure il trattamento con
appropriati antagonisti farmacologici comporta generalmente una serie di sintomi
sgradevoli e caratteristici della sindrome d'astinenza (33) (34), che sono di solito di natura
opposta rispetto a quelli indotti dall’utilizzo; la reiterazione del consumo, al contrario,
allevia tali sintomi, portando quindi all’instaurarsi di un vero e proprio circolo vizioso
(35). Nonostante le espressioni somatiche varino enormemente tra classi di composti, nel
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caso delle sostanze psicotrope la disforia è comune a tutte le sindromi d’astinenza (29).
La quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V),
considerato il testo di riferimento internazionale per la diagnosi psichiatrica, indica come
criteri diagnostici per il disturbo da abuso di sostanze (SUD) le seguenti caratteristiche:
1) Assunzione della sostanza in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a
quanto previsto inizialmente dal soggetto;
2) Desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza;
3) Impegno di una grande quantità di tempo in attività necessarie a procurarsi la sostanza,
ad assumerla o a riprendersi dai suoi effetti;
4) Craving, ovvero fortissimo desiderio o stimolo irrefrenabile all’uso della sostanza;
5) Uso ricorrente della sostanza, causa d’incapacità nell’adempimento dei compiti
principali sul lavoro, a scuola, a casa;
6) Uso continuato della sostanza nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti
problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza;
7) Abbandono d’importanti attività sociali, lavorative o ricreative in favore dell’uso della
sostanza;
8) Uso ricorrente della sostanza in situazioni nelle quali tale uso è fisicamente pericoloso;
9) Uso continuato della sostanza nonostante la consapevolezza di un problema persistente
o ricorrente, fisico o psicologico, causato o esacerbato dalla stessa;
10) Tolleranza, definita dal bisogno di dosi progressivamente più elevate della sostanza
per raggiungere l’effetto desiderato, e dall’insorgenza di un effetto notevolmente
diminuito con l’uso continuato della stessa quantità;
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11) Caratteristica sindrome d’astinenza dalla sostanza, e assunzione compulsiva della
stessa (o di altra strettamente correlata) per attenuare o eliminare i sintomi conseguenti
(36) (37).
La “tolleranza”, definita appena sopra nel criterio diagnostico 10, dal punto di vista
farmacologico è un fenomeno adattativo che determina una riduzione progressiva
dell’efficacia di una sostanza in risposta alla stessa dose (35) (38). Può avere una molteplice
natura ed essere conseguente a fenomeni farmacocinetici, farmacodinamici o può trattarsi
di una tolleranza appresa (39).
La “tolleranza farmacocinetica” si verifica quando la distribuzione o il metabolismo del
farmaco vengono alterati nel tempo, spesso per via di proprietà induttive o inibitorie su
un enzima metabolico o sul sistema di trasporto, con conseguenze sulla durata dell’effetto
ed una risposta ridotta (24). Un esempio di tale meccanismo è rappresentato dai
barbiturici che, essendo induttori degli isoenzimi epatici citocromo P450 (CYP3A3 e
CYP3A4), ne incrementano la concentrazione a livello microsomiale epatico, causandone
così un aumentato metabolismo ed una riduzione dei livelli ematici (40). Un ulteriore
meccanismo di tolleranza farmacocinetica si riscontra a seguito dell’assunzione cronica di
alcol etilico; infatti nell’alcolista si instaura l’induzione del CYP2E1, il principale isoenzima
del citocromo responsabile del metabolismo, e tale adattamento è coinvolto
nell’aumentato tasso di eliminazione dell'etanolo dal sangue (41).
Nel fenomeno della “tolleranza farmacodinamica” si determina una diminuzione a lungo
termine della risposta intrinseca a fronte di una costante esposizione, che può
determinare, in alcuni casi, l’insorgenza di una tolleranza crociata rispetto all’intera classe
farmacologica (42). I meccanismi di tolleranza farmacodinamica possono riguardare un
adattamento nella componente recettoriale (“down-regulation” dovuta a ridotta sintesi,
aumentata degradazione oppure internalizzazione del recettore), una modifica nel sistema
di trasduzione del segnale (come il disaccoppiamento con la proteina G o l’alterazione
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nella concentrazione di calcio intracellulare) oppure alterazioni nell’espressione genica
dell’attività sinaptica con conseguente diminuita responsività (43) (24) (39). La tolleranza
farmacodinamica da oppioidi, ad esempio, è caratterizzata da un meccanismo
multifattoriale, essenzialmente mediato da un’alterazione nella trasduzione del segnale,
dovuta ad iperattività dell’adenilato ciclasi (AC), con conseguente aumento dell’adenosina
monofosfato ciclica (cAMP), desensibilizzazione recettoriale conseguente alla
fosforilazione e alla down-regulation dei recettori µ (mu) degli oppioidi (42) (32).
Col termine “tachifilassi” si descrive una desensibilizzazione rapida nella risposta
farmacologica ad una sostanza (44). Questo fenomeno farmacologico si può osservare
spiccatamente nel caso delle sostanze psichedeliche e si ritiene derivi dalla
sottoregolazione rapida dei recettori serotoninergici 5-HT2A (45).
La “tolleranza appresa” può essere di tipo comportamentale o condizionato (29). La
tolleranza condizionata segue i principi pavloviani di associazione; essa si manifesta
quando l’assunzione della sostanza è associata a segnali situazionali, e in seguito alla
rimozione di questi ultimi appare un miglioramento dell'effetto farmacologico. Ad
esempio, un ratto dipendente da morfina posto in un nuovo ambiente mostrerà una
tolleranza antinocicettiva ridotta (46).
La “tolleranza comportamentale” si verifica quando un individuo è consapevole di un
proprio deficit indotto dalla sostanza d’abuso ed impara a controbilanciare la funzione
deficitaria tramite tentativi ripetuti, come nel caso di un alcolista che non manifesta
compromissione motoria nonostante l’intossicazione (42).
Né la tolleranza né la sindrome d’astinenza sono tuttavia elementi necessari o sufficienti
per la diagnosi di SUD (36); la semplice dipendenza fisica e la tolleranza sono espressione
della capacità di una sostanza di provocare reazioni adattative sull’organismo, ma non
costituiscono i soli elementi che spingono alla compulsiva ricerca (46). E’ ben noto che
fattori ambientali, sociali e genetici contribuiscono alle vulnerabilità individuali nei
confronti dell’uso di sostanze stupefacenti e nello sviluppo di SUD (47) (48). Possono di
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fatto favorire l’insorgenza di una dipendenza patologica la situazione socioeconomica, il
contesto culturale e comportamentale, la ricerca di accettazione sociale dell’individuo, la
disponibilità e la natura intrinseca della sostanza d’abuso (49) (3). Numerose ricerche
provano infine che la presenza di traumi relazionali nell’infanzia, abusi, criticità e
deprivazioni sociali costituiscono anch’essi fattori scatenanti della dipendenza patologica
(50) (27). E’ stato tuttavia stimato che i fattori genetici contribuiscano per circa il 50% alla
suscettibilità alla dipendenza per tutte le droghe (51). Uno studio epidemiologico su una
coorte di gemelli omozigoti ed eterozigoti ha identificato la dipendenza da etanolo,
cocaina ed oppioidi come tra le più ereditabili, e numerose ricerche nel campo della
neurobiologia hanno permesso l’identificazione di mutazioni geniche predisponenti, come
i geni codificanti gli enzimi metabolici dell’etanolo (alcol deidrogenasi, ADH), o i geni dei
trasportatori della serotonina oppure dell’enzima metabolizzante le catecolamine, catecol-
O-metiltransferasi (COMT) (52) (53). Nei soggetti tossicodipendenti è stato anche
ipotizzato un caratteristico stato di deficienza o ipofunzionalità nel meccanismo
recettoriale di ricompensa dopamina-dipendente, che potrebbe contribuire in maniera
determinante allo sviluppo della dipendenza (24).