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Introduzione
Il Made in Italy come ben sappiamo comprende una rosa di significati, immagini e valori
positivi che in tutto il mondo generano apprezzamento e curiosità. Nonostante i
cambiamenti dei mercati, le innovazioni e le nuove tendenze alle quali stiamo assistendo
con la globalizzazione, la gestione efficace della comunicazione improntata sull’origine
italiana dei prodotti continua ad assicurare l’efficacia delle strategie di differenziazione
che le imprese possono mettere in atto. Il valore generato dal rimando alle qualità che il
nostro paese evoca ha un potere comunicativo che è trasversale alla cultura, all’arte, alla
moda, ai settori delle tecnologie e della meccanica e ovviamente a quello
dell’agroalimentare. Quest’ultimo detiene un valore strategico fondamentale per
l’economia nazionale, anche in forza delle relazioni con i mercati internazionali portate
avanti dalle filiere di cui il settore è costituito.
Con il presente elaborato si cerca di capire quali sono le motivazioni per le quali la filiera
italiana dei tartufi stenta ancora oggi ad affermarsi globalmente con delle strategie di
internazionalizzazione consolidate. Pur rientrando all’interno del settore agroalimentare,
la realtà industriale del comparto tartuficolo ad oggi non riesce a farsi notare dai riflettori
dei principali enti statistici preposti alle analisi di mercato. Il valore economico che essa
genera non compare infatti nei report ministeriali che ogni anno premiano i risultati
commerciali delle tipicità gastronomiche nostrane. Questa assenza dei tartufi nella grande
narrazione che identifica la bontà delle materie prime e la qualità dei metodi produttivi
come fattori di successo dei prodotti agroalimentari italiani all’estero la riscontriamo
anche negli studi accademici relativi al marketing delle tipicità, e in una dimensione più
materiale nei luoghi di consumo di massa, anche nel nostro paese.
Poiché la realtà industriale di cui si parla è essenzialmente costituita per la maggior parte
da attività imprenditoriali a trazione familiare e da medie imprese, i rapporti con i paesi
esteri si concentrano soprattutto sulle attività a valle e in particolare sulle esportazioni.
Un aspetto che è anche coerente alla tipologia dei prodotti in questione, la cui forza
competitiva risiede proprio nel legame fra la produzione e l’origine territoriale.
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Il tema pertanto sarà inquadrato a partire dalle principali teorie concettuali che spiegano
i processi di internazionalizzazione delle imprese e le prospettive teoriche che collocano
la realtà imprenditoriale italiana nella dimensione degli aggregati aziendali e distrettuali.
Successivamente si andranno a consultare le norme che disciplinano il mercato e la filiera
tartuficola, le fonti e gli studi accademici, per poterli mettere a confronto con la ricerca
empirica senza perdere di vista le prospettive concettuali.
Infine, saranno delineate delle proposte strategiche con valenza sul lungo termine,
cercando riportare alcune soluzioni praticabili per le varie criticità individuate, sfruttando
i punti di forza del comparto e le opportunità offerte dal contesto nazionale e globale.
Sinteticamente, nel primo capitolo sono riportate le principali teorie sullo sviluppo
internazionale delle imprese. Segue un approfondimento sui dati delle esportazioni del
settore agroalimentare, mostrando la portata strategica dell’intero comparto in relazione
alla grave pandemia globale che ha pesantemente colpito tutti gli altri settori strategici
dell’economia nazionale. Dati dai quali la filiera tartuficola è completamente assente.
Sempre nel primo capitolo sono trattate inoltre le politiche e gli incentivi a favore delle
piccole e medie imprese per la ripresa economica auspicata nei prossimi anni,
soffermandosi anche sulle nuove opportunità offerte dalla digitalizzazione.
Il secondo capitolo è dedicato al mondo dei tartufi. Vengono descritti la struttura, gli attori
e lo stato di salute della filiera sulla base dei confronti fra quanto emerge dal testo del
Piano Nazionale della Filiera del Tartufo 2017-2020, la legge nazionale in vigore e gli
altri testi di riferimento riportati nella bibliografia di riferimento. L’obiettivo del capitolo
pertanto è quello di mostrare le criticità della filiera e le relative cause sostanziali.
Nel terzo capitolo sono riportati i risultati qualitativi di una ricerca empirica effettuata
attraverso interviste, poste ad alcuni membri di associazioni e federazioni di riferimento
del comparto e verso alcune aziende originarie delle regioni Marche e Toscana. Nel corso
del capitolo si delineano poi le vie di rilancio del comparto, partendo da una analisi delle
opportunità e delle minacce realizzata sulla base delle informazioni riportate nel primo e
nel secondo capitolo.
Come si vedrà, lo studio della filiera chiamerà in causa molteplici criticità fra loro
collegate. Criticità che appartengono a differenti contesti di riferimento, comprensibili
solo acquisendo punti di vista ed approcci fra loro diversi. Pertanto, sarà necessario uscire
per un po’ dall’ottica del marketing per poter capire quali sono le cause dei problemi che
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impediscono ancora oggi al comparto tartuficolo di ambire ad un valido posizionamento
all’interno del grande settore agroalimentare. Settore che con la pandemia di Covid-19 si
è riconfermato essere fondamentale per la nostra economia.
Buona lettura.
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Capitolo 1 - L’internazionalizzazione del sistema agroalimentare,
fra teorie e dinamiche settoriali
1.1 La globalizzazione e le teorie sui processi di internazionalizzazione
aziendale.
Negli ultimi 40 anni il mondo ha assistito all’accelerazione di molteplici dinamiche di
cambiamento socioculturali, economiche, finanziarie e tecnologiche, riconsiderate nel
loro insieme come i principali fattori che hanno originato e continuano tutt’oggi ad
alimentare il fenomeno della globalizzazione.
Il mondo globalizzato è caratterizzato dalla crescente interdipendenza fra i vari paesi che
si è affermata in seguito a molteplici fattori: la riduzione delle distanze come conseguenza
dell’abbassamento dei costi dei trasporti e dello sviluppo degli strumenti di
comunicazione, l’ apertura dei mercati internazionali in seguito alla riduzione delle
barriere agli scambi, la crescita economica delle aree meno sviluppate, l’integrazione dei
mercati finanziari e i progressi negli ambiti della ricerca e dello sviluppo. Si è delineato
così un contesto che da tempo obbliga le realtà imprenditoriali a interfacciarsi
concretamente con nuovi scenari. La nascita e l’ampliamento di nuovi mercati in termini
di vendita, produzione e approvvigionamento, degli spazi competitivi più complessi e più
aggressivi e l’integrazione culturale degli stili di vita e dei modelli di consumo, sono
fenomeni che hanno permesso o talvolta costretto le imprese a ripensarsi profondamente
come attori operanti in contesti meno domestici e più aperti. Nuovi contesti che hanno
portato le realtà industriali a diversificarsi, a innovarsi e a internazionalizzarsi, compiendo
scelte e portando avanti attività frutto di strategie tese ad allargare i propri interessi sui
mercati esteri (Musso, Francioni, 2019, pp. 1-19).
Parlare di internazionalizzazione esclusivamente in termini di attività orientate alla
commercializzazione e alla vendita è tuttavia riduttivo. Piuttosto le strategie di
internazionalizzazione comprendono l’insieme delle opzioni e delle opportunità
attraverso le quali le imprese possono operare al di fuori del proprio paese di origine, sia
in riferimento alle attività svolte “a monte”, riguardanti gli approvvigionamenti, la
progettazione, la produzione e in generale i processi di ricerca e sviluppo, sia in
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riferimento alle attività svolte “a valle”, quali le analisi di mercato, le attività
promozionali, la logistica, servizi di assistenza post vendita e appunto le vendite
(Johnson, Whittington, Scholes, Angwin, Regnèr, Paci, 2017, p. 268). Dal momento che
la realtà imprenditoriale italiana si distingue per la significativa presenza di piccole e
medie imprese attive su tutto il territorio, è importante capire quali siano gli effetti della
globalizzazione sulle imprese dalle dimensioni limitate e come influiscano sulla loro
partecipazione ai mercati internazionali.
Spesso legate da rapporti distrettuali, le piccole e medie imprese presentano in
generale dei punti di forza in termini di maggior dinamicità, capacità di adattamento,
specializzazione e sviluppo di relazioni interaziendali, rispetto alle aziende più strutturate
e di dimensioni più grandi. Grazie a questi fattori esse riescono a rimanere competitive
anche nei paesi esteri (Musso, 2013, p. 6). E tuttavia, la limitatezza dimensionale mostra
anche delle criticità di fronte all’apertura dei mercati internazionali, quali la fragilità delle
strutture organizzative poco propense al rischio, che portano poi ad assumere approcci
più occasionali nei contatti commerciali (Mattiacci, Simoni, Zanni, 2008). Ciò
nonostante, la stessa limitatezza delle dimensioni non è necessariamente da considerarsi
come un ostacolo insormontabile ai fini dell’internazionalizzazione. Nel caso delle
esportazioni, ad esempio, essa non è correlata con l’intensità esportativa.
Occorre poi considerare che la realtà delle imprese minori è molto eterogenea, sia per
motivazioni legate alle differenze insite nei mercati di riferimento, sia per le
caratteristiche delle strutture gestionali aziendali, influenzate poi dalla cultura d’impresa
e dalle strategie che influenzano l’evoluzione stessa delle aziende. Per questi motivi
diventa difficile realizzare modelli teorici interpretativi di valenza generale che sappiano
descrivere a pieno la varietà delle dinamiche di internazionalizzazione.
Rifacendosi alla letteratura specialistica, le principali prospettive analitiche elaborate in
merito ai percorsi di internazionalizzazione delle imprese sono cinque, di seguito
elencate:
- La prospettiva economica
- La prospettiva gradualistico/comportamentale
- La prospettiva reticolare
- La prospettiva dell'imprenditorialità internazionale e delle Born Global
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La prospettiva economica comprende tre fondamentali approcci
all’internazionalizzazione:
1. La teoria del vantaggio oligopolistico, i cui principali contributi provengono
da Hymer (1960) e da Kindleberger (1969). Questa teoria, partendo una
prospettiva economico industriale e manageriale, giustifica i processi di
internazionalizzazione considerandoli come il frutto di scelte aziendali prese
in forza del possesso di vantaggi soggettivi di tipo oligopolistico o
monopolistico. Vantaggi quali il know how aziendale, la superiorità
tecnologica, la differenziazione dei prodotti, attraverso i quali le aziende
maturano la capacità di strutturarsi per fare profitto anche al di fuori del
proprio paese di origine, dati alcuni fattori favorevoli. Le condizioni di
mercato in cui le imprese si troverebbero ad operare, caratterizzate da
imperfezioni quali la presenza di barriere tariffarie, elevati costi di trasporto,
regolamentazioni fiscali discriminanti, indurrebbero le imprese a previlegiare
la produzione nel proprio paese, piuttosto che l’esportazione o viceversa,
previlegiando gli investimenti diretti per ridurre l’incertezza e soprattutto per
sfruttare i propri asset. Secondo tale modello quindi gli investimenti diretti
all’estero scaturiscono da condizioni necessarie date da solidi elementi di
monopolio o oligopolio sfruttabili in determinate condizioni di mercato.
2. Il modello del ciclo di vita del prodotto, il cui contributo fondamentale viene
da Vernon (1979). Questa teoria parte dal presupposto che la capacità delle
aziende di intrattenere rapporti commerciali internazionali sia data dalle
risorse finanziarie, dal capitale umano, dalle innovazioni tecnologiche
applicate ai processi produttivi e ai prodotti. Il modello evidenzia in questo
modo la stretta relazione presente fra il ciclo di vita dei prodotti, identificato
in quattro fasi, e le caratteristiche dei paesi di espansione internazionale.
In particolare secondo la teoria, nella fase di introduzione le imprese
previlegiano stabilire i propri apparati produttivi nel paese di origine,
sviluppando i prodotti innovativi approfittando anche della domanda in
crescita, in vista della standardizzazione sia dei prodotti che dei processi. Nella
fase dello sviluppo, l’avvicinarsi alla standardizzazione preposta e la crescita
della domanda, fanno presagire la saturazione del mercato interno, portando
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le imprese a decidere di intraprendere un percorso di esportazione in quei paesi
esteri nei quali si presenta una domanda simile a quella del paese di origine.
L’emersione di nuovi concorrenti nei paesi di esportazione porta in questo
modo all’installazione degli impianti produttivi nei nuovi paesi da parte delle
imprese esportatrici. Con la fase della maturità le esportazioni vengono
sostitute dalla produzione nei paesi esteri, confermando così il presidio del
mercato locale non più in forza delle caratteristiche del prodotto diventato
standardizzato, ma grazie all’abbassamento dei costi di produzione.
3. Le teorie dell’internazionalizzazione e dei costi di transazione, i cui tributi
principali provengono da Buckley, Casson (1976), Coase (1937), Teece
(1981), Williamson (1975). Si parla in questo caso di un filone di teorie che
descrivono la decentralizzazione delle imprese su scala internazionale come
un modo di controbilanciare le inefficienze dei mercati e gli ostacoli di natura
economica, costituendo mercati interni e sistemi di allocazione di risorse meno
costosi, in modo tale da favorire la crescita delle produzioni. Gli studi di Teece
e Rugman (1980-1981), rimanendo in questa prospettiva, richiamano il
mercato e le gerarchie come strutture di governo delle transazioni che si
interfacciano con fattori ambientali di ostacolo alle relazioni di scambio, quali
l’incertezza, la complessità ambientale e l’asimmetria informativa. In questo
modo le imprese multinazionali sviluppando forme di internazionalizzazione
gerarchica attraverso legami proprietari assicurati da investimenti diretti,
istituiscono forme di controllo più efficiente e meno costose rispetto ai costi
d’uso del mercato.
4. Il paradigma eclettico, il cui contributo fondamentale proviene da Dunning
(1980) integra i tre approcci precedenti, mettendo in relazione i fattori che
permettono l’internazionalizzazione delle aziende e le imperfezioni del
mercato, denotando due possibili tipi di fallimento: il fallimento strutturale,
caratterizzato dall’incapacità di tutte le aziende di gestire al meglio le attività
a livello internazionale a causa della nascita di monopoli naturali; il fallimento
intrinseco, dato dall’incapacità del mercato di gestire le transazioni con
modalità meno costose rispetto a quelle proprie delle organizzazioni
gerarchiche, a causa dell’asimmetria informativa, dell’impossibilità valutativa
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dei costi e dei benefici delle transazioni stesse. Oltre che dall’impossibilità di
sfruttamento delle economie di scala o di diversificazione geografica a causa
della domanda bassa. In questo modo quindi, l’instaurazione di modalità di
controllo gerarchico offre le possibilità di sfruttare vantaggi di proprietà, di
internalizzazione e vantaggi localizzativi, permettendo alle imprese la
realizzazione degli investimenti diretti all’estero e lo sviluppo in chiave
internazionale (Musso, 2013, p. 28).
Il principale limite delle teorie accennate consiste nell’aver posto poca attenzione alle
problematiche strategiche e organizzative delle imprese minori che hanno portato avanti
processi di internazionalizzazione, i cui rapporti con mercati esteri sono stati considerati
sporadici e meno rilevanti (Musso, 2019, p.29).
La prospettiva incrementale integra le interpretazioni circa la presenza nei mercati
internazionali delle piccole e medie imprese, considerando l’internazionalizzazione come
un percorso di crescita graduale che si realizza attraverso modalità indirette di
esportazione per arrivare agli investimenti diretti, coinvolgendo la crescita di conoscenze
organizzative, strategiche e finanziarie. La teoria, i cui contributi fondamentali
provengono da Johanson, Vahlne (1977), Czinkota (1982), Cavusgil (1980), vede la
presenza nei mercati esteri come il frutto della crescita aziendale portata avanti su due
vie. Da una parte la crescita dimensionale e dall’altra la crescita delle capacità
organizzative e gestionali, connesse alla disponibilità a sostenere costi e rischi maggiori.
I modelli di riferimento di questo filone sono:
1) Modello di Uppsala, riprende la prospettiva della internazionalizzazione vista
come un processo mediato dalla graduale acquisizione della conoscenza dei
mercati esteri e dalla crescita delle relative attività, sviluppandosi per gradi nel
medio/lungo periodo. Il modello descrive il fenomeno in modo duplice,
considerando da una parte lo stato dell’impresa, costituito dalle conoscenze del
mercato e dall’altra le decisioni sui mercati esteri che modificano lo stato delle
conoscenze stesse. Ricreandosi così un circolo di graduale interazione che
permette all’impresa di ridurre i rischi, l’incertezza e di sostenere impegni
all’estero sempre più onerosi. Le condizioni convenienti che si vengono a creare
derivano così dalla graduale interazione dell’impresa con l’ambiente esterno, e
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dall’esperienza che man mano orienta le decisioni sulla base delle conoscenze
acquisite tramite esse. Con l’accrescere dello sviluppo delle competenze
gestionali e delle risorse, il modello individua quattro fasi di crescita delle
modalità decisionali di internazionalizzazione a partire da quelle meno
impegnative, le esportazioni irregolari in reazione alle esigenze della clientela, le
esportazioni organizzate, fino a quelle più strutturate: la creazione di filiali e la
realizzazione di investimenti produttivi.
2) Modelli di innovazione, vedono anch’essi l’internazionalizzazione come un
processo di crescita graduale che tuttavia nelle sue fasi scaturisce in seguito a
innovazioni che l’impresa attua. Comuni al il modello di Uppsala sono i richiami
alle differenze culturali fra il paese di origine dell’impresa e i paesi esteri e
l’avversione al rischio, considerati come dinamiche che rallentano i processi di
internazionalizzazione. Tuttavia, in questo caso i rapporti con i mercati esteri non
sono descritti come il frutto di apprendimenti dati dall’esplorazione delle
opportunità esterne in reazione ai cambiamenti. Piuttosto sono visti come risultato
di decisioni manageriali che portano a innovazioni organizzative, incrementate
gradualmente proprio a causa della mancanza di conoscenza dei mercati. Il
modello inoltre include le dinamiche di condivisione delle conoscenze innovative
da parte di alcuni attori guida, attraverso le quali la logica incrementale venie
meno in forza di salti qualitativi, come avviene nel caso dei distretti industriali
(Musso, 2013, p.35).
Come si vede, questi modelli teorici, descrivendo i fenomeni di internazionalizzazione
come processi graduali mossi dall’acquisizione di conoscenze date dall’esperienza, o da
fasi di innovazione rapportate alle difficoltà relative alle diversità dei mercati esteri, megli
si prestano per la spiegazione della presenza internazionale delle realtà aziendali poco
strutturate e di dimensioni ridotte.
I modelli della prospettiva reticolare, i cui contributi fondamentali provengono da
Johanson, e Mattsson (1988), considerano il capitale sociale e le reti di relazioni fra le
imprese come elementi costitutivi dei mercati, e soprattutto come fattori fondamentali
attraverso i quali le imprese riescono ad essere capaci di svilupparsi in chiave
internazionale. Assumono quindi importanza le reti collaborative come veicolo di