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Il contesto storico e culturale
La scrittura e lo stile di Francis Poulenc sono sicuramente molto personali e caratteristici e, a detta
sua, dettati unicamente da se stesso. Ma è anche vero che il compositore (e quindi la sua musica) è
frutto, consciamente e non, del suo tempo e della realtà che lo circonda. Nello specifico, la realtà in
cui è nato, è uno spartiacque importantissimo che ha segnato la nascita del Novecento.
È d'obbligo quindi ricreare un panorama a livello storico-culturale che racconti come è finito il XIX
secolo e sotto quale stella è sorto il XX.
In economia, gli ultimi anni del 1800 videro l'affermarsi della produzione metallurgica e dell'industria
pesante, in grado di garantire altissimi profitti solo a poche, grandi imprese: questo creò un regime di
quasi-monopolio che diede il via a una prima fase di capitalismo a livello mondiale, partendo da
Francia e Inghilterra, paesi con un'antica tradizione industriale.
Le potenze europee perseguirono la loro espansione economica anche in Africa e Asia segnando così
la fine di antiche civiltà, sistemi di vita e di produzione diversi da quelli capitalistico-industriali. E
proprio questo modo di agire favorì la nascita di alcuni fattori ideologici tipici di quegli anni ma
soprattutto degli anni a venire, come l'esaltazione di una razza, di una civiltà, di un modello.
Il progresso tecnico-scientifico sarà il nuovo motore della civiltà da lì in poi, in ogni ambito e in ogni
aspetto del vivere civile. Coinvolgerà non solo i ceti emergenti e la classe dominante, ma anche e
soprattutto le classi lavoratrici.
Il nascente benessere e l’innovazione si portarono appresso elementi di profonda crisi e gravi
problemi di carattere 'esistenziale' da parte del nuovo uomo moderno.
Queste problematiche trovarono sfogo soprattutto in ambito culturale, nelle nuove correnti artistiche,
letterarie, musicali. Dopo il 1870 crebbe una schiera di giovani che si sentirono estranei, inadatti alla
loro epoca. Proprio in quegli anni, Freud, il padre della psicoanalisi definì questo come il «disagio
della civiltà»,
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un rifiuto istintivo della società contemporanea, basato sul progresso tecnico-
scientifico, ambiti ben lontani da tutto ciò che riguarda l'essenza dell'essere umano e le radici
dell'esistenza (tema ricorrente nella filosofia francese, inglese, russa di quel periodo).
Questa nuova tendenza introspettiva diede vita a una concezione dell'arte come bisogno di esprimere
l'inconscio, il non sondato, e spogliarsi della forma: in letteratura e nelle arti figurative nacquero a
questo proposito correnti come Espressionismo e Surrealismo (Munch, Kokoschka e Kandisnkij tra i
più significativi nella pittura e Joyce, Kafka, Svevo in letteraura) o in poesia il Simbolismo di
Baudelaire e Stéphane Mallarmé.
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GUIDO SALVETTI, La nascita del Novecento, Storia della musica a cura della Società Italiana di Musicologia, 9, Torino,
EdT, 1991, pg.8
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In questa nuova società dal carattere utilitaristico, l'intellettuale diventa un dandy e un bohémien,
esibendo la propria inutilità sociale sia in una vita alto-borghese dei salotti, sia in una vita da bohème,
desolata e spesso affamata. Ha una concezione 'estetica' della vita, ovvero ricerca il bello e l'opera
d'arte in ogni piega della quotidianità, riportando in luce il concetto ellenistico di bellezza, nelle arti
musicali e figurative.
In campo musicale, verso la fine dell'800 nascono i conservatorii di Pietroburgo (fondato nel 1862),
di New York e Buenos Aires; la Francia si arricchisce di nuove istituzioni, private e pubbliche che
attraggono nuovi studenti francesi e stranieri, come la Schola Cantorum o l’Ecole normale de musique,
nata nel 1918. In Europa e in tutto il resto del mondo fioriscono le organizzazioni di concerto e i teatri
d'opera: in Francia e in Italia le orchestre sinfoniche emulano le più rinomate istituzioni tedesche e,
in compenso, le opere italiane e francesi vengono esportate ovunque, fuori dai confini europei.
Anche l'editoria musicale, con la nascita della nuova legislazione sui diritti d'autore (1862 in Italia)
ebbe un'importante ruolo in questa crescita omogenea complessiva.
Dal punto di vista del repertorio, la fine del secolo vede l'egemonia della tradizione tedesca (con il
wagnerismo in prima linea) e di quella operistica italiana. Ma il nuovo sentimento di rottura con la
tradizione prende vita anche in ambito musicale, partendo proprio dalla Francia, o meglio da Parigi,
con Debussy, colui il quale riuscì a trasferire nella sua opera musicale, i forti stimoli che provenivano
dal campo della letteratura e delle arti figurative a lui contemporanee, distaccandosi, di fatto da molti
elementi musicali tradizionali occidentali e aprendo la strada alle cosiddette avanguardie, ovvero vere
e proprie 'battaglie' culturali portate avanti nel nome della più assoluta creatività dello spirito, contro
la grossolanità borghese, la tradizione e il perbenismo del pubblico.
L'inizio del ventesimo secolo vide infatti un'importante contaminazione tra varie realtà musicali,
laddove vi erano stati, fino a quel momento, marcati confini: dall'intromissione negli ambienti della
musica colta dei valzer viennesi, alle operette, a carattere sempre più 'spensierato' di Parigi e Vienna
di fine Ottocento, fino ad arrivare a nuove forme di intrattenimento nelle quali la musica era solo uno
tra i tanti ingredienti dello spettacolo: i cabaret e i caffé-concerto, tipici di Parigi e Londra, con una
lunga tradizione alle spalle, o il music-hall inglese e poi americano. E proprio dall'America giunse,
col nuovo secolo, il jazz: work-songs, blues, ragtime.
Anche la musica, quindi, così come la società, aveva rivelato – mediante la contaminazione, lo
sperimentalismo delle avanguardie, il rifiuto delle istituzioni ufficiali – quanto illusorie fossero le
'sorti progressive' della civiltà europea occidentale.
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Parigi
La musica francese recepì una serie ricchissima di stimoli dalle avanguardie letterarie e pittoriche
verso un rinnovamento radicale nella poetica e nel linguaggio. La capitale francese diventò la culla
della modernità, di una nuova espressione musicale. In primo piano non c’era più l’artista con i suoi
dolori, le sue illusioni, le sue frustrazioni. Il focus si sposta sull’arte, che per esigenza si spoglia anche
della forma, dove i confini della tonalità si fanno sempre più sfocati.
Il modernismo fu più vistoso là dove la musica si confrontò da vicino con gli esiti di altre arti. Questa
unione d’arti fece sì che proprio a Parigi si aprisse un crocevia di strade: dall’abbandono totale della
forma al recupero della purezza delle forme classiche. A differenza della vicina Germania o dell’Italia,
che portavano avanti la loro tradizione, la capitale francese diventò di centrale importanza in quanto
in essa convivevano un gruppo eterogeneo di nuove forme musicali.
Sergej Djaghilev e i Ballets russes
Una ventata di rinnovamento nella vita musicale parigina venne dai Ballets russes dell’impresario
Sergej Djaghilev. I suoi interessi erano equamente distribuiti tra le diverse arti, nelle quali cercò
sempre di portare avanti i principi di rinnovamento delle avanguardie pittoriche e letterarie.
La sua comparsa a Parigi nel 1906 (aveva organizzato una mostra di pittura russa al Salon d’Automne)
diede vita a numerose collaborazioni memorabili in campo artistico.
Djaghilev auspicò una fusione delle arti non in senso wagneriano, ovvero non per creare un’arte
superiore, ma per dare a ogni arte una totale libertà rispetto all’altra, per permetterle di sviluppare
appieno le proprie risorse.
Per raggiungere questi obiettivi si avvalse della collaborazione dei maggiori pittori russi e francesi.
Assieme ai Ballets russes e al loro coreografo Michel Fokine lavorarono i più significativi artisti delle
avanguardie postimpressioniste: Matisse, Picasso, Braque, Dufy.
A Maurice Ravel Djaghilev commissionò Daphnis et Chloé nel 1912; utilizzò il Prélude à l’après-
midi d’un faune di Debussy per la coreografia del famoso ballerino russo Vaslav Nijinsky; a Igor
Stravinsky propose un trittico di balletti: L’oiseau de feu (1910), Petrouschka (1911), Le sacre du
printemps (1913).
Proprio quest’ultimo balletto del 1913 fu uno dei principali motivi di sconvolgimento del mondo
musicale parigino perché portava con sé la nuova visione modernista della musica. Il concetto di
“bello” dell’epoca classico-romantica non aveva più ragion d’essere: non c’era più spazio né per
l’ordine, né per il piacevole, né per il sentimento.
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Erik Satie
Un altro protagonista che influenzò notevolmente il fermento musicale delle avanguardie parigine fu
Erik Satie (1866-1925). Satie lavorava parallelamente a Stravinsky, Debussy, Ravel ma l’intento delle
sue composizioni era, a differenza di questi ultimi, volontariamente provocatorio.
Con un passato come pianista nel cabaret Le chat noir di Parigi, questo artista cercò lo scandalo
nell’associazione tra musica ‘colta’ e musica popolare, cambiandone anche la destinazione d’uso (sua
la concezione della musique d’ameublement, musica da eseguirsi in luoghi dove si fa altro, dove essa
non ha funzione estetica, ma diventa prodotto utilitario). Fu il primo ad introdurre nella nuova visione,
elementi musicali di natura non colta: musica da circo, cabaret, music hall.
Anche per merito della stretta amicizia che lo vide legato al poeta e intellettuale francese Jean Cocteau,
Satie divenne la guida spirituale di giovani compositori che volevano definitivamente sciogliersi da
ogni suggestione germanica, costruendo una musica francese fatta di elementi musicali semplici,
paradossi, ironia contrapposta alla seriosità e alla ridondanza del periodo precedente.
Questi giovani compositori vennero in seguito identificati con l’appellativo Les Six: George Auric,
Louis Durey, Arthur Honegger, Darius Milhaud, Francis Poulenc e Germaine Tailleferre.
L’ideologia d’avanguardia del gruppo fu teorizzata da Jean Cocteau, che nel 1918 pubblicò un vero e
proprio manifesto della nuova musica francese: Le coq et l’Arlequin, opera nella quale si predicava
soprattutto l’abbandono dei principi compositivi ‘tedeschi’, basati sull’idea dello sviluppo. Secondo
Satie e i suoi seguaci la nuova musica francese avrebbe dovuto aprirsi alle nuove esperienze musicali
del jazz e del music-hall.
Lo spettacolo Parade (1917), ideato per i Ballets russes con scene di Pablo Picasso, musica di Erik
Satie e soggetto di Jean Cocteau, può essere considerato il manifesto musicale di questa nuova visione
dell’arte musicale di inizio ’900.
Con la morte di Satie nel 1925, si giunse a un momento di dispersione delle avanguardie. Il gruppo
Les Six operò tra la fine della guerra e il 1924 con unità di intenti, legati anche da una stretta amicizia.
Ma con la scomparsa dell’ispiratore del ‘movimento’, ogni membro del gruppo cominciò a perseguire
la propria inclinazione umana ed artistica.