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Introduzione
Il lutto può essere vissuto per una molteplicità di fattori; si tende, normalmente, a
pensare al lutto come ad una conseguenza della perdita di una persona cara ma in realtà
viviamo il lutto per molti tipi di eventi e fatti eterogenei: la fine di una relazione, l’abbandono,
la perdita di un oggetto e finanche un trasloco. Sono lutti di tenore ben diverso, naturalmente,
ma a certi livelli la psiche non si prende la briga di distinguere di quale tipo di perdita si tratti,
innescando a volte meccanismi di difesa che se non riconosciuti e gestiti possono divenire
patologici.
In questo lavoro mi ripropongo inizialmente di analizzare alcune tra le possibili cause
di lutto con le relative strategie di coping e le conseguenze per arrivare poi ad approfondire il
lutto come tema legato alla perdita, con le reazioni, le strategie, le difese ed infine
l’importanza delle relazioni di aiuto per superare il dolore o, forse, imparare semplicemente a
conviverci trovando comunque nuove strade e motivazioni.
Si tende a definire chi subisce la perdita come un sopravvissuto ed a ben guardare è
effettivamente così: un sopravvissuto ad un disastro emotivo. Sono molti i lavori che trattano
del disturbo post-traumatico da stress o delle conseguenze psichiche ed emotive patite dai
sopravvissuti a disastri aerei, a naufragi, ad incidenti gravi ma pari dignità hanno, per i
sopravvissuti ad un lutto, le conseguenze della catastrofe emotiva derivata dalla perdita non
solo della persona cara ma di tutto il corollario di vita che attorno ad essa era stato costruito: si
tratta evidentemente di uno stato di shock e disorientamento non meno profondo di quello che
può patire chi riemerga dalla carcassa di un aereo con la differenza che non vi sono evidenze
fisiche dell’incidente avvenuto, poiché le ferite sono tutte emotive ma non per questo si tratta
di ferite meno gravi.
Riemergere con le proprie forze da quello stato non è sempre possibile, diventano
essenziali le relazioni parentali ed a volte quelle amicali ma a mio parere la relazione
fondamentale è quella terapeutica, l’unica che può veramente portare il “sopravvissuto” ad
essere conscio della sua essenza e degli strumenti che ha a disposizione per continuare il suo
percorso, anche se i presupposti sono cambiati.
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Una terapia ben condotta può infatti portare il paziente a riscoprire sé stesso, le sue
motivazioni ed i suoi orizzonti, indipendentemente da quelli che possono essere stati i suoi
investimenti emotivi quando motivazioni ed orizzonti erano condivisi con la persona amata, se
si tratta della perdita del partner, o con altri affini, nel caso di legami parentali molto stretti; la
“riscoperta” di questi aspetti può finalmente condurre il paziente a vivere una vita piena, cosa
che comprende anche la possibilità di creare nuovi legami e nuove condivisioni, come ben
rilevano Andolfi e D’Elia: «Una conclusione è tuttavia evidente ed esplicita: il processo del
lutto si arresta laddove è assente una consapevolezza del dolore e la possibilità che esso
venga messo in circolazione ovvero condiviso con persone che esercitino un’efficace funzione
consolatoria».
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Secondo Roberto Assagioli, fondatore della Psicosintesi, il lutto non viene cancellato
ma il dolore associato viene “dimenticato”: si ridimensiona trovando uno spazio adeguato in
quella che è una visione ampliata del sé. Il processo di trasformazione, catarsi e liberazione
che sbloccano l’energia psichica congelata nella depressione, danno all’individuo lo stimolo
per andare avanti, progredire, crescere e liberarsi dai lacci del dolore.
Ecco che quindi «L’elaborazione del lutto dovrà quindi consistere anche
nell’elaborazione di un nuovo rapporto con il mondo. »
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L'attore fondamentale della sopravvivenza alla situazione luttuosa rimane, comunque
ed indipendentemente dall'aiuto, chi vive il lutto: è l'unico che può veramente determinare se
sopravvivere o essere travolto dall'onda emotiva ma è altrettanto certo che ben difficilmente
potrà riuscirci da solo senza rischiare di limitarsi ad accantonare il dolore senza elaborarne le
cause.
1 Andolfi – D’Elia, Le perdite e le risorse della famiglia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p. 9
2 Verena Kast, L’esperienza del distacco, Red edizioni, Como, 1996, Pag.11
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CAPITOLO 1
Il lutto.
«Alla sua tomba come a tutte quelle su
cui piansi, il mio dolore fu dedicato
anche a quella parte di me stesso che
vi era sepolta. »
Italo Svevo – La coscienza di Zeno
1.1 Cos’è il lutto? Cause, genesi, aspetti culturali ed emotivi.
«Non c'è immagine più irreale del volto bianco di un figlio adolescente morto e
adagiato in una bara, non c'è strazio più gelido che sentire alle spalle i necrofori che di quella
bara portano il coperchio, non c'è fragore più lancinante di una saldatrice che la chiude, di
un martello che l'inchioda. È in questi suoni, immagini, gesti, tragici, inevitabili e in fondo
banali, che eliminano per sempre il corpo, la fisicità di una persona amata, che Nanni Moretti
colpisce al cuore lo spettatore.»
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scriveva Natalia Aspesi su La Repubblica l’8 marzo 2001 a
proposito del film “La stanza del figlio” di Nanni Moretti.
Quando si parla di “lutto” si tende subito a rivolgersi verso la perdita di una persona
cara, il coniuge, un figlio, un genitore; chi vive un lutto, una perdita di questo genere, ha la
sensazione che tutto finisca li e non possa più continuare in alcun modo, gli sembra che niente
abbia più senso e niente di quello che ha vissuto fino a quel momento sia servito a qualcosa, e
che niente servirà più.
Il lutto è la perdita di una parte di noi: non è tanto la perdita della persona o
dell’oggetto amato ma di quello che lui rappresentava per noi, o meglio di quello che
rappresentava all’interno di un “noi”.
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N. Aspesi, La Repubblica, 8 marzo 2001
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In preda ad uno shock, il lugente (“lutto” proviene dal latino “lugere”, cioè piangere )
si rifugia, a volte, nei ricordi o in qualcosa che richiami quel passato tanto caro e finisce per
dimenticarsi di vivere.
In realtà si può vivere il lutto anche per molte altre situazioni tanto che, di fatto, si può
definire il lutto come la perdita di un equilibrio speciale, di una realtà consolidata e
confortante alla quale si è profondamente abituati. Ecco che al pari della perdita di una
persona amata anche il perdere un amico, l’animaletto di casa, il lavoro, una certezza, un
sogno, un oggetto particolarmente caro, può configurare, in misura più o meno profonda, un
lutto. Freud in “Lutto e melanconia” scriveva: «Il lutto, di regola, è la reazione alla perdita di
una persona amata o di una astrazione che ne ha preso il posto come la patria, la libertà, un
ideale ecc. »
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e ancora: «in cosa consiste il lavoro effettuato dal lutto? » ..omissis.. «l’esame
di realtà ha mostrato che l’oggetto amato non esiste più e ora esige di sottrarre l’intera libido
da ogni forma di legame con questo oggetto. »
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addentrandosi poi in valutazioni relative al
fatto che in caso di forte resistenza ad abbandonare la posizione libidica possano subentrare
aspetti patologici, in particolare di distacco dalla realtà o di psicosi allucinatoria e concludendo
che, comunque, nella normalità questo processo di rispetto della realtà risulti preponderante
tanto che, alla fine e dopo un lavoro prolungato ed impegnativo, il lutto si completi con il
distacco dall’oggetto della libido in modo da rendere nuovamente l’Io disinibito e libero. E’
interessante notare come già Freud stesso avesse identificato il lutto come una condizione non
patologica, distinguendolo dalla melanconia che si connota invece per aspetti patologici.
Dunque il lutto non è una patologia? No, ma può diventare patologica la reazione della
persona all’evento luttuoso ed allora bisogna considerare varie possibilità che conducono a
psicosi, distacchi dalla realtà, disturbi della personalità e molto altro ma temo che si andrebbe
un po’ fuori strada rispetto a quello che stiamo considerando qui e cioè il lutto in sé stesso e
come viverlo e gestirne gli effetti al di là di situazioni patologiche.
La normale gestione del lutto prevede che nell’arco di circa un anno e mezzo si sia in
grado di entrare nello stato di accettazione, anche perché è nella natura umana la capacità di
accettare, e quindi superare, la perdita di una persona cara; la patologia subentra quando
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S. Freud, L’elaborazione del lutto – Scritti sulla perdita, ed BUR minima, Milano, 2013, p. 44
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S. Freud, L’elaborazione del lutto – Scritti sulla perdita, ed BUR minima, Milano, 2013, p. 45
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questa accettazione diviene così difficoltosa da ostacolare il ritorno alla normalità. Secondo
Bowlby una persona con uno stile di attaccamento insicuro è più predisposto ad una deriva
patologica di uno stato di lutto, a causa della sua difficoltà nel gestire le emozioni dolorose
causate dalla perdita.
Perdere una persona di riferimento intimamente profondo è sempre e comunque un
dramma ma emotivamente la configurazione può essere molto diversa: una morte è diversa da
una separazione. La separazione lascia sempre una, più o meno conscia, speranza che le cose
possano “riaggiustarsi”, che tutto possa tornare come prima, anche se ciò può condurre a
nevrosi e distacchi dalla realtà. Una morte porta con se l’aspetto dell’ineluttabilità, chiude
definitivamente le porte di un vissuto che non potrà in alcun modo ripresentarsi, salvo
l’insorgere di comportamenti patologici di sostituzione, idealizzazione o sublimazione.
Se ci soffermiamo a pensare, appare subito evidente che tutte le persone con le quali
abbiamo a che fare portano con loro un lutto di tipo ed entità diverse: una perdita, un
fallimento sul lavoro, un tradimento subito, persino i più piccoli vivono un lutto per
l’abbandono del ciuccio o la perdita del giocattolo preferito. Ognuno vive il proprio lutto come
esclusivo e pervasivo perché un aspetto fondamentale del lutto è come viene vissuto l’evento
che ne è la causa.
La vera causa del lutto è la consapevolezza del “non vissuto”, dell’aver perso il vissuto
e dell’aver perso la possibilità di un vissuto immaginato e programmato, la consapevolezza
della perdita di quello che avrebbe dovuto essere, o di quello che si sarebbe voluto che fosse.
Nel corso della storia sono state individuate, da studiosi diversi, varie fasi o stadi del
lutto; Bowlby nel 1982 identificò quattro fasi:
1. Disperazione acuta. Questa fase è caratterizzata da stordimento e manifestazioni di non
accettazione della perdita. Ha una durata variabile tra alcune ore e una settimana durante la
quale esplosioni di ira o di dolore si alternano ad uno stato di inebetimento ed incredulità
con l’impossibilità di accettare la notizia della morte. A volte si possono anche manifestare
attacchi di panico. Progressivamente, in seguito alla effettiva presa di coscienza
dell’avvenuto, subentra la seconda fase
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2. Intenso desiderio e ricerca della persona deceduta. Questa fase può durare diversi mesi,
anche anni. Si verificano manifestazioni psicosomatiche con dolori fisici, angosce,
singhiozzi, insonnie, ruminazione mentale e pensiero controfattuale nel quale si ragiona su
cosa sarebbe potuto succedere se le cose fossero andate diversamente, se si fosse agito
diversamente. Due sono gli stati d’animo predominanti, che si alternano tra loro: il
convincimento della morte e l’impossibilità di crederci. Sono possibili anche momenti di
collera rivolti verso chi si ritiene responsabile dell’evento, che può anche essere la stessa
persona morta. In questi momenti di non accettazione il pensiero si fa fisso e porta
incessantemente a chiamare la persona scomparsa, a parlarle chiedendo risposte, a cercarla
o vederla nei luoghi usuali. Solo con l’accettazione del fatto che la perdita è definitiva,
rimproveri e collera scompaiono, lasciando il posto ad una profonda tristezza che non fa
intravedere orizzonti e favorendo il passaggio alla terza fase
3. Disorganizzazione e disperazione. In questa fase la realtà comincia ad essere accettata e la
perdita diviene definitiva; la persona si chiude in sé stessa, sempre più affranta, apparendo
apatica ed indifferente. Si presentano spesso insonnia, cali ponderali, mancanza di
significato della vita unitamente ad una presenza costante del ricordo della persona
scomparsa con il conseguente senso di delusione nel realizzare che di tutto il trascorso
insieme rimangono solo ricordi, destinati a sbiadire col tempo, e che niente potrà più
tornare come prima. Al termine di questa fase, che può durare anni e dalla quale è difficile
uscire contando solamente sulle proprie risorse, si passa alla quarta ed ultima fase
4. Riorganizzazione. Gli aspetti più acuti del dolore cominciano ad affievolirsi e incomincia
un percorso di ritorno verso la normalità. Si cominciano a ricordare anche gli aspetti felici
della storia comune con il deceduto, che acquistano peso ed importanza spesso analoghi a
quelli dolorosi, dando luogo a momenti di gioia e tenerezza nel ricordarlo, uniti alla
inevitabile tristezza. L’immagine del defunto viene vissuta internamente.
Tutte le reazioni descritte nelle varie fasi vengono normalmente vissute nel processo di
elaborazione del lutto, a farle identificare come eventualmente patologiche sono l’intensità e la
durata.
Nel 1970, Elizabeth Kubler Ross elaborò il modello a cinque fasi, successivamente alla
definizione dei cinque stadi della reazione alla prognosi infausta individuati nel 1969, teso