7
CAPITOLO 1 - IL BULLISMO SUL POSTO DI LAVORO E I SUOI EFFETTI
SULLA SALUTE MENTALE E SULLA SODDISFAZIONE LAVORATIVA
1. Il Bullismo sul posto di lavoro
Essere vittima di comportamenti aggressivi e ostili in costanza di lavoro rappresenta uno
dei rischi psicosociali che possono incidere - in misura maggiore e in modo negativo -sulla
salute del lavoratore e sul funzionamento ottimale delle organizzazioni. A partire dagli
ultimi decenni del Novecento, l’interesse della ricerca scientifica per il fenomeno del
bullismo sul posto di lavoro si è sviluppato notevolmente. Le radici del fenomeno sono
riscontrabili - già a partire dagli anni Settanta - all’interno dell’opera “The harassed worker”
dello psichiatra americano Carroll Brodsky (1976), in cui l’autore riportava i vissuti di
alcuni lavoratori costretti a subire persistenti molestie durante l’orario lavorativo da parte
di colleghi e/o superiori. L’autore si riferiva alle molestie sul luogo di lavoro come tentativi
reiterati da parte di una o più persone di creare sensazioni di fastidio, frustrazione e di
provocare una reazione in un’altra. La consapevolezza crescente della presenza del
bullismo sul posto di lavoro trova spazio in Nord Europa nel corso degli anni Ottanta, al
termine dei quali viene pubblicato il primo vero e proprio studio scientifico che indaga il
fenomeno, ad opera di Leymann (1990). Egli scoprì, studiando i comportamenti di
bullismo che intervenivano nelle interazioni di gioco tra un gruppo di bambini, che tali
comportamenti potevano essere rintracciati anche nelle interazioni tra persone sul luogo di
lavoro. Lo studio condotto da Leymann trova le sue premesse negli studi condotti sul
comportamento del gregge da parte dello psicologo scandinavo Heinemann (1972), il quale
- per riferirsi ai comportamenti di aggressione messi in atto da un gruppo di bambini in
età scolare nei confronti di un bersaglio - utilizzò per primo il termine “mobbing”, coniato
dalla radice inglese “mob” che significa “moltitudine”, “folla”. Successivamente, diversi
studi norvegesi hanno affermato che il bullismo sul posto di lavoro rappresentava un
fenomeno con elevata incidenza all’interno delle organizzazioni (Einarsen, Raknes e
Matthiesen, 1994). In Europa, il termine “mobbing” venne utilizzato nei Paesi di lingua
germanica, nei Paesi Bassi e Scandinavi e da alcuni Paesi nell’area del Mediterraneo,
mentre il termine “bullismo”(“bullying”, in inglese) venne utilizzato dai Paesi anglofoni.
8
Tuttavia, negli Stati Uniti si faceva riferimento al bullismo sul posto di lavoro attraverso le
espressioni di “abuso emotivo sul luogo di lavoro” (Keashly, 1998) e di “molestie sul posto di
lavoro”, sopra citate in riferimento alla definizione di Brodsky (1976). Indipendentemente
dall’etichetta associata al fenomeno, tutte le definizioni del costrutto presentano le
medesime caratteristiche in comune che è possibile riassumere nella concomitanza di
comportamenti aggressivi ripetuti per lungo tempo nei confronti di un bersaglio – da una
parte – e dalla tendenza di quest’ultimo a percepire come ostili tali azioni. Tale visione del
fenomeno è assimilabile alla definizione coniata da Einarsen e Raknes (1997), i quali
considerano bullismo sul posto di lavoro «tutte quelle azioni e pratiche di aggressione
interpersonale reiterate che sono dirette verso uno o più lavoratori, considerate indesiderate dalla
vittima, e che nel loro svolgimento, sia esso intenzionale o inconsapevole, causano umiliazione,
offesa e angoscia e possono interferire con le prestazioni lavorative e/o causare un ambiente di lavoro
sgradevole» (Einarsen e Raknes, 1997, p.250). A ciò va aggiunta la difficoltà della vittima a
difendersi dagli atti negativi perpetrati nei suoi confronti (Einarsen, 2000). Tra gli atti
negativi rientrano le molestie, le offese, l’esclusione sociale o l’influenza negativa al lavoro
nei confronti della vittima, ma affinchè si possa parlare di atti di bullismo è necessario che
le azioni negative nei confronti della vittima si realizzino in maniera ripetuta e costante
(ad esempio, due volte a settimana) per un lasso di tempo definibile (ad esempio, sei
mesi). Il verificarsi delle predette condizioni rende il bullismo un profondo processo di
escalation durante il quale la persona che subisce atti negativi in maniera sistematica è
collocata in una posizione di inferiorità rispetto a chi agisce (Einarsen, Hoel, Zapf &
Cooper, 2003). In assenza dello squilibrio di potere tra le parti – ovvero laddove vittima e
carnefice si trovino sullo stesso piano - e qualora si verifichi un evento isolato, si ha
davanti una mera situazione di conflitto non sovrapponibile con il fenomeno del bullismo
sul posto di lavoro. La specificazione delle predette condizioni - necessarie per poter
riconoscere un atto di bullismo sul posto di lavoro - introdotte da Zapf e Einarsen (2011),
ha portato all’individuazione di quattro caratteristiche del fenomeno:
Frequenza – si riferisce al numero di volte nell’arco della settimana in cui si
verificano le azioni negative nei confronti del bersaglio (Einarsen et al., 2011);
9
Persistenza – in riferimento alla durata nel tempo del verificarsi di atti negativi sul
posto di lavoro nei confronti del bersaglio. Solitamente, il lasso di tempo indicato
dai ricercatori varia da sei a dodici mesi (Einarsen et al., 2011);
Ostilità – caratteristica che sta ad indicare il conflitto negativo che arma le azioni dei
bulli;
Squilibrio di potere – fa riferimento all’asimmetria di potere percepita tra le parti,
ovvero tra il bersaglio (posizione inferiore) e l’autore del reato (posizione
superiore).
In riferimento a quest’ultima caratteristica citata, l’asimmetria di potere percepita tra
autore e bersaglio del bullismo non si esaurisce nello squilibrio derivante dal potere
gerarchico, che pone implicitamente il superiore gerarchico in una condizione di
preminenza rispetto al subordinato, ma si compone di ulteriori forme di asimmetria
derivanti dalla percezione soggettiva che i soggetti (siano essi singoli o gruppi) hanno gli
uni rispetto agli altri (Cowie et al., 2002). Pertanto, atti frequenti e persistenti di bullismo
possono verificarsi: secondo una logica top-down, ovvero da superiore a subordinato;
secondo la logica opposta (bottom-up), da subordinato a superiore; tra colleghi e, infine, da
parte dei clienti nei confronti del lavoratore dipendente (Fox e Stallworth, 2010). Di
conseguenza, lo squilibrio di potere percepito nella relazione può portare la vittima di
bullismo a vivere una situazione lavorativa avversa e stressante, in cui lo scarso controllo e
lo sforzo continuo compiuto dall’individuo per sottrarsi dagli atti negativi abitualmente
subiti contribuiscono a generare ingenti danni alla sua salute (Zapf e Einarsen, 2005). Da
alcune ricerche di carattere clinico condotte su un campione di vittime di bullismo sul
posto di lavoro (Einarsen, Raknes & Matthiesen, 1994; Matthiesen, Aasen, Holst &
Einarsen, 2003), si evince che gli individui esposti ad atti di bullismo in costanza di lavoro:
a) percepiscono il bullismo come atti negativi di carattere intenzionale e diretto nei loro
riguardi; b) sperimentano difficoltà nei tentativi di elusione; c) non ricevono un adeguato
supporto sociale che attenui le conseguenze dei comportamenti negativi subiti; d) sono
vulnerabili a livello sociale e/o personale; e) reputano le sanzioni impartite nei confronti
degli autori delle aggressioni come inique o, contrariamente, sovradimensionate. Uno
10
studio metanalitico di Aquino e Thau (2009) utilizza il termine “vittimizzazione sul posto di
lavoro” per sottolineare l’incidenza del bullismo sul benessere della vittima, capace di
ostacolare il perseguimento dei suoi bisogni psicologici e/o fisiologici come, ad esempio, il
senso di appartenenza e la capacità cognitiva di controllare l’ambiente e agire su esso. In
conclusione, i ricercatori che si occupano del fenomeno hanno attribuito ad esso etichette
differenti (da “mobbing” a “bullismo”) che, in realtà, implicano una concettualizzazione
simile del bullismo sul posto di lavoro. Tuttavia, la ricerca scientifica che si è concentrata
sul comportamento dei “bulli”, autori dei comportamenti negativi, si riferisce al fenomeno
prevalentemente con il termine “bullismo” (workplace bullying, in lingua inglese), mentre la
compagine, che ha posto il focus dell’osservazione scientifica sul processo di
vittimizzazione e sulle conseguenze che i comportamenti negativi subiti hanno sulle
vittime, utilizza in misura prevalente il termine “mobbing”. Leymann (1996) sosteneva che
quest’ultimo fosse il termine più adatto per parlare di fenomeni che riguardano persone
adulte che tendono ad utilizzare minuziose forme di aggressione verbale, passiva e
indiretta nei confronti delle vittime, rispetto a forme di aggressione tipicamente fisiche e
dirette alle quali si faceva riferimento con il termine “bullismo” (Einarsen, Hoel, Zapf, &
Cooper, 2003b; Keashly & Harvey, 2005). Eppure, la sua affermazione non trova riscontro
in evidenze empiriche dove le diverse etichette trovano applicazione in maniera coerente e
indifferenziata, riferendosi al medesimo fenomeno di fondo. Ciò risulta vero, in virtù del
fatto che la maggior parte delle ricerche condotte in questo ambito indirizza la propria
attenzione verso l’indagine del fenomeno spesso passato inosservato – e del quale è
difficile stabilire la prevalenza nelle organizzazioni – piuttosto che concentrarsi sulla
produzione di una linea teorica da porre alla base del costrutto (Zapf e Einarsen, 2005).
Le premesse scientifiche suggeriscono, in definitiva, che il bullismo rappresenta un
fenomeno continuo e negativamente connotato che ha assunto – e continuerà ad assumere
– uno spazio fondamentale nella ricerca della psicologia delle organizzazioni. Partendo
dall’assunto per cui il bullismo sul posto di lavoro è frutto di interazioni tra svariati fattori
psicosociali, culturali e individuali, i paragrafi seguenti si focalizzeranno in particolare
sull’analisi degli antefatti e delle conseguenze del fenomeno, offrendo una panoramica
11
delle caratteristiche degli attori sociali (ovvero bullo/i e vittima/e) e dell’ambiente
lavorativo in cui il fenomeno trova terreno fertile per insidiarsi nel tessuto sociale delle
organizzazioni.
1.1. Antecedenti individuali del bullismo sul posto di lavoro: caratteristiche
dell’autore e del bersaglio
É comune pensare che il bullismo sul posto di lavoro si verifichi in corrispondenza delle
caratteristiche di personalità, dell’autore del reato e del bersaglio, che ben si conciliano con
la messa in atto di comportamenti avversi e minacciosi. Tuttavia, le ricerche condotte in
tale campo asseriscono che la personalità degli attori sociali è solo una delle determinanti
del fenomeno, poiché quest’ultimo si compone anche di antecedenti organizzativi e a
livello di gruppo (Zapf e Einarsen, 2005). Partendo dall’analisi delle caratteristiche
psicologiche e di status del bersaglio, Zapf e Einarsen (2005) suppongono che non esista un
profilo di personalità del bersaglio definito a tal punto da poter predire che gli individui
con profilo corrispondente possano essere sicuramente vittime di atti di bullismo al lavoro.
Uno studio norvegese di Matthiesen e Einarsen (2001), correlato a questo presupposto, ha
cercato di definire un profilo di personalità del bersaglio analizzando un campione di 85
bersagli di bullismo avvalendosi dello strumento del Minnesota Multiphasic Personality
Inventory (MMPI-2; Hathaway e McKinley, 1997). I risultati hanno portato alla definizione
di diversi profili di personalità collegati al bullismo sul posto di lavoro. Inoltre, solo alcuni
tra i bersagli riportano uno specifico fattore di vulnerabilità, e la fragilità degli individui è
più evidente se essi soffrono di problemi mentali preesistenti rispetto al momento
dell’esposizione ad atti di bullismo. Concretamente, i loro risultati dimostrano come le
persone, con scarsa fiducia in se stesse e con alti livelli di ansia in situazioni sociali,
abbiano maggiori probabilità di percepirsi vittime di bullismo e meno probabilità di
sapervi far fronte. Persson e coll. (2009) hanno scoperto, invece, come i target riportino
livelli più elevati di nevroticismo ed estroversione. D’altro canto, ulteriori studi sulla
personalità dei soggetti target confermano gli elevati livelli di nevroticismo ma avversano
quanto dimostrato da Persson e dai suoi collaboratori in merito all’estroversione del target,
sottolineando invece come quest’ultimo presenti alti livelli di introversione che lo renda
12
passivo e incapace di reagire ad eventuali comportamenti negativi subiti (Glaso et al.,
2007; Goldberg, 1990). Gli stessi studi di Glaso e coll. (2007) suggeriscono come i target
presentino bassi livelli di piacevolezza (“agreeableness”, in lingua inglese) – rispetto ai non-
target - e che tale caratteristica li renda suscettibili di subire aggressioni per mano altrui, a
causa della loro resistenza a trovare un accordo nelle situazioni di gruppo. Studi
precedenti annoveravano tra le caratteristiche di personalità del target anche livelli elevati
di instabilità emotiva e affettività negativa, riferendosi a quest’ultima come la tendenza
dell’individuo a sperimentare emozioni quali ansia, paura, tristezza e rabbia (Coyne et al.,
2000; 2003; Vartia, 1996; Watson e Clark, 1984). La correlazione positiva tra affettività
negativa dell’individuo e la tendenza di quest’ultimo ad essere facile bersaglio di bullismo
è stata riscontrata anche all’interno dello studio condotto nel 2004 da Aquino e Lamertz, i
quali sostenevano come i dipendenti che apparivano più impauriti, tristi e ansiosi
venissero facilmente selezionati come potenziali target da colpire all’occorrenza. Infine, lo
studio condotto da Glaso, Matthiesen, Nielsen ed Einarsen (2007) ha cercato di fare
chiarezza sul presunto legame tra personalità del target e percezione soggettiva di
bullismo sul posto di lavoro. Lo scopo dello studio era quello di scoprire se ci fossero o
meno differenze di personalità tra un gruppo di vittime di bullismo e un gruppo di
controllo. Entrambi i gruppi erano composti da 72 soggetti lavoratori, per un totale di 144
dipendenti che costituivano il campione complessivo. Attraverso l’impiego del Negative
Acts Questionnaire (NAQ; Einarsen e Raknes, 1997), sono state misurate le percezioni da
parte del campione di essere stato esposto ad episodi di bullismo. D’altra parte, per
rilevare le caratteristiche di personalità prevalenti del campione, è stato impiegato
l’International Personality Item Pool (IPIP; Goldberg, 1990), che si riferisce alla misurazione
delle cinque dimensioni, note come “Big Five”: estroversione, amicalità, coscienziosità,
stabilità emotiva e apertura mentale. L’analisi di correlazione mediante il coefficiente r di
Pearson, effettuata sui punteggi ottenuti dal campione delle vittime nella compilazione del
NAQ e dell’IPIP, ha rilevato una moderata e significativa correlazione positiva (r= 0,47; p<
0,01) tra instabilità emotiva ed esposizione al bullismo, e una debole ma significativa
correlazione negativa (r= -0,21; p< 0,05) tra estroversione ed esposizione al medesimo
13
fenomeno. Pertanto, lo studio conferma che gli individui che presentano tratti di
introversione e instabilità emotiva hanno maggiori probabilità di essere esposti al bullismo
sul posto di lavoro. Tuttavia, sono emerse differenze significative tra i due campioni in
merito a quattro dei cinque tratti di personalità analizzati: il campione composto dalle
vittime si presentava (soprattutto) come più instabile a livello emotivo e meno amichevole,
coscienzioso ed estroverso rispetto al gruppo di controllo. I risultati ottenuti da questa
ricerca indicano che, nelle analisi volte alla comprensione dell’insorgenza del bullismo sul
posto di lavoro, non si possono trascurare le dimensioni di personalità. Oltre alla
personalità, ci sono anche altre caratteristiche individuali che tendono a mettere il soggetto
in una posizione di inferiorità e a renderlo, conseguentemente, target di atti di bullismo sul
posto di lavoro. Tra queste caratteristiche riguardanti il background sociale dell’individuo,
l’appartenenza a minoranze etniche può determinare l’insorgenza di pratiche di bullismo
nei confronti del target. In uno studio di Lewis e Gunn (2007), condotto nell’ambito del
settore pubblico del Regno Unito, gli intervistati appartenenti a minoranze etniche, dopo
essere stati adibiti a lavori umili e generalmente preda di atti negativi, riportavano una
maggiore propensione a percepirsi come vittime di bullismo rispetto agli intervistati
bianchi che erano stati obbligati a svolgere le medesime mansioni. Tra i risultati, inoltre,
gli autori dichiaravano che le minoranze etniche avevano quattro volte più probabilità di
essere vittime di bullismo sul posto di lavoro - e più di nove volte probabilità di dover
affrontare critiche e richieste di lasciare l’organizzazione da parte dei colleghi – rispetto ai
bianchi. Diversi studi dimostrano come anche l’appartenenza a minoranze di genere sul
posto di lavoro possa favorire maggiormente l’esposizione al bullismo (Eriksen e Einarsen,
2004). In merito alla questione del genere, alcuni studi evidenziano come gli individui di
genere femminile abbiano più probabilità rispetto alla compagine maschile di essere
vittime di bullismo sul luogo di lavoro, sia per mano di uomini che di donne. I maschi,
invece, tendono ad esser presi di mira da persone dello stesso sesso (Hoel et al., 1999).
Altri studi, in direzione contraria, affermano che ci sia poca o nessuna differenza tra i
generi ad essere target di atti di bullismo (Einarsen e Skogstad, 1996; Leymann, 1996). In
merito alla questione dell’età, sebbene Einarsen e Skogstad (1996) ritenessero i dipendenti
14
di anzianità maggiore come più esposti ad eventuali atti di bullismo all’interno
dell’organizzazione, sono stati segnalati – così come per il genere - risultati controversi
che lasciano aperto il sipario sulle implicazioni delle caratteristiche demografiche e
anagrafiche sul fenomeno del bullismo in ambito organizzativo (Vartia, 1996). In
conclusione, è fondamentale sottolineare come una vasta gamma di ricerche abbia rivelato
come i target condividano molte caratteristiche con gli autori delle condotte bullizzanti
(Hershcovis e Reich, 2013). Dunque, progettare sistemi di selezione del personale basati
sull’esclusione dei potenziali dipendenti che manifestino caratteristiche di personalità
corrispondenti con quelle che delineano il profilo dell’autore di bullismo può indurre in
errore, rischiando di eliminare candidati validi. La caratteristica psicologica che accomuna
maggiormente il bullo e il target è la scarsa autostima, presente in entrambi. Uno studio
condotto in Norvegia da Matthiesen e Einarsen (2007), su un campione di 2200 lavoratori
dipendenti, ha rivelato come i bulli, i quali, percependo se stessi come individui
prepotenti, presentavano alti livelli di aggressività e bassi livelli di autostima, e che la
bassa autostima si manifestava nel momento in cui i bulli giudicavano se stessi come
potenziali vittime di bullismo. Ciò avveniva in virtù del fatto che i ricercatori si trovassero
di fronte ad individui poco competenti e molto ansiosi sul piano sociale che venivano
considerati dei “target provocatori”, vale a dire soggetti in grado di esercitare bullismo in
via cautelativa, al fine di proteggere la propria autostima (Zapf e Einarsen, 2003). Eppure,
la comunità scientifica ha svolto molte meno ricerche volte all’ individuazione degli
antecedenti associati alla figura del “bullo”, autore di comportamenti negativi. Spostando
il focus nella direzione dell’autore del bullismo, i lavoratori con alto carico di lavoro e
bassa autonomia lavorativa hanno maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti
negativi nei confronti di terze persone (Baillien et al., 2011). Di conseguenza, lo stress
elevato sperimentato dalle persone in ambito lavorativo può predire l’insorgenza di
comportamenti di bullismo (Hoel et al., 1999). In uno studio del 2009, avente ad oggetto la
job in security, condotto da De Cuyper, Baillien e De Witte, è stato evidenziato come la
precarietà del lavoro possa essere considerata un fattore di stress capace di indurre il
lavoratore, che vive tale condizione, ad assumere comportamenti di bullismo in ambito
15
organizzativo. Per di più, gli autori dello studio sostenevano che i dipendenti che
percepivano di avere più chance di essere assunti presso altre organizzazioni possedevano
anche maggiori probabilità di praticare bullismo nei confronti di altri lavoratori all’interno
dell’organizzazione in cui erano effettivamente impiegati. Quest’ultima constatazione
dello studio implica che gli individui che percepiscono di avere diverse chance
occupazionali altrove sono più propensi ad assumersi dei rischi nell’organizzazione in cui
lavorano attualmente, tra i quali rientra il rischio di mettere in atto comportamenti di
bullismo. Al di là di quanto considerato finora, sulla figura del bullo grava lo stereotipo
secondo cui il bullo si comporti come tale a causa della sua personalità da aggressore e
prepotente. Diversi studi hanno riscontrato un fondo di verità in tale affermazione,
sottolineando come i colpevoli di bullismo manifestino tratti di personalità negativi come
il narcisismo (Penney e Spector, 2002), l’ansia di tratto (Fox e Spector, 1999) e la rabbia
(Hershcovis et al., 2007). Uno studio esplorativo diretto da Seigne, Coyne, Randall e Parker
(2007) ha tentato di definire le caratteristiche di personalità che distinguevano i bulli dai
non-bulli, impiegando un campione di 300 lavoratori. Avvalendosi di interviste volte a
comprendere se tra il campione ci fossero individui che ritenevano di aver praticato
bullismo nell’arco della loro vita lavorativa, il campione è stato diviso in due sottogruppi,
ovvero “bulli” (che ritenevano di essersi comportati come tali) e “non-bulli”, prima di
proseguire l’analisi. Successivamente, per analizzare i tratti di personalità del campione, i
ricercatori hanno impiegato l’inventario della personalità CIEM (Bertram; 1998) – basato
sui cinque fattori di personalità individuati da Costa e McCrae (1992), particolarmente
adatto al lavoro, e che presentava quattro scale principali denominate Indipendenza,
Coscienziosità, Estroversione e Stabilità emotiva – e l’Interpersonal Behavioral Survey (IBS;
Mauger et al.; 1980), strumento psicometrico clinico capace di indagare l’eventuale
presenza di comportamenti assertivi e aggressivi nell’individuo. Tra il gruppo dei bulli e
quello dei non-bulli è emersa una differenza significativa sui punteggi nella scala
“Indipendenza” del CIEM, stando ad indicare che, in media, i bulli tendono ad essere più
competitivi, assertivi e predisposti a reggere situazioni di conflitto rispetto ai non-bulli.
Inoltre, in merito ai risultati provenienti dall’impiego dello strumento clinico dell’IBS, la
16
presenza di punteggi maggiormente elevati per il gruppo di bulli nella scala General
Aggression rational (Ggr) indica che essi presentano concentrazioni elevate di sentimenti e
comportamenti aggressivi e che sono in grado di darvi sfogo sul posto di lavoro nei
confronti di altri individui. Punteggi elevati nella scala di Atteggiamento Ostile (HS) per il
gruppo dei bulli denotano la tendenza di questi individui ad assumere un approccio
antagonista verso gli altri, nel quale l’aggressività è esercitata come mezzo per
raggiungere il successo competitivo e/o per difendersi preventivamente da eventuali
minacce per mano di altri. L’aggressività, di cui sono portatori i potenziali bulli, contiene
una matrice verbale, che indica le particolari doti dell’aggressore nel saper “maneggiare”
le parole per creare un danno ad altri, e una matrice fisica. In aggiunta ai risultati
dell’ultimo studio sopra descritto, diverse sono state le ricerche che hanno constatato come
i punteggi elevati dei potenziali bulli nelle scale di Indipendenza, presenti nei diversi
questionari di personalità adottati, derivino dall’attitudine di questi soggetti ad agire in
solitaria e senza la necessità di essere socialmente accettati: caratteristiche personali in
accordo con la visione della figura del bullo come individuo egocentrico (Randall, 2001).
Degna di nota, infine, è l’ipotesi secondo cui la cultura nazionale influenzi la probabilità di
insorgenza del bullismo negli ambienti lavorativi. Infatti, considerando la dimensione
culturale della “distanza dal potere” (Hofstede, 1980), nei Paesi dove la distanza di potere
è più elevata c’è una percentuale di potenziali bulli più elevata e, di conseguenza, un tasso
più alto di bullismo nelle organizzazioni, accompagnato dal fatto che i comportamenti dei
bulli restano spesso impuniti (Loh et al., 2010). In conclusione, è possibile affermare che le
caratteristiche relativamente stabili di personalità, assieme alle differenze etniche, di
genere e anagrafiche rappresentino antecedenti individuali fondamentali per continuare la
ricerca sul fenomeno del bullismo sul posto di lavoro. Inoltre, è degno di nota, secondo gli
studi di Aquino e Lamertz (2004), il fatto che i dipendenti che mettono in atto condotte
bullizzanti nei confronti di un target possano provocare in esso l’assunzione di
comportamenti analoghi nei confronti dei loro sicari - in segno di rivalsa – e non solo. Ecco
perché, spesso, dietro la figura del bullo si nasconde il passato di una persona che è stata
bersaglio di comportamenti negativi compiuti da altri (Hauge, Skogstad e Einarsen, 2009).