4
la novità dell’argomento e la carenza di strumenti di analisi, aveva definito “un
vicolo cieco”. Ad un primo sguardo, l’impressione può sembrare reale,
principalmente perché quando si parla di comunicazione non verbale questa
viene spesso identificata con il linguaggio del corpo. Tuttavia, se da un punto di
vista antropologico l’associazione è esatta, quando il contesto muta e diventa
quello della pubblicità televisiva, l’identificazione non è più sufficiente e rischia
di trascurare molti altri aspetti. Sono stati loro a guidarmi alla scoperta degli
strumenti di analisi adeguati.
Uno spot è, infatti, essenzialmente un film di dimensioni microscopiche e, in
quanto tale, partecipa degli stessi codici linguistici utilizzati dal cinema. Dunque,
oltre al linguaggio del corpo degli attori sulla scena, entrano in gioco le luci e i
colori utilizzati, la musica e gli eventuali altri suoni e, soprattutto, il modo in cui
tutti questi elementi vengono orchestrati dal regista servendosi delle tecniche
cinematografiche. Un primo piano che evidenzi l’espressione di un attore può
giocare un ruolo molto importante ai fini della comprensione del messaggio
globale da parte dello spettatore.
Partendo da queste considerazioni, ho ritenuto opportuno suddividere la
ricerca in due momenti principali: la prima parte, più generale e comprendente il
primo e il secondo capitolo, consiste nell’acquisizione degli strumenti necessari
all’analisi che verrà condotta nella seconda parte, identificabile principalmente
con il terzo capitolo ma, in realtà, estesa fino al quarto.
Più nello specifico, nel primo capitolo osserverò l’interazione comunicativa dal
punto di vista non verbale, all’interno del contesto reale: affronterò il problema
dell’intenzionalità e prenderò in considerazione le funzioni della comunicazione
più interessanti ai fini della mia ricerca. Traslerò poi queste considerazioni,
relative alla comunicazione non verbale, nel contesto sotto esame, quello dello
spot, ipotizzando, per una analisi corretta del problema, l’utilizzo necessario di
due strumenti: uno più propriamente antropologico o, meglio, psicologico,
legato al linguaggio del corpo, l’altro cinematografico, legato al linguaggio della
macchina da presa. Partendo dall’importanza fondamentale che la concordanza
tra i codici riveste all’interno della comunicazione e passando attraverso la
ricerca condotta da Antonio Miotto sul rapporto tra immagine e parola nel
messaggio pubblicitario, arriverò, infine, ad interrogarmi sulla mia ipotesi:
affinché il messaggio lanciato allo spettatore attraverso lo spot sia chiaro e
5
soprattutto efficace, l’apporto della comunicazione non verbale è davvero
decisivo? E in che termini?
Prima di poter rispondere a queste domande e verificare la mia ipotesi, dovrò
reperire gli strumenti di analisi già citati, seguendo un doppio approccio, “psico-
antropologico” e cinematografico: sarà questo il compito principale del secondo
capitolo. La prima parte sarà dedicata all’analisi dei segnali utilizzati dal
linguaggio del corpo, la seconda agli strumenti significanti di cui si serve la
macchina da presa.
A questo punto, armata degli strumenti adeguati, potrò affrontare l’analisi
delle due campagne in esame. Nel terzo capitolo, Pagine Gialle e Pagine Utili si
scontreranno sul campo della comunicazione non verbale.
Nel quarto, infine, la parola passerà all’unico e vero giudice della situazione, il
telespettatore, che decreterà il vincitore in termini di gradimento e di “mercato”
ed esprimerà il giudizio finale: “la comunicazione non verbale promuove Pagine
Gialle. Pagine Gialle promuove la comunicazione non verbale”.
Il segreto del vincitore? Coerenza e innovazione nella continuità. Il loro
regista? La comunicazione non verbale.
6
I. LA COMUNICAZIONE: UN COCKTAIL DI INGREDIENTI VERBALI E NON
VERBALI.
I.1. Il COCKTAIL NELLA REALTÀ.
Viviamo in una realtà in cui la tecnologia sta trasformando rapidamente lo stile
della comunicazione umana, che viene mediata in misura crescente da mezzi
elettronici. Se ciò da un lato permette di comunicare a grandi distanze e con un
numero esteso di persone, dall’altro non consente tutta la ricchezza e le
possibilità della comunicazione faccia a faccia.
Un’analisi dettagliata di un’interazione comunicativa comporta l’individuazione
degli elementi che la compongono e la messa a fuoco della sua struttura.
L’unità minima di analisi è l’atto comunicativo. Pio E. Ricci Bitti
1
lo definisce
come “la più piccola unità suscettibile di essere parte di uno scambio
comunicativo, che una persona può produrre con un’unica e precisa intenzione.
Può essere costituito anche dalla produzione di una sola parola, di un gesto, più
spesso di una combinazione di elementi verbali e non verbali”.
Partendo dal modello elaborato da Tatiana Slama-Cazacu
2
, per avere un atto
di comunicazione sono essenziali almeno sei fattori:
- l’emittente, vale a dire chi produce il messaggio;
- il codice, che è il sistema di riferimento in base al quale il messaggio viene
prodotto;
- un messaggio, che è l’informazione trasmessa e prodotta secondo le regole
del codice;
- un contesto in cui il messaggio è inserito e a cui si riferisce;
- un canale, vale a dire un mezzo fisico-ambientale che rende possibile la
trasmissione del messaggio;
- un ricevente che è colui che riceve e interpreta il messaggio.
In prima approssimazione, quindi, la comunicazione è il processo che
consiste nel trasmettere o nel far circolare delle informazioni, cioè un insieme di
dati tutti o in parte sconosciuti al ricevente prima dell’atto comunicativo.
1
Pio E. Ricci Bitti e Bruna Zani, La comunicazione come processo sociale, (“Istituzioni di psicologia”),
Bologna, Il Mulino, 1983, p.23.
2
Tatiana Slama-Cazacu, Introduzione alla psicolinguistica, Bologna, Patron, 1973.
7
È importante che emittente e ricevente condividano lo stesso codice, perché
solo così può aver luogo il processo di decodifica, cioè di comprensione del
messaggio.
Canale Contesto
Emittente Messaggio Ricevente
Codifica Decodifica
La relazione tra emittente e ricevente è bilaterale e reversibile nel senso che
ciascun partner presenta la possibilità di assumere anche il ruolo dell’altro.
Sta in questa relazione la differenza fondamentale tra la comunicazione reale
e la comunicazione cinematografica. Nello spot, il ricevente è doppio: uno
occupa la scena, l’altro sta al di là dello schermo e mentre la relazione è
bilaterale per il ricevente che sta sulla scena, non lo è per lo spettatore, che
riveste un ruolo sostanzialmente passivo.
Il problema principale, sotteso a queste due riflessioni, è: fino a che punto la
comunicazione, soprattutto a livello non verbale, può definirsi spontanea
all’interno di uno spot? Per ora affrontiamo il quesito partendo dal contesto della
comunicazione reale. Più avanti lo trasferiremo nel contesto più specifico dello
spot.
I.1.1. Il PROCESSO DI CODIFICA E IL PROBLEMA DELL’INTENZIONALITÀ.
Il momento dell’emissione di un messaggio è caratterizzato dalla necessità di
trasformare un contenuto psichico in un fatto obiettivo, per trasmetterlo
all’interlocutore.
Il processo di codifica coinvolge una serie complessa di operazioni a livello
cognitivo, emotivo-affettivo, interpersonale: questi aspetti, nella realtà, si
presentano strettamente connessi e interdipendenti.
Alcuni studiosi, tra cui E. Goffman
3
, hanno osservato che il contenuto di un
messaggio può essere dissociato dalla qualità o stile con cui quel messaggio
viene espresso. In altre parole, ogni messaggio contiene, oltre ad un contenuto
3 E. Goffman, The Presentation of Self in Every Day Life, New York, Doubleday, 1959, (trad. it. La vita
quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969), (citato da P.E. Ricci Bitti e Bruna Zani, La
comunicazione come processo sociale, (“Istituzioni di psicologia”), Bologna, Il Mulino, 1983, p.26).
8
esplicito (la “notizia”), anche un aspetto che specifica il modo in cui il messaggio
deve essere considerato e quale è la natura della relazione tra le persone
coinvolte nell’interazione. Questo aspetto, definito di metacomunicazione, in
quanto costituisce un’ulteriore comunicazione sulla comunicazione in atto,
generalmente fornisce delle informazioni su come l’emittente si autodefinisce, e
quindi informa sulla definizione della relazione stessa.
Due sono le possibilità disponibili nella comunicazione per far riferimento agli
oggetti: o rappresentarli con un’immagine esplicativa o assegnare loro un
nome.
Nel primo caso si utilizza un codice analogico, con cui si intendono
praticamente tutti gli aspetti non verbali della comunicazione (posizione del
corpo, gesti, espressione del viso, inflessione della voce); nel secondo caso si
usa un codice numerico, consistente nella comunicazione mediante la parola.
P. Watzlawick, J.H. Beavin e D. D. Jackson
4
hanno messo in evidenza le
caratteristiche di questi moduli comunicativi, affermando che il linguaggio
numerico dispone di una sintassi logica complessa e di estrema efficacia,
soprattutto quando si tratta di scambiare informazioni sugli oggetti, ma manca di
una semantica adeguata per definire la relazione esistente tra gli interlocutori.
Il linguaggio analogico, invece, ha la semantica ma non ha alcuna sintassi
adeguata per definire in modo non ambiguo la natura delle relazioni.
L’uomo deve perciò combinare questi due linguaggi in fase di codifica (ed
ovviamente anche di decodifica) e deve costantemente tradurre dall’uno
all’altro, operazione assai difficile perché si può incorrere in una serie di errori.
I problemi di codifica che un soggetto incontra più di frequente possono
riguardare aspetti del contenuto di una informazione o aspetti della relazione.
Per quanto si riferisce al contenuto, le diverse strategie di cui il soggetto
dispone per codificare una data informazione, si basano sulla consapevolezza
da lui posseduta a proposito del significato. Il soggetto deve, in altre parole,
essere consapevole della pluralità di significati sottostante alla unicità del
segno, pluralità legata ai diversi contesti oltre che ai diversi interlocutori. Ogni
termine ha un’area più o meno grande di incertezza o ambiguità. Per realizzare
effettivamente una comunicazione occorre utilizzare un linguaggio che
4
P. Watzlawick, J.H. Beavin e D.D. Jackson, Pragmatic of human communication, New York, Norton, (trad.
it. Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971), (citato da P.E. Ricci Bitti e Bruna Zani,
La comunicazione come processo sociale, (“Istituzioni di psicologia”), Bologna, Il Mulino, 1983, p.27).
9
l’interlocutore possa comprendere, assumendo il suo punto di vista. Questa
consapevolezza comporta la capacità di effettuare scelte linguistiche adatte
all’altro, un’azione continua di codifica e ricodifica. In sostanza il soggetto, dopo
aver codificato il messaggio per sé, deve essere in grado di ricodificarlo,
tenendo presente le caratteristiche dell’ascoltatore.
Elemento fondamentale perché la comunicazione sia efficace diventa allora il
feed-back, cioè il controllo da parte dell’emittente dell’esito del messaggio
stesso, che si esercita, ovviamente, anche sugli aspetti non verbali della
comunicazione. Questo costituisce un altro aspetto discriminante tra la
comunicazione reale e quella cinematografica, sul quale dovremo ritornare.
Occorre ora prendere in considerazione il problema dell’intenzionalità della
comunicazione.
P. Watzlawick, J.H. Beavin e D.D. Jackson definiscono esplicitamente
comunicazione qualsiasi comportamento che accade in presenza di un’altra
persona. Non occorre quindi l’intenzione di comunicare. Dal punto di vista della
pragmatica non esiste all’interno del sistema di interazione la possibilità di non
comunicare: “tutto il comportamento, e non soltanto il discorso, è
comunicazione, e tutta la comunicazione influenza il comportamento. Non
importa, quindi, che la comunicazione sia volontaria o meno, che i partecipanti
se ne rendano conto o no: essi si influenzano tra loro inviando informazioni
tramite il proprio comportamento”
5
.
M. Von Cranach
6
ha classificato il comportamento umano in base ad alcune
categorie, riservando il termine “comunicativo” allo scambio di informazioni che
implica l’uso di un codice. In altre parole, definisce interattivo il comportamento
interamente percepibile da ogni partecipante nella interazione e informativo
quello che costituisce un’informazione di per sé, senza essere un segno che
rinvia a qualcos’altro.
Analoga distinzione, applicata in specifico al comportamento non verbale,
viene proposta da P. Ekman e W. V. Friesen
7
. È per questo aspetto, infatti, che
emerge con maggior evidenza il problema e ci si pone l’interrogativo se e
5
P. Watzlawick, J.H. Beavin e D.D. Jackson, Pragmatic of human communication, New York, Norton, (trad.
it. Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971, p. 16).
6
M. Von Cranach, “La communication non verbale dans le contexte du comportement de communication”, in
S. Moscovici (a cura di), Introduction à la psychologie sociale, Paris, Larousse, 1973 (citato da Pio E. Ricci
Bitti e Bruna Zani, La comunicazione come processo sociale, (“Istituzioni di psicologia”), Bologna, Il Mulino,
1983, p.31).
7
P. Ekman e W. V. Friesen, “The repertoire of Nonverbal Behavior”, Semiotica, 1,1969, pp. 49-98.
10
quando esso sia comunicazione. Secondo i due autori il comportamento non
verbale (CNV) può essere informativo, comunicativo, interattivo.
Il CNV informativo comprende gesti aventi un significato condiviso, che
provocano interpretazioni tra loro simili in alcune classi di osservatori. Un gesto
informativo può avere vari significati: essere un semplice messaggio,
enfatizzare alcune parole, esprimere uno stato affettivo transitorio o duraturo.
Il CNV comunicativo comprende quei gesti tramite i quali l’emittente intende
consapevolmente e chiaramente trasmettere un preciso segnale al ricevente.
Il CNV interattivo comprende i gesti che una persona compie in
un’interazione, volti a modificare e influenzare il comportamento interattivo delle
altre persone.
Il problema rappresentato dall’intenzionalità è centrale nell’analisi dell’azione
comunicativa, perché la caratteristica cruciale che distingue la comunicazione
da un semplice flusso di informazioni è che l’emittente abbia l’intenzione di
rendere noto qualcosa ad un dato ricevente.
Non tutti gli studiosi sono d’accordo nel ritenere l’intenzionalità un elemento
discriminante in senso assoluto tra ciò che è comunicativo e ciò che non lo è. Il
problema è complesso e investe soprattutto l’area del comportamento non
verbale. Oggi appare superata la posizione rigida di chi definiva elementi
essenziali di un comportamento comunicativo l’esistenza di un codice e
l’intenzione di comunicare un particolare messaggio in quel codice. L’emittente
può avere l’intenzione di comunicare, ma può anche essere consapevole di
usare, oltre al codice linguistico, una serie di elementi gestuali, mimici, ecc.
Nell’interazione possono verificarsi diverse possibilità: l’emittente può o non può
essere consapevole, può o non può avere l’intenzione di comunicare; il suo
comportamento non verbale può essere di per sé significativo,
indipendentemente dalla consapevolezza e intenzione. Inoltre, il significato che
l’emittente attribuisce ad un gesto può essere percepito e interpretato in modo
diverso dal ricevente. Ad esempio, i gesti e gli stili gestuali sono capaci di
significare anche se chi li emette non è cosciente di significare attraverso essi.
Il problema del rapporto tra comunicazione e comportamento non verbale
assume particolare rilievo soprattutto quando si considerano gli aspetti non
linguistici del discorso.
11
P. Ekman e W. V. Friesen
8
ritengono che si possa parlare di comportamento
comunicativo tutte le volte che in un comportamento non verbale esistono un
consenso e un accordo nell’interpretazione che di esso danno diversi
osservatori, senza che ciò implichi necessariamente l’intenzione di comunicare
del soggetto.
M. Wiener, S. Devoe, S. Ribinow e J. Geller
9
esprimono una posizione più
articolata, e tentano di riaffermare una distinzione concettuale tra
comportamenti non verbali che possono essere considerati comunicativi in
senso stretto e tutti gli altri. Contestano la posizione di quei ricercatori che
considerano comunicativi tutti i comportamenti, da cui un osservatore può trarre
inferenze e affermano che tali autori confondono il concetto di segno e quello di
comunicazione: segno implica semplicemente che un osservatore trae
inferenze o dà un significato ad un evento, mentre comunicazione implica
l’esistenza convenzionale di segnali e quindi di un codificatore (l’emittente)
tramite l’uso del codice e di un decodificatore (l’interlocutore) che risponde
sistematicamente a quel codice.
In posizione intermedia si situa Pio E. Ricci Bitti, che ritiene inutile insistere su
una separazione netta tra comportamento comunicativo e non comunicativo e
ipotizza l’esistenza di un continuum ai cui estremi si collocano, da un lato, il
linguaggio verbale (maggiore comunicatività) e dall’altro i movimenti corporei
(massimo di espressività).
8
P. Ekman e W. V. Friesen, “Nonverbal Behavior in Psychotherapy Research”, in J. Shlien (a cura di),
Research in Psychotherapy, vol. III, Washington, A.P.A., 1968.
9
M. Wiener, S. Devoe, S. Ribinow e J. Geller, “Non-verbal behavior and Non-verbal Communication”,
Psychological Review, LXXIX, 1972, pp.185-214.
12
I.1.2. IL CANALE.
Si può definire canale il mezzo fisico-ambientale che rende possibile la
trasmissione di un’informazione o di un messaggio. Un’interpretazione restrittiva
di tale definizione, a proposito della comunicazione verbale, potrebbe farci
considerare l’aria quale canale di trasmissione dall’emittente al destinatario del
segnale sonoro. Usualmente si adottano, invece, definizioni molto più
pragmatiche di canale, tanto da generare in alcuni casi una certa confusione.
Pio E. Ricci Bitti
10
parla di canale verbale e non verbale quando l’emissione di
una informazione si realizza attraverso comportamenti verbali o non verbali: in
questo caso è il tipo di codifica dell’informazione che costituisce criterio
distintivo tra i due canali.
Altri autori distinguono tra canale vocale e canale cinesico in base
all’emissione dell’informazione: questa può realizzarsi attraverso l’apparato
fonatorio (emissione di suoni) o attraverso comportamenti motori di altre parti
del corpo. In quest’ultimo caso è possibile un’ulteriore distinzione in una
molteplicità di canali o sottocanali coincidenti con la parte del corpo coinvolta
nella produzione del messaggio (canali mimico, gestuale, visivo).
Un tentativo di sintesi fra le diverse possibilità sopra delineate è costituito
dalla distinzione di C. Fraser
11
fra canale vocale-uditivo e canale visivo-
gestuale. Nel primo caso, informazioni emesse attraverso l’apparato vocale
vengono ricevute mediante l’apparato uditivo, nel secondo, informazioni inviate
attraverso movimenti di parti del corpo vengono raccolte mediante l’apparato
visivo.
Possiamo concludere, con M. Wiener e A. Mehrabian, considerando in senso
lato un canale di comunicazione qualunque comportamento o insieme di
comportamenti cui viene sistematicamente attribuito un significato da un
osservatore o ricevente
12
.
10
Pio E. Ricci Bitti e Bruna Zani, La comunicazione come processo sociale, (“Istituzioni di psicologia”),
Bologna, Il Mulino, 1983.
11
C. Fraser, “Communication in Interaction”, in H. Tajfel e C. Fraser (a cura di), Introducing Social
Psychology, Harmondsworth, Penguin, (trad. it. Introduzione alla psicologia sociale, Bologna, Il Mulino,
1979).
12
M. Wiener e A. Mehrabian, Language within Language: Immediacy, a Channel in Verbal Communication,
New York, Appleton-Century-Crofts, 1968.
13
Non si può, comunque, prescindere dal fatto che un canale implichi un
apparato fisico che trasmette messaggi codificati secondo modalità specifiche.
Attraverso il canale vocale-uditivo passano le informazioni emesse dalla voce
umana. I messaggi trasmessi vocalmente possono essere codificati in modo
differente: una modalità di codifica implica le parole, un’altra implica segnali non
verbali quali risa, sospiri, mugolii... A causa delle due diverse modalità di
codifica si parla di due canali anche se l’apparato fisico coinvolto è lo stesso.
In altre parole, quelle di Pio E. Ricci Bitti, “mentre i canali non verbali della
comunicazione si possono più agevolmente distinguere fra loro per il fatto che
usano diversi effettori per la codifica del messaggio, il canale verbale condivide
l’organo effettore con altri canali e la sua peculiarità si fonda su differenze nel
processo di codifica; ciò rende ragione delle difficoltà che si incontrano nel
tradurre i messaggi verbali in forma non verbale e viceversa”
13
.
Non si può riferire efficacemente il contenuto di un brano scritto con segnali non
verbali, ma è altrettanto vero che spesso ci risulta difficile descrivere
verbalmente uno stato interiore o le qualità di un rapporto interpersonale in atto.
Il linguaggio è uno strumento non del tutto adeguato ad esprimere tali aspetti
della esperienza umana, e solo pochi dispongono di un’abilità linguistica
sufficiente a tale scopo, mentre tutti sono in grado di comunicare qualità
complesse degli stati emotivi e dei rapporti interpersonali in modo non verbale.
La differenza nel processo di codifica consiste essenzialmente nel fatto che i
messaggi non verbali sono basati su un codice analogico, mentre i messaggi
verbali usano un codice digitale. Mentre il messaggio verbale dipende dalla
combinazione di elementi discreti, quali lettere, fonemi, ecc., che costituiscono
insieme le parole in modo tale che la codificazione digitale risulta piuttosto
arbitraria, nei messaggi non verbali il segnale codificato ha una maggiore
somiglianza con ciò che rappresenta.
Pio E. Ricci Bitti valuta un canale anche sulla base dei concetti di capacità e
di immediatezza.
“La capacità del canale si riferisce alla quantità di informazioni che un canale
può trasmettere in una certa unità di tempo.
13
Pio E. Ricci Bitti e Bruna Zani, La comunicazione come processo sociale, (“Istituzioni di psicologia”),
Bologna, Il Mulino, 1983, p. 40.
14
Tale caratteristica è importante perché differenzia tra loro in modo consistente i
diversi canali: il canale verbale, in virtù dell’elevato grado di specificità
comunicativa, può essere usato per inviare un numero di messaggi molto più
ampio di quanto possa fare un qualunque canale non verbale, che dispone di
una gamma piuttosto ristretta di moduli comunicativi”
14
.
Tuttavia, se non consideriamo soltanto la ricchezza ed il valore informativo del
messaggio, ma anche la rapidità del passaggio dell’informazione, ovvero
l’immediatezza, possiamo rilevare che in certi casi, ad esempio nella
comunicazione delle emozioni, i canali non verbali sono molto efficaci: un
rapidissimo movimento mimico può informarci più rapidamente ed
efficacemente sullo stato emotivo di un interlocutore di quanto possano fare le
sue parole. Inoltre, gli emblemi vocali delle emozioni fanno spesso le veci di
enunciati verbali e segnalano che il parlante sperimenta uno stato emotivo
relativamente forte che non si presta facilmente alla comunicazione attraverso
una verbalizzazione più articolata e complessa.
Dal momento che questi due tipi di canali, verbali e non verbali, operano
simultaneamente, si ha nella comunicazione una costante interazione fra
informazioni provenienti da diversi canali. Proprio da questa simultaneità origina
gran parte della complessità della comunicazione faccia a faccia fra individui. “È
artificioso considerare gli effetti dei vari canali singolarmente: nella vita reale il
risultato della comunicazione è costantemente determinato dal peso relativo
che essi assumono nella trasmissione delle informazioni. Normalmente operano
in modo compatibile e si rafforzano a vicenda: un individuo che vuole
dimostrare interesse usa segnali sia verbali che non verbali; d’altra parte i gesti
delle mani e i movimenti del capo realizzano un commento costante nei
confronti della verbalizzazione in atto e svolgono una funzione di enfatizzazione
e sottolineatura”
15
. Se, dunque, i diversi tipi di informazioni provenienti
contemporaneamente da più canali sono coerenti si ha una ridondanza del
messaggio, se invece le diverse componenti verbali e non verbali del
messaggio stesso non sono coerenti fra loro si deve considerare il problema
della comunicazione contraddittoria e del peso comunicativo delle singole
componenti.
14
op.cit., p. 41.
15
op.cit., p. 42.
15
Si potrebbe pensare che, rispetto a quello verbale, i sistemi non verbali siano
relativamente meno importanti, ma credo che questa convinzione non sia del
tutto corretta.
Innanzitutto è importante considerare il tipo di comunicazione che passa tra
due interlocutori. Non è la stessa cosa valutare l’efficacia delle varie
componenti verbali e non verbali di un messaggio nel caso in cui si comunichi
un atteggiamento interpersonale di cordialità o l’intensità di coinvolgimento nei
confronti della situazione in atto o nel caso in cui si fornisca un’informazione
neutrale rispetto alla relazione interpersonale: in un caso si tratta di una
comunicazione “interpersonale” ed allora i segnali non verbali assumono un
rilievo preminente, nell’altro si tratta di una comunicazione “rappresenziale” ed
allora è la componente verbale ad avere il sopravvento
16
.
I.1.3. LE FUNZIONI DELLA COMUNICAZIONE.
Una volta chiarito che il linguaggio è solo uno dei sistemi di comunicazione
disponibili all’uomo, ci si può chiedere quali funzioni assolvono e quali significati
trasmettono tali sistemi comunicativi.
In letteratura ci si trova subito di fronte ad una serie innumerevole e
complessa di elenchi di funzioni, ciascuno dei quali è espressione di punti di
vista diversi dell’autore che li ha proposti.
Mi servirò di quello elaborato da Pio E. Ricci Bitti
17
sulla base delle
classificazioni di K.R. Scherer
18
e C. Fraser
19
.
Lo schema comprende le seguenti funzioni:
- referenziale
- interpersonale
- di controllo
- di coordinazione delle sequenze interattive
- di metacomunicazione.
16
op.cit., p.44.
17
op.cit., p.54.
18
K.R. Scherer, “The Functions of Nonverbal Signs in Conversation”, in R. StClair e H. Giles (a cura di), The
Social and Psychological Contexts of Language, Hillsdale (N.J.), Erlbaum, (citato da Pio E. Ricci Bitti e
Bruna Zani, La comunicazione come processo sociale, (“Istituzioni di psicologia”), Bologna, Il Mulino, 1983,
p. 54).
19
C. Fraser, “Communication in Interaction”, in H. Tajfel e C. Fraser (a cura di), Introducing Social
Psychology, Harmondsworth, Penguin, (trad. it. Introduzione alla psicologia sociale, Bologna, Il Mulino,
1979), (citato da Pio E. Ricci Bitti e Bruna Zani, La comunicazione come processo sociale, (“Istituzioni di
psicologia”), Bologna, Il Mulino, 1983, p. 54).
16
Non dobbiamo dimenticare che ogni evento comunicativo può assolvere
contemporaneamente a più funzioni. Anzi, la comprensione completa di un
evento comunicativo comporta di norma un’analisi plurifunzionale. Ad esempio,
la frase: “Ti proibisco di entrare”, espressa con tono minaccioso, può essere
usata in un contesto in cui costituisce un tentativo di regolare il comportamento
di un’altra persona, ma può anche esprimere caratteristiche relative al sé
dell’emittente, al suo stato emotivo, definire la relazione con l’altro, oltre
ovviamente a trasmettere un contenuto ben preciso.
È importante ricordare che i diversi sistemi di comunicazione sono sostituibili
l’un l’altro e possono essere usati per esprimere ognuna delle funzioni
individuate. Una relazione di superiorità può essere manifestata altrettanto
chiaramente sia da un’espressione linguistica del tipo: “Sono io che comando”
sia da una combinazione di gesti, movimenti del capo, sguardo…
Tuttavia, come precisa C. Fraser
20
, “sembrano esserci differenze nette circa il
tipo di comunicazione che è normalmente prodotta dai diversi sistemi. La
comunicazione referenziale è in gran parte l’ambito del linguaggio. D’altro lato,
molta parte della regolazione dell’interazione è non linguistica e si può
dimostrare facilmente che tutti i sistemi veicolano informazioni interpersonali”.
Prenderemo in considerazione le funzioni più significative e utili ai fini della
nostra ricerca.
I.1.3.1. FUNZIONE REFERENZIALE.
È considerata la funzione fondamentale della comunicazione, consistente
nello “scambio di informazioni tra gli interlocutori su un oggetto o referente”
21
. Di
solito esso coincide con un fatto del mondo esterno, un avvenimento su cui il
soggetto emittente desidera fornire delle informazioni a chi ascolta.
Pur essendo possibile in certe situazioni trasmettere informazioni mediante
modalità non verbali, è prevalentemente con il linguaggio che certi contenuti
vengono codificati.
20
C. Fraser, “Communication in Interaction”, in H. Tajfel e C. Fraser (a cura di), Introducing Social
Psychology, Harmondsworth, Penguin, (trad. it. Introduzione alla psicologia sociale, Bologna, Il Mulino,
1979, p.145).
21
Pio E. Ricci Bitti e Bruna Zani, La comunicazione come processo sociale, (“Istituzioni di psicologia”),
Bologna, Il Mulino, 1983, p.55.