II
Francesco I, al rientro nel nostro paese sotto l’ala protettiva del
Marchese del Vasto.
Circa le notizie biografiche si è rivelato fondamentale quanto è
stato scritto sull’autore da alcune delle maggiori personalità
dell’Umanesimo cinquecentesco. Dopo, per diversi secoli, la sua
fama si è eclissata e lo scrittore è stato riscoperto solo nel secolo
scorso, sia come cabalista sia come teorico della retorica e
dell’imitazione.
Nonostante questo recupero, molto ancora c’è da ricercare, se si
tiene conto che la maggior parte delle notizie circa la sua origine,
gli studi, la formazione ed i rapporti interpersonali risalgono a
testi del XVII o al massimo XVIII secolo. Colpisce soprattutto,
nella lettura di questi testi, vedere come siano discordanti e
addirittura contraddittorie le opinioni sulla personalità di
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Delminio, il che lascia intendere che personaggio straordinario ed
emblematico sia stato, odiato e amato allo stesso tempo.
Per quanto concerne la sua produzione, sempre nel primo
capitolo, sono state analizzate, per sommi capi, le opere più
importanti dello scrittore (fatta eccezione del trattato
sull’imitazione di cui si parla nel capitolo successivo) e
naturalmente si è attinto alla fonte originaria innanzi tutto e poi a
diversi contributi.
Il secondo capitolo (Il concetto di imitazione: Erasmo da
Rotterdam e Delminio) costituisce il «cuore» della tesi. Prima
d’iniziare un discorso sulle posizioni dei suddetti intellettuali –
cui è dedicato un paragrafo ciascuno incentrati sull’analisi dei
rispettivi scritti sull’imitazione – bisogna indagare le ragioni che
alimentavano il dibattito nel Cinquecento su tale argomento;
dibattito ancora oggi aperto, campo non limitato di studi ma al
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contrario suscettibile d’ogni critica e cambiamento: ecco il tema
del primo paragrafo.
Dopo un attento esame appare fuor di dubbio che la ricerca di
modelli abbia avuto un’importanza sempre maggiore già a partire
dal Quattrocento, una ricerca estesa tanto al campo politico
quanto a quello sociale, letterario ed artistico e che recuperava i
principali exempla nel mondo degli antichi.
Con Erasmo e Delminio siamo circa negli anni ’30, ma
l’indagine della tesi si estende a tutta la prima metà del secolo,
perciò, nel terzo capitolo (Il dibattito nel primo Cinquecento)
sono state analizzate le singole posizioni degli intellettuali che
hanno dato il proprio contributo più o meno
contemporaneamente a Camillo, seguendo sempre lo stesso
metodo d’indagine: da Giovan Francesco Pico della Mirandola a
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Pietro Bembo (1512-13), da Raffaello Sanzio a Baldassarre
Castiglione (1514-1528), a Giorgio Vasari (1550).
L’ultimo paragrafo è dedicato ad un dipinto di Tiziano Vecellio,
l’Allegoria della prudenza, in quanto è ritenuto emblema del
concetto d’imitazione del Classicismo come saggio recupero del
passato con cui stabilire continuità.
Naturalmente non mancano una bibliografia dettagliata dei testi
analizzati ed un indice chiarificatore dei vari settori d’indagine.
Ora, alla luce di quanto ricercato, a quale conclusione si può
giungere?
Dal punto di vista artistico e particolarmente letterario la
nozione di Rinascimento rimanda a quella di Classicismo fino a
identificarvisi. E classicismo significa, appunto, richiamo
all'antichità classica – come Rinascimento significa rinascita
dell’antichità – agli autori greci e latini della maturità delle
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rispettive storie. Significa in primo luogo "imitazione" e regole
dell'imitazione; l'Umanesimo si era occupato del problema (si
deve imitare la natura o l'arte?), ma l'aveva lasciato in sospeso.
La seria e più approfondita riflessione estetica cinquecentesca
opta inequivocabilmente per il secondo termine: si devono
imitare i buoni autori (cosa ancor più necessaria nel momento in
cui nasce la letteratura in volgare).
L'imitazione deve essere precisata e controllata da regole,
l'attività letteraria organizzata in un sistema organico diviso in
generi letterari con valenze normative: il "genere" non serve solo
per orientare e classificare, ma per dettare le norme della
scrittura. Regole generali, dunque, e nel corso del secolo sempre
più astratte: di qui il carattere universalistico del classicismo
cinquecentesco che spiega anche la sua forza di espansione e
d’influenza in Europa.
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Nacque nel Cinquecento un gusto letterario originale e colto,
che si rifaceva a modelli ideali interpretati, però, in modo nuovo
e personale, riflettendo, così, le condizioni storico-culturali di un
mondo diverso.
L’estetica del Rinascimento badava soprattutto al culto della
forma, un amore per la proporzione e per la perfezione
dell’armonia ottenuta, talvolta, anche con leggi e regole rigide:
dunque niente autonomia e libertà dell’arte. In questo senso, già
presso i latini, imitatio significava, in effetti, imitazione dei
grandi autori, ricerca di elaborazione di regole e di norme da
seguire.
Quest’aspetto così limitativo non deve essere giudicato, però,
negativamente, in quanto trova la sua ragion d’essere nella storia:
proprio dall’esaltazione rinascimentale del valore razionale
dell’arte, infatti, hanno origine le polemiche e i dibattiti culturali
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che nei secoli successivi portarono, al contrario, al primato della
genialità e della fantasia degli artisti ed intellettuali.
Dopo lo sfrenato sperimentalismo del Quattrocento, dunque,
che caratterizzò sia la scrittura latina sia quella popolaresca, la
nuova cultura rinascimentale sentiva fortemente, in tutti i campi,
l'esigenza di un ordine, di una disciplina. Eppure si assisteva
anche ad una decadenza morale e politica: causa di tutto ciò
proprio l’aspirazione ad un mondo di perfezione e ad
un’armoniosa concordia nell’uomo delle facoltà fisiche e
spirituali. In questi anni, infatti, si apriva per l’Italia una
gravissima crisi in campo politico che avrebbe finito per
ripercuotersi negativamente sull’intera vita italiana, frenando il
moto rinascimentale.
È proprio in questo contesto che s’instaura la cultura
dell’imitazione, basata sostanzialmente sulla “copia” o meglio
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“plagio” di un modello antico, ma eseguiti con tale bravura da
apparire come “originali”.
Ecco schierarsi allora da una parte gli intellettuali che,
basandosi sul principio della varietas, appoggiano la tesi di
un’imitazione eclettica ed un ibridismo stilistico; dall’altra i
fautori del modello unico, chiaramente l’optimus.
Alla prima categoria appartengono Angelo Poliziano, Pico della
Mirandola, Raffaello Sanzio ed Erasmo da Rotterdam. Questi
affermano che l’imitazione deve essere rielaborazione personale
se non si vuole incorrere nel pericolo di comportarsi come delle
“scimmie” nei confronti del modello e, inoltre, che si devono
prendere ad esempio tutti i buoni scrittori e non soltanto uno
solo.
Poliziano mostra nella scelta dell’exemplum uno spiccato gusto
della grazia, cioè la normale inclinazione verso tutto quello che è
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equilibrato, misurato e bello, senza essere aggressivo. Pico
considera l’imitazione da un punto di vista strettamente
filosofico: si deve imitare in modo discreto e mai totale guidati
dall’idea della bellezza che è innata in ognuno. Anche Raffaello
parla di un ideale di bellezza e, anche se non è egli stesso a
confermarlo, si capisce che si tratta di un’idea sorta in seguito
alla sua formazione. A fondamento di una buona imitazione,
secondo Erasmo, sulla base di studi prettamente religiosi, deve
esserci il riconoscimento dei propri limiti, perché bisogna essere
innanzi tutto capaci di raggiungere il modello d’ispirazione.
Alla seconda categoria, invece, appartengono Paolo Cortesi,
Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione, Giulio Camillo Delminio
e Giorgio Vasari. Per questi altri intellettuali il solo riferimento
per l’imitazione deve essere, sia per lo stile sia per la lingua,
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Cicerone, ma anche in questo caso l’imitazione deve essere
emulazione.
La scelta del grande oratore latino, da parte di Cortesi, si fonda
su due semplici principi: è sempre stato considerato il migliore e,
di fatto, nessuno ha raggiunto la gloria senza essersi formato sui
suoi studi. Per Bembo l’idea della bella scrittura non è innata ma
può nascere dall’esercitazione sui testi esemplari e l’imitazione,
analizzata da un punto di vista esclusivamente letterario, è
entrare in competizione col modello, cercando di raggiungerne la
perfezione o addirittura superarlo. Castiglione parla d’imitazione
della natura e crede nella capacità di giudizio dell’artista. Anche
Vasari appoggia il concetto di imitazione della natura: Dio ha
creato la natura e l’uomo/artista deve seguire il suo esempio nel
riprodurla in scala nell’opera, secondo la propria maniera, vale a
dire secondo la propria capacità percettiva.
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Del tutto originale è, invece, il concetto d’imitazione di
Delminio.
In primo luogo, è il primo a prendere le distanze dal latino in
modo decisivo perché lo ritiene una lingua morta che, in quanto
ha avuto una sua parabola biologica, deve essere imitata nel suo
periodo aureo. Ciò non escluderebbe anche l’imitazione di più
modelli se non fosse per il fatto che Camillo non crede che gli
scrittori moderni abbiano la capacità critica di Cicerone.
Quest’ultimo, al contrario, è l’optimus auctor che ha saputo
selezionare e depurare i testi consultati e, dunque, facciamo fatica
inutile se non partiamo direttamente dal suo esempio.
La novità, però, del pensiero di Delminio risiede soprattutto
nella sua analisi tecnica dell’operazione d’imitatio; egli, infatti,
non si è limitato semplicemente ad affermare il proprio concetto,
ma ha spiegato in modo dettagliato le tecniche di cui avvalersi
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per imitare in modo corretto: la “topica”. La bravura
dell’imitatore si vede nella sua capacità di utilizzare l’artificio, di
creare il simile ma non l’uguale. Per riuscirci lo scrittore deve
avvalersi dei topos, luoghi comuni da utilizzare sapientemente in
ogni materia, articolandoli in infiniti modi, “giocando” sulle
parole e sul significato logico delle loro combinazioni.
Sebbene sia stato il primo ad affrontare questo argomento nel
dibattito sull’imitazione, egli stesso afferma di aver avuto una
fonte d’ispirazione nella letteratura latina, Lucrezio; però è stato
sicuramente il primo a creare un “contenitore” di tutti i topos
offerti dalla storia: il Teatro della memoria in cui è raccolta ed
ordinata gerarchicamente l’intera conoscenza umana.
Tutti questi intellettuali cinquecenteschi, comunque, pure così
distanti nelle loro posizioni in proposito al tema della imitatio,
consideravano il modello o i modelli come punto di riferimento
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per un’opera che si andava stendendo, la cui posizione era, però,
necessariamente subordinata rispetto al testo antico.
Quest’ultimo era inteso come auctoritas, come strumento di
“esercitazione”, in virtù della quale sarebbe stato possibile
raggiungere un discreto livello artistico, anche al prezzo di
un’accantonamento della propria lingua a favore di quella della
latinità ciceroniana con tutte le sue clausole, le sue figure
retoriche, i suoi temi e le sue immagini. In ogni modo, sia che si
concepisse in termini estremi, come volontaria e
«scimmiottesca» copia, sia che si intendesse più liberalmente,
l’imitazione implicava sempre un modello, di per se stesso
insuperabile, da cui quindi doveva ricavarsi un insegnamento
pedagogico.
C’è la consapevolezza da parte di poeti ed artisti che si tratti di
una pratica destinata a durare nel tempo (sino al primo
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Ottocento), indispensabile per far rivivere le tradizioni,
riscoprendo gli “Antichi”. È così che rinascono libri ormai
dimenticati, si studiano le reliquie dell’antica Roma, si
raccolgono ed interpretano epigrafi.
Oggi, tutto ciò non potrebbe essere condiviso: una cultura come
la nostra aperta ai cambiamenti, alle invenzioni, ma soprattutto
alla tutela di ciò che è creato ex novo non potrebbe giammai
accettare senza limiti la “copia”, il “plagio”. Si pensi a
“invenzione”, “brevetto”, “diritto d’autore”, “copyright”: tutti
termini che si sentono molto frequentemente nei dibattiti d’oggi.