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INTRODUZIONE
In questo elaborato ho affrontato il complesso tema delle relazioni internazionali sotto
il duplice punto di vista economico e geopolitico. Il mondo odierno sta subendo la
pressione di due macro-eventi, la guerra commerciale sino-americana e l’ascesa di
nuove potenze sullo scacchiere internazionale, a fronte dei quali si verificano mutamenti
nell’ordine mondiale, si stabiliscono nuove gerarchie di potere, viene sancita la fine di
vecchie alleanze e ne vengono delineate di nuove.
Ho scelto di approfondire questo tema partendo dall’interesse in me suscitato dalla
decisione statunitense di intraprendere una guerra commerciale, una decisione che mi
sembrava ancorata ad idee del passato e certamente non coerente agli ideali ed alle
modalità di agire della prima potenza mondiale. Mossa dalla curiosità di comprendere
quali eventi avessero spinto l’amministrazione americana a compiere un tale passo e
quali conseguenze ne sarebbero derivate in termini di mutamenti sulla scena
internazionale, mi sono addentrata nel complesso ed affascinante mondo delle relazioni
internazionali.
Ho deciso di rendere questo tema il centro del mio elaborato approfondendolo non solo
da un punto di vista economico ma anche geopolitico ed analizzandolo in relazione sia
all’introduzione di misure tariffarie, che potrebbero provocare più svantaggi che
benefici alla potenza leader del sistema o costarle addirittura la perdita di tale posizione,
sia all’ascesa di nuove potenze sullo scenario internazionale ed alla conseguente
redistribuzione del potere all’interno della governance mondiale. Se è possibile
affermare che tutti si siano ormai resi conto della grandezza della Cina e di come essa
venga considerata una potenza al pari degli Stati Uniti, non è altrettanto possibile fare
la stessa considerazione con altri Paesi emergenti, tra cui la Russia e l’India in primis, ma
anche l’Arabia Saudita e l’Indonesia.
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L’obiettivo della mia analisi era quello di comprendere ed evidenziare le possibili
conformazioni future dell’ordine economico mondiale sulla base di relazioni di potere in
costante mutamento ed adattamento e di nuovi equilibri e partnership che si stanno
delineando tra Paesi un tempo molto distanti tra loro. Pur consapevole della difficoltà
implicita in tali argomenti e delle sue molteplici sfaccettature, ho provato a creare un
elaborato che suscitasse l’interesse dei lettori portandoli a riflettere un po' più
approfonditamente su temi che non sempre vengono adeguatamente discussi ed
esaminati ma che sono di fondamentale importanza per comprendere la realtà nella
quale viviamo.
Partendo da uno degli eventi economici più importanti ed attuali, la guerra commerciale
sino-americana, si è brevemente ripercorso il cammino che ha portata alla formazione
dell’odierna struttura economica internazionale per poi analizzare come essa stia
cambiando in conseguenza dell’ascesa di nuove potenze mondiali e delle decisioni
statunitensi in tema di politica estera e di eventi geopolitici che stanno portando alla
nascita di nuove alleanze.
La disputa commerciale, come noto, fu iniziata dall’amministrazione americana meno di
due anni fa: prima di allora il tasso tariffario medio degli Stati Uniti aveva seguito un
lungo trend discendente avvicinandosi a livelli prossimi allo zero. Osservando lo scenario
attuale risulta evidente il cambio di rotta, perpetuato dai creatori stessi del sistema e
definitivamente sancito con l’elezione di un presidente che ha fatto del protezionismo
uno dei suoi cavalli di battaglia, portando avanti una campagna elettorale incentrata sui
sentimenti della popolazione piuttosto che su strutturate teorie commerciali. È però
inevitabile chiedersi se, in un mondo caratterizzato dalla proliferazione delle catene
globali del valore e dall’intensificarsi dell’interdipendenza economica tra Stati, la scelta
di un nuovo protezionismo possa effettivamente rappresentare una soluzione efficace.
All’indomani del secondo conflitto mondiale, con le economie di molti Paesi che
versavano in condizioni di difficoltà, si affermò il ruolo degli Stati Uniti come promotore
di un sistema economico mondiale caratterizzato dal liberismo economico e dal
multilateralismo commerciale, considerato lo strumento più appropriato per ricostruire
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le relazioni economiche e commerciali internazionali e per permettere ai Paesi una
rapida crescita. Nel 1995 venne sancita la nascita del Word Trade Organization (WTO),
una vera e propria organizzazione multilaterale del commercio con specifici poteri di
intervento, che persegue l’obiettivo liberista di abolizione delle barriere tariffarie e non
tariffarie al commercio internazionale.
Il liberismo economico, l’impostazione democratica, le norme comuni ed il rispetto della
sovranità nazionale sono i pilastri su cui poggia l’attuale sistema, che, tuttavia, negli
ultimi anni appare essere entrato in crisi. Le difficoltà che esso sta attraversando non
sono rintracciabili in un'unica causa ma ascrivibili a diversi fattori, tra cui la
globalizzazione, il progresso tecnologico e l’inadeguatezza delle politiche economiche e
dei sistemi di protezione sociale che hanno ancora oggi profonde conseguenze sul livello
e sulla redistribuzione dei redditi. Tale crisi impatterà, plasmando e modificando lo
scenario attuale e le relazioni internazionali tra i Paesi.
Parallelamente al fenomeno di globalizzazione, la scena internazionale ha visto la
nascita di istituzioni ed organizzazioni mondiali che hanno acquisito un’importanza
sempre maggiore e i cui poteri spesso invadono il campo di scelta dei singoli Stati. Con
riferimento a questo tema è stato riproposto il pensiero di Dani Rodrik, un economista
turco e voce critica dell’assetto internazionale vigente: egli affronta la difficile relazione
esistente tra i processi economici di internazionalizzazione, l’assetto politico di un Paese
e la sua sovranità nazionale ed evidenzia come il sistema politico – economico mondiale
si trovi in uno stallo che egli definisce come “il trilemma politico dell’economia
mondiale”.
Sembra ormai essere un’opinione comune l’idea che gli stati debbano prima raggiungere
la prosperità in autonomia e che, solo successivamente, possano inserirsi all’interno di
reti e relazioni internazionali. Questa idea, avvalorata dalla diffusione dei nazionalismi,
dalla tendenza protezionistica di numerose economie, dalla diminuzione dei flussi
commerciali e dall’aumento del debito pubblico di diversi Paesi, presagisce la crisi del
multilateralismo che rischia sempre di più di essere rimpiazzato da accordi bilaterali o
da regionalismi.
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Le trasformazioni che l’ordine economico attuale sta attraversando non sono dovute
solo al cambiamento nel ruolo statunitense, che si declina nella delineazione di nuovi
tratti e nell’alterazione di una parte degli elementi chiavi che lo hanno fin qui
caratterizzato, ma anche all’ascesa di un nuovo colosso sia economico che militare, la
Cina. Il Paese asiatico si è assicurato un potere sempre maggiore nel contesto mondiale
e ha oggi le risorse necessarie per contendersi il ruolo di leader con la stessa potenza
fondatrice, grazie soprattutto alle politiche economiche attuate e all’implementazione
della Belt and Road Initiative, come misura per aumentare l’integrazione economica e
la connettività con i Paesi limitrofi oltre che con diversi partner commerciali in Asia,
Africa, ed Europa.
La Cina non è però l’unico Paese emergente sulla scena mondiale, ma ad esso si
affiancano la Russia e l’India, entrambe potenze che stanno ridefinendo il proprio ruolo.
L’importanza militare e nucleare della Russia, che poco più di venti anni fa usciva
sconfitta dalla guerra fredda, hanno reso il Paese adatto a divenire il terzo polo di un
mondo tripolare; affianco ad essa, il ruolo dell’India come uno dei principali motori
dell’economia mondiale è avvalorato dai dati statistici ed apre al Paese la strada per
divenire la seconda economia globale nel giro di pochi anni.
Si è quindi approfondita l’evoluzione di questi Paesi e si sono individuate quelle che
potrebbero divenire le nuove alleanze dello scenario globale: l’asse sino – russo, ad
esempio, è una possibilità non solo teorica e l’avvicinamento dell’India agli Stati Uniti, in
ottica di contenimento cinese, è avvalorato dalla sottoscrizione del Quadrilateral
Security Dialogue (Quad).
È stato analizzato anche il ruolo dell’Unione europea e sono stati evidenziati i numerosi
problemi, sia interni che esterni, che affliggono il costrutto: il flusso migratorio, la nascita
di correnti populiste e la presenza di turbolenze in Paesi vicini ma soprattutto la
mancanza di un ruolo definito sulla scena mondiale. Risulta quindi importante capire
come essa ridefinirà il proprio ruolo sia nell’ambito delle relazioni internazionali sia per
quanto attiene alla sua struttura.
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Infine, per fornire una visione il più completa possibile su questi temi, sono stati riportati
i dati emerse da un’analisi statistica che si è preposta di studiare le percezioni dei
soggetti e portata avanti per mezzo di un apposito questionario. Il fine ultimo era quello
di individuare le linee di pensiero prevalenti e le aspettative che la società ha sul
prossimo futuro.
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1. LA GUERRA COMMERCIALE SINO-AMERICANA
1.1 Il commercio internazionale e le relative teorie
Il commercio internazionale rappresenta l’insieme degli scambi, di beni e servizi, tra
diversi Paesi. I primi modelli di liberalizzazione commerciale risalgono al Settecento, ma
la pratica seguì con notevole ritardo la teoria e per l’implementazione effettiva delle
prime politiche liberiste bisogna aspettare il 1870. Da questo momento in poi, si sono
susseguite fasi di apertura commerciale, caratterizzate dalla riduzione delle barriere
legislative alla libera circolazione di beni e servizi, a momenti di ritorno al protezionismo,
durante i quali i Paesi imponevano dazi o misure tariffarie indirette verso i beni esteri
per proteggere quelli domestici.
È possibile delineare tre diversi periodi storici di liberalizzazione: il primo, iniziato alla
fine dell’ottocento, terminò in corrispondenza della prima guerra mondiale; il secondo
prese avvio negli anni cinquanta del XX secolo e proseguì fino alla crisi del mercato
energetico del 1979 e a quella dell’insolvenza debitoria dei Paesi in via di sviluppo.
Entrambi questi eventi portarono a nuove chiusure protezionistiche che durarono fino
ai primi anni del 2000. Con l’inizio del nuovo secolo moltissimi Paesi implementarono
politiche di apertura commerciale sulla scia della sempre maggiore integrazione delle
economie e dei mercati finanziari. Oggi la struttura prevalente a livello mondiale è quella
della liberalizzazione commerciale alla quale hanno contribuito in maniera significativa
dapprima le politiche liberali adottate a livello nazionale e successivamente la
promulgazione di regole a livello regionale e multilaterale, culminate nella creazione del
World Trade Organization (WTO).
A livello teorico, il liberismo economico venne proposto per la prima volta da Adam
Smith, il quale concentrò i propri studi sulle politiche economiche più efficienti per la
crescita e lo sviluppo di un Paese, sulle forze che determinano la ricchezza delle nazioni
e sul pervasivo ma riequilibrante ruolo giocato del mercato. Adam Smith viene oggi
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considerato il padre fondatore dell’economia politica classica e la sua opera più
importante, “La Ricchezza delle Nazioni” fa da spartiacque tra questa nuova corrente di
pensiero e quella precedente del mercantilismo e dei fisiocratici.
Secondo Smith il commercio tra due Paesi si basa sul vantaggio assoluto: ogni Paese
dovrebbe cioè specializzarsi nella produzione del bene nel quale è più efficiente ed
importare l’altro dall’estero. In questo modo le risorse sarebbero allocate nel modo più
efficiente possibile e garantirebbero un vantaggio per tutti gli operatori economici. La
sua teoria suggerisce quindi di raggiungere l’ampliamento del mercato come condizione
necessaria per la specializzazione, ovvero la divisione del lavoro, ed il conseguente
aumento della produttività. A fronte di una maggiore produzione non solo è possibile
specializzarsi ed ottenere la diminuzione dei costi medi come conseguenza
dell’apprendimento (learning by doing) ma diviene anche possibile sfruttare meglio le
economie di scala. Secondo l’economista con la divisione del lavoro ogni soggetto ha
l’opportunità di specializzarsi in una singola fase del processo produttivo, aumentare di
conseguenza la propria produttività e generare aumenti di ricchezza per tutti.
Il contributo liberista fu portato avanti e ampliato dagli studi di David Ricardo, focalizzati
sulla legge dei costi comparati. Il modello ricardiano richiama l’attenzione sul concetto
di costo opportunità e sulle differenze nelle funzioni di produzione dei diversi Paesi. Il
costo opportunità di produrre un bene misura il valore di tutto ciò che si deve rinunciare
a produrre per poter produrre il primo bene. Dal confronto tra i costi opportunità ogni
nazione stabilisce il proprio vantaggio comparato: se il costo opportunità di produrre un
certo bene è inferiore in quel Paesi rispetto a quello di tutti gli altri, allora esso ha un
vantaggio comparato nella produzione di quel bene.
Nella sua teoria Ricardo sostiene che il commercio internazionale si basi sui vantaggi
comparati delle nazioni e che la scelta della specializzazione dipenda dalle diverse
produttività relative del lavoro. Ogni paese dovrebbe specializzarsi ed esportare il bene
nel quale ha uno svantaggio assoluto minore, ovvero un vantaggio comparato, ed
importare il bene nel quale ha uno svantaggio assoluto maggiore, ovvero uno svantaggio
comparato. (A. Vanolo).
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I lavori di Adam Smith e David Ricardo ricevettero diverse critiche, riguardanti la
specializzazione completa, quasi mai realizzata nella realtà, la poca importanza data ai
fattori produttivi, l’ipotesi di tecnologie diverse nei vari Paesi e l’assunzione di
produttività costanti. Una parziale risposta a tali critiche venne fornita negli anni Trenta
dai due economisti svedesi, Heckscher e Ohlin, i quali elaborarono un modello
economico di matrice neoclassica il cui schema conferma in linea di massima il quadro
introdotto da Ricardo. La loro teoria sostiene che il commercio internazionale dipenda
dalle differenze nelle dotazioni fattoriali dei Paesi: in quest’ottica le nazioni esportano i
beni per la produzione dei quali sono necessari input di cui il Paese è ricco ed importano
quelli che necessitano di input relativamente scarsi all’interno dello stesso. Sulla base di
queste prospettive teoriche, il commercio internazionale permetterebbe ad ogni Paese
di specializzarsi solo in quei beni che è in grado di produrre nel modo più economico ed
efficiente, massimizzando l’utilità complessiva del sistema economico.
Le teorie discusse fino ad ora sono in grado si spiegare il commercio intersettoriale,
ovvero l’importazione e l’esportazione di beni e servizi di settori differenti, ma non
quello intra-settoriale, in cui le importazioni e le esportazioni appartengono al
medesimo settore. Tale gap venne colmato dall’economista Paul Krugman (1991) che
contribuì a spiegare il fenomeno all’interno delle “nuove teorie sul commercio
internazionale”. Nell’elaborazione di tale corpus teorico, Krugman, diversamente da
tutti i suoi predecessori, prese in esame anche una serie di fattori microeconomici, tra
cui i gusti dei consumatori o il temporaneo monopolio tecnologico posseduto da chi
presenta sul mercato un prodotto innovativo. Nel dettaglio l’economista sostiene che il
commercio internazionale sia frutto di due determinanti: i gusti dei consumatori, che
possono essere differenti all’interno di una stessa categoria di prodotti, e le economie
di scala che le imprese riescono a sfruttare se concentrano la produzione all’interno di
un unico stabilimento. Il primo fattore evidenzia come i benefici dei consumatori non
derivino solo da una politica dei prezzi volta alla loro minimizzazione ma anche
dall’ampiezza della gamma dei prodotti che hanno a disposizione e tra i quali possono
scegliere. La differenziazione di prodotto e la conseguente produzione di nicchia, se
inserite all’interno di contesto di apertura internazionale, consentono al Paese di
soddisfare la domanda per tale bene in una molteplicità di mercati esteri e rendono la
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specializzazione vantaggiosa. Sulla base di queste due determinanti, Krugman
suggerisce una produzione di nicchia concentrata nel sito produttivo che gode dei
maggiori vantaggi localizzativi.
Nella sua teoria l’economista approfondì quindi il ruolo della specializzazione e della
localizzazione industriale. Nel determinare la specializzazione commerciale egli
considerò i seguenti fattori: i rendimenti crescenti di scala e la presenza di imperfezioni
di mercato, il processo storico, che crea una sorta di path-dependence, intesa come la
tendenza a continuare nel tempo un percorso di specializzazione commerciale iniziato
in passato, e l’imprevedibile mutare delle condizioni tecnologiche che, in poco tempo,
possono impattare significativamente l’importanza dei fattori produttivi e di
localizzazione. Per quanto riguarda la localizzazione industriale, invece, Krugman si rifà
al contributo della geografia economica e spiega che le imprese basano la scelta della
propria localizzazione sulla eventuale presenza di economie esterne di localizzazione,
tra cui la più importante è la minimizzazione dei costi di trasporto. All’interno della “New
Economic Geography”, inoltre, Krugman spiega come la presenza di attività produttive
in un territorio sia fonte di attrazione per ulteriori attività, che potranno sfruttare le
economie di scala già presenti, creando così un circolo virtuoso di attrazione sul
territorio.
Dopo un excursus delle principali teorie commerciale si procede con l’esposizione delle
argomentazioni, sia a favore che contrarie, al libero scambio.
1.1.1 Le argomentazioni a favore e contrarie al libero scambio
Il processo di liberalizzazione può essere considerato come una delle molteplici
dimensioni della globalizzazione e, come tale, ha spesso diviso gli economisti tra chi è
favorevole e chi ne è contrario: se i primi evidenziano il maggior benessere che deriva
dall’apertura commerciale, i secondi sottolineano i suoi effetti di distribuzione del
reddito ed identificano nel commercio internazionale una minaccia per i diritti sociali ed
il rispetto dell’ambiente, lo ritengono responsabile dell’aumento della povertà nei Paesi
meno sviluppati e lo considerano un fattore di rischio per le fasce più deboli della
popolazione nei Paesi avanzati.
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Dal punto di vista della teoria economica, quando un Paese decide di aprirsi al libero
scambio trae da questa scelta molteplici benefici. In primo luogo, riesce a massimizzare
la propria efficienza: i produttori ed i consumatori, infatti, allocano le risorse nel modo
più efficiente possibile quando i governi non intervengono con misure di politica
commerciale. Queste ultime, infatti, causano distorsioni nei prezzi di mercato e, a loro
volta, i prezzi distorti causano sovrapproduzione, perché le imprese esistenti producono
di più o perché nuove imprese entrano nel settore.
Una secondo beneficio del libero scambio fa riferimento alle economie di scala: a fronte
dell’ampliamento del mercato, il Paese ha la possibilità di specializzarsi in singole
versioni di un determinato bene lasciando ad altri la produzione di versioni diverse. Di
conseguenza riesce a sfruttare a pieno le economie di scala per la versione del bene che
produce e registra costi medi di produzione pari ai costi medi minimi. Oltre al vantaggio
in termini di costo, grazie all’apertura commerciale i consumatori registrano un
ampliamento della gamma di prodotti disponibili e se non sono soddisfatti della versione
domestica, possono rivolgersi a produttori esteri senza dover sostenere costi aggiuntivi.
Un terzo vantaggio del libero scambio è la pressione concorrenziale che esso crea: con
l’apertura internazionale aumenta la competizione per le imprese domestiche che, da
quel momento in poi, dovranno confrontarsi anche con i concorrenti internazionali e
non più solo con quelli domestici. La maggiore competizione rende necessario per le
imprese conseguire un aggiornamento continuo, migliorare le proprie tecniche di
produzione e la qualità dei beni ed investire in ricerca e sviluppo. Il libero scambio
fornisce quindi stimoli maggiori ad innovare e ad apprendere rispetto a quelli forniti da
un sistema di scambi controllati ed i consumatori sono i primi a beneficiare di tale flusso
innovativo. Grazie all’apertura internazionale, inoltre, i consumatori sono certi di pagare
il prezzo più basso possibile in ogni momento e hanno la possibilità di acquistare dai
migliori produttori a livello mondiale.
Infine, esiste una quarta argomentazione a favore libero scambio nota come
argomentazione politica: secondo questa tesi con la liberalizzazione commerciale si
evita la perdita di risorse, sia economiche che umane, che verrebbero altrimenti
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indirizzate nell’attività di rent seeking
1
. In tal senso il libero scambio è considerato la
migliore scelta politica possibile anche qualora esistano, in linea di principio, politiche
migliori.
Da un punto di vista della distribuzione sociale, i benefici del commercio internazionale
tendono ad essere maggiori per le famiglie con una fascia di reddito medio-bassa per via
dei numerosi beni oggetto di commercio internazionale che compongono il paniere di
consumo rappresentativo di questa categoria. Inoltre, l’intensità dei vantaggi che ne
derivano varia in base all’estensione del Paese ed alla forma di mercato presente nel
settore che si intende liberalizzare. Con riferimento al primo fattore, gli Stati di
dimensioni più piccole, caratterizzati da un mercato interno ristretto ed un basso livello
di concorrenza domestica, traggono dal libero scambio dei vantaggi superiori rispetto a
quelli di un Paese più grande, come ad esempio gli USA, in cui il mercato è più esteso e
nel quale la pressione concorrenziale è elevata già tra i produttori interni. Per quanto
riguarda la forma di mercato, invece, se si liberalizza un settore che opera in concorrenza
monopolistica o in oligopolio, oltre ai vantaggi generali discussi in precedenza, se ne
aggiungono di nuovi e specifici per la forma di mercato in questione.
In concorrenza monopolistica vi sono n produttori, ognuno dei quali ha un limitato
potere di mercato sulla versione del bene che produce, e beni differenziati. La curva di
domanda percepita da ogni impresa è inclinata negativamente e si registrano economie
di scala non sfruttate. In questa forma di mercato, con l’apertura al libero scambio, il
mercato si ampia, la curva di domanda diventa più elastica e le versioni di ogni bene
meno costose; si riesce quindi a limitare il potere monopolistico dei singoli produttori e
ad avvicinarsi ad una forma di mercato più simile a quella della concorrenza perfetta
2
.
Nell’oligopolio di Cournot si ipotizza la presenza di due beni, due Paesi e due produttori
che si spartiscono il mercato: in questo caso, se i Paesi operassero in autarchia, ognuno
dei due avrebbe un unico produttore monopolista per ogni bene, se decidessero di
1
Per rent seeking si intendono tutte le attività necessarie a creare, mantenere o trasferire una rendita.
Rappresenta un costo per la società in quanto crea una doppia perdita: da un lato l’attività di lobby sottrae
risorse che potrebbero essere utilizzate in altri contesti produttivi dall’altro incentiva i legislatori a
prendere decisioni di convenienza invece che quelle più efficienti.
2
Il raggiungimento della concorrenza perfetta risulta comunque un limite utopico al quale è solo possibile
tendere. Non esiste infatti alcun settore che operi secondo le regole della concorrenza perfetta.