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INTRODUZIONE
L’estate del 2018, per il mondo del calcio, non è passata alla storia solamente per la
vittoria ottenuta dalla Francia ai campionati mondiali disputatisi in Russia; un altro
evento, infatti, ha acceso i dibattiti e riempito le pagine dei giornali, arrivando quasi ad
oscurare, almeno in Italia, le notizie provenienti da Mosca: l’acquisto di Cristiano
Ronaldo, pluripremiato attaccante del Real Madrid, considerato uno dei migliori
calciatori di sempre, da parte della Juventus. Definito da molti addetti ai lavori “il
trasferimento del secolo”, il passaggio del portoghese in bianconero ha travalicato i
confini prettamente sportivi che le vicende di “calciomercato” sono solite avere: la
discussione ha coinvolto non solo gli addetti ai lavori ed i tifosi, ma anche figure quali
manager, analisti, esperti di marketing. Il motivo è semplice: per la prima volta nella storia
del calcio, a passare da una squadra ad un'altra non è stato un semplice calciatore, ma un
vero e proprio “brand” di successo, generatore autonomo di profitti. Ronaldo infatti non
contribuiva al successo del Real Madrid solo con le sue giocate in campo, ma anche con
la sua forza comunicativa, grazie alla portata che i suoi messaggi erano, e sono, in grado
di avere, soprattutto se veicolati via social network. Con questo ingaggio, la Juventus è
riuscita a garantirsi una risorsa chiave per lo sviluppo del proprio brand a livello mondiale,
in un’ottica di investimento a lungo termine i cui effetti dovranno estendersi anche oltre
la permanenza del calciatore nel club torinese.
Il presente elaborato cerca dunque di analizzare l’unicità di questo evento,
provando a rispondere a quelle domande che tutti gli appassionati si sono posti nei giorni
in cui si concludeva l’operazione: in un contesto, quello del “business calcio”, fortemente
regolato dalle stringenti norme del Financial Fair Play (create per impedire l’eccessivo
indebitamento dei club), come fa una società di alto livello come la Juventus a concedersi
il “lusso” di un acquisto come quello di Cristiano Ronaldo, per il quale la spesa di
ingaggio sarà di 30 milioni di euro annui per 4 anni, ed il costo di acquisto superiore a
110 milioni? Quali sono le premesse di un’operazione del genere? In che modo la si è
resa possibile a livello economico? Come integrarla nel business model societario?
Per rispondere a questa serie di domande è necessaria un’analisi generale
dell’evoluzione che il mondo del calcio ha attraversato negli ultimi trent’anni e delle sue
odierne componenti manageriali; dopo un primo capitolo introduttivo, in cui vengono
accennati i principali eventi che hanno portato alla nascita dell’ odierno modo di operare
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in questo settore, l’elaborato approfondisce, nel secondo capitolo, tutti i vari aspetti della
gestione societaria, adoperando come strumento di analisi il Business Model Canvas di
Osterwalder, con particolare attenzione alla struttura dei ricavi e quella dei costi, ed alla
loro definizione in un’ottica di redditività e competitività aziendale, prima che sportiva.
Prima di completare l’analisi della gestione economica delle società nel capitolo quarto,
presentando le principali caratteristiche del Financial Fair Play , il sistema di controllo
UEFA volto a prevenire e punire la cattiva gestione economica dei club, l’elaborato
prosegue con un intero capitolo dedicato alla sempre maggiore importanza che la
comunicazione riveste nel mondo del calcio, al nuovo ruolo del tifoso/consumatore e ai
metodi utilizzati dalle società per veicolare se stesse, il proprio brand e la propria value
proposition nel modo più efficace possibile, con un approfondimento riguardante l’ultima
frontiera di engagement dei supporters: i social media. Il capitolo finale riunisce i vari
aspetti trattati nell’elaborato attraverso lo studio del “caso Ronaldo”, un’operazione
facente parte di una più ampia strategia; uno strumento per “alzare l’asticella” e ottenere
un vantaggio competitivo su più livelli, grazie al possesso di una risorsa chiave. La
specifica trattazione dei rischi e dei benefici connessi all’operazione è preceduta da una
breve analisi del brand Ronaldo e della situazione economica della Juventus, frutto di
anni di oculata e profittevole gestione. Vi è infine un accenno a quelli che potrebbero
essere i vantaggi per il calciatore stesso, e le conseguenze positive, a livello di immagine,
per la Serie A e la stessa città di Torino.
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CAP. 1
DA SQUADRA AD AZIENDA
1.1 Dal “mecenatismo” alla gestione aziendale: il calcio che diventa business
Il calcio è, indiscutibilmente, un enorme fenomeno culturale, oltre che sportivo. Con 3,5
miliardi di fan e oltre 240 milioni di praticanti, è lo sport più popolare del pianeta. Nato
in Inghilterra in piena età vittoriana (risale al 1863 la fondazione della prima federazione
nazionale, la Football Association), il “football” si è diffuso in modo capillare, prima in
Europa e nel continente sudamericano, poi nel resto del pianeta, fino a contare, ad oggi,
211 federazioni nazionali affiliate alla FIFA (Fédération Internationale de Football
Association), il massimo organo di controllo e governo internazionale, responsabile
dell’attività di supervisione e coordinamento della disciplina sportiva,
dell’organizzazione delle competizioni (insieme alle federazioni affiliate) e dei criteri di
ripartizione delle risorse.
Nel corso della sua ultracentenaria storia, il mondo del calcio, nella sua
organizzazione, è cambiato in modo radicale. Alle logiche prettamente sportive si sono
aggiunte, nel tempo, quelle economiche, fino a trasformarlo, negli ultimi anni, in un vero
e proprio business, in cui termini come sostenibilità, pareggio di bilancio, solidità
finanziaria, business model hanno assunto un’importanza sempre più centrale.
La prima grande rivoluzione avvenne negli anni 60’, con la nascita della figura
del “calciatore professionista”, colui che offre la propria prestazione sportiva dietro
compenso. Il conseguente aggravio dei costi di gestione spinse i club calcistici alla ricerca
di figure imprenditoriali disposte a investire parte del proprio patrimonio personale nel
progetto sportivo: nacque così la figura del c.d. “mecenate sportivo”. Spesso spinto dalla
passione e dal tifo, oppure al fine di ottenere un ritorno in termini di immagine e
pubblicità, il presidente-mecenate investiva risorse finanziarie nella società senza
pretendere un ritorno economico positivo (Cataliotti, 2015). L’approccio alla gestione era
quindi soggettivo, senza una vera e propria pianificazione strategica e senza l’ausilio di
figure manageriali competenti. Il tutto in un contesto giuridico dove le società erano
considerate enti senza scopo di lucro, che operavano spesso in perdita e sopravvivevano
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grazie al proprietario, che si occupava di ripianare le suddette perdite (Tanzi, 1999). Fu
quello un periodo di grandi successi sportivi per il calcio italiano.
A partire dagli anni ‘90, però, questo sistema entrò sempre più in crisi, fino a
potersi affermare, ad oggi, l’impossibilità di una gestione “mecenatistica” in senso stretto
delle società. Ciò è frutto di una serie di concause le quali hanno radicalmente trasformato
il modo di operare dei club e le loro priorità.
Tutto ebbe inizio in Inghilterra, dove, per effetto della distribuzione di diritti
televisivi dal valore sempre più elevato (dal 1992, anno di nascita della Premier League,
ad oggi, si è passati da 304 milioni a 7 miliardi di sterline) e per l’arrivo di sempre
maggiori investimenti stranieri, vi sono stati grandi cambiamenti nelle business strategies
dei club. “I dirigenti della Premier sono stati abili a sfruttare nel migliore dei modi le
possibilità concesse da ricavi così ingenti. [...] hanno esplorato opportunità che gli altri
grandi campionati europei non avevano pensato di sfruttare. Oggi la Premier League è il
campionato più seguito in Asia. [...] Oggi tutti i top club europei nell’off-season
programmano tournée in giro per il mondo con l’obiettivo di conquistare nuove frange di
tifosi. Non sempre trovano però terreno fertile visto che i club della Premier hanno
intrapreso questo percorso con anni di anticipo” (Calò, 2018).
L’Inghilterra divenne quindi il primo paese a trasformare il calcio in un business
a tutti gli effetti. Negli altri paesi, comunque, il cambiamento arrivò pochi anni dopo,
incarnato dalla celeberrima “sentenza Bosman” del 1995. Con essa, la Corte di Giustizia
dell’Unione europea ridefinì di fatto un nuovo sistema di regole: fu permesso ai calciatori
professionisti con cittadinanza in uno dei paesi dell’UE di trasferirsi liberamente da un
club all’altro alla scadenza del contratto, annullando le norme nazionali che limitavano il
numero di stranieri nelle squadre. Le società persero così il proprio potere nei confronti
dei calciatori, non più costretti, alla scadenza del contratto, a richiedere l’assenso del club
di provenienza per potersi trasferire.
In Italia, un ulteriore tassello venne posto con la L. del 18 novembre 1996, n. 586,
che permise alle società sportive professionistiche la distribuzione ai soci dell'utile di
esercizio, rendendole così a tutti gli effetti società a scopo di lucro e permettendo,
indirettamente, l'ampliamento delle attività commerciali. I club cominciarono ad
estendere l’attività d’impresa alla vendita di riprese televisive e di spazi pubblicitari, al
merchandising e alla stipula di contratti di sponsorizzazione, favorendo la ricerca di
capitale esterno ed una più marcata diversificazione dei ricavi. Le società diventarono
delle vere e proprie aziende, i cui costi crescevano insieme ai ricavi, e in cui una gestione
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non oculata e una mancanza di programmazione potevano provocare delle perdite
impossibili da ripianare.
Sono queste le principali cause della crisi del mecenatismo, che nella sola Italia
ha portato negli ultimi anni al fallimento di molte società professionistiche (oltre 150 in
15 anni). A dare il colpo di grazia ad un sistema già inadeguato ai tempi ha provveduto la
stessa UEFA, organo amministrativo e di controllo del calcio europeo, con l’introduzione,
a partire dal 2011, di una serie di norme riunite sotto la definizione di “Financial Fair
Play”
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, il quale, nella sua versione più aggiornata (2015), impone alle società di operare
in sostanziale pareggio di bilancio, pena, nei casi più gravi, il mancato rilascio delle
licenze necessarie per partecipare alle manifestazioni UEFA (Champions League ed
Europa League). L’obiettivo è quello di migliorare le condizioni finanziarie generali del
calcio europeo, e inoltre incoraggiare i club a costruire il proprio successo, piuttosto che
continuare a cercare 'soluzioni rapide' (come appunto l’iniezione di liquidità a fondo
perduto da parte del proprietario). Grazie al Fair Play Finanziario, tutte le società che
aspirano a giocare competizioni europee, e quindi a far parte dell’élite del calcio, hanno
dovuto adeguare il proprio business model. Il successo di un club, e prima ancora la sua
semplice sopravvivenza, passano oggi dalla ricerca di equilibrio e sviluppo economico,
tipicamente aziendale.
1.2 La competitività aziendale al servizio di quella sportiva
L’obiettivo primario delle società calcistiche rimane, ovviamente, il raggiungimento del
miglior risultato sportivo possibile. Una buona gestione economica non è quindi fine a
sé, ma consente di avere le risorse necessarie per assicurarsi i migliori “asset” sul mercato,
indispensabili per raggiungere le vittorie sul campo: questi asset ovviamente sono i
calciatori. Anche se vi è sempre una componente di incertezza tipica della competizione
sportiva, il mondo del calcio sembra decisamente premiare quelle società eccellenti dal
punto di vista economico: basti pensare che le ultime 7 edizioni
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della UEFA Champions
League, la massima competizione europea per club, sono state vinte da squadre che
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Vedi Capitolo 4
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Viene esclusa l’edizione 2017/18, vinta dal Real Madrid, in quanto non è stata ancora pubblicata
l’annuale classifica Deloitte riferita alla suddetta stagione.
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figuravano nella top 5 dell’annuale classifica dei ricavi (al netto delle plusvalenze) stilata
da Deloitte (vedi Tabella 1). Bisogna ritornare alla stagione 2009/10, e alla vittoria in
Champions dell’Internazionale FC (nona nella classifica dei ricavi di quell’anno) per
trovare l’eccezione più recente.
Il calcio è quindi un business che premia chi investe meglio e dove, oltretutto,
vincere alimenta un ciclo virtuoso. I premi derivanti dai risultati sportivi costituiscono,
infatti, una parte cospicua dei ricavi di una società, e spesso il mancato raggiungimento
degli obiettivi sportivi (e dei premi a loro connessi), anche solo per una stagione, rischia
di compromettere l’equilibrio di un club e conseguentemente limitare gli investimenti per
migliorare la rosa per l’anno successivo. Questo accade per quei club che non hanno
revenue streams tali da renderli indipendenti dai risultati sportivi. Capita così che una
vittoria o una sconfitta possono a volte significare milioni di euro in più o in meno a fine
anno; i risultati sportivi rischiano di condizionare in positivo o in negativo il risultato
economico e la programmazione futura del club. La mancata partecipazione all’edizione
successiva della Champions, ad esempio, può portare un club, costretto dai dettami del
Financial Fair Play a limitare le perdite, a dover vendere un proprio calciatore per fare
cassa e ottenere una plusvalenza che compensi i mancati introiti, e tutti gli investimenti
nel parco giocatori devono essere ponderati considerando l’impatto sul bilancio.
Il caso studio presentato in questo saggio è un esempio lampante di come la
competitività sul versante economico e finanziario sia importante per raggiungere quella
sportiva: si analizzerà il caso di una società, la Juventus, che grazie ad un modello di
business vincente è riuscita a guadagnarsi un posto tra i top club europei e a garantirsi le
risorse necessarie per strappare ad una diretta concorrente, il Real Madrid, un “asset”
chiave quale Cristiano Ronaldo, predisponendo grazie a questo un nuovo piano di
crescita, sia sportiva che economica, che interesserà l’intera attività della società;
un’attività che verrà approfondita nel prossimo capitolo attraverso l’utilizzo del “business
model canvas”. Verranno quindi analizzati i vari ambiti della gestione, con particolare
attenzione per la parte economica, formata da ricavi e costi, che sintetizza in concreto le
strategie relative a partnership, attività, comunicazione e ogni altra componente facente
parte del business model.