4
Ciò non deve d’ altro canto far pensare che l’ indagine sia organizzata in
senso diacronico: essa, piuttosto, si sviluppa intorno a tre nuclei di
riflessione principali, sulla base dei quali abbiamo diviso l’ esposizione in
tre diversi capitoli.
Senza escludere inevitabili sconfinamenti e contaminazioni fra una sezione
e l’ altra, nella prima tratteremo le corrispondenze fra la letteratura delle
rovine e la filosofia stoica; la seconda sarà invece dedicata all’ evoluzione
della percezione delle rovine famose dell’ epos, ed in particolare di quelle
di Troia, molto particolari per la sensibilità di Roma, dal momento che
avevano a che fare con la sua origine mitica. Il terzo capitolo, infine, avrà
un taglio più storico, essendo dedicato allo spettacolo delle rovine dell’
Impero negli anni delle grandi invasioni barbariche e dell’ affermazione
definitiva del Cristianesimo.
Abbiamo poi pensato di concludere la nostra tesi seguendo il cammino di
un topos, quello delle città che muoiono, che supera i limiti della letteratura
latina, ricomparendo, più o meno trasformato, nella letteratura delle rovine
posteriore, medievale e moderna.
Avendo a che fare con una ricerca tematica, per trattarne esaurientemente
alcuni aspetti abbiamo avuto spesso la necessità di considerare anche realtà
5
letterarie diverse da quella latina, ricorrendo così a testimonianze di autori
greci o, parlando dei cristiani, alle Sacre Scritture.
Si considerino questi riferimenti degli sconfinamenti, semplici occasioni di
confronto, e non tentativi di allargare la nostra indagine ad ambiti che non
le competono.
Non esistono veri e propri studi specifici sul rovinismo antico, il tema è
però ampiamente trattato in un libro di Francesco Orlando
1
a cui faremo
spessissimo riferimento nel corso della nostra esposizione. Dedicato a tutti
gli oggetti desueti della letteratura, esso ha il pregio di rappresentare un
utilissimo repertorio per le attestazioni delle immagini di rovine da Omero
ai giorni nostri, permettendo di valutarne gli sviluppi e di confrontare fra
loro le diverse fasi che ha attraversato il tema.
Ci siamo poi basati su articoli dedicati ai passi che abbiamo raccolto, o, il
più delle volte, sui commenti dedicati alle opere dai quali questi passi
provenivano,
2
cercando spunti per le riflessioni che tenteremo di
organizzare nelle pagine che seguono.
1
Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e
tesori nascosti. Torino 1993.
2
Questi strumenti sono stati sempre citati in nota, oltra che nella bibliografia finale.
6
CAPITOLO PRIMO
CONSIDERAZIONI STOICHE SULLE ROVINE
Il primo vero passo di rovinismo della letteratura latina è legato al dolore
privato di una delle sue massime voci.
Nel Febbraio del 45 a. C. la figlia di Cicerone, Tullia, morì a Tuscolo per le
complicazioni di un parto prematuro. Per il sessantenne pater patriae il
colpo fu durissimo: del tutto impotente di fronte allo straordinario potere di
Cesare
3
, aveva sperato di poter trovare negli affetti domestici conforto ai
dispiaceri della vita pubblica, ma la scomparsa della figlia lo privò anche di
quest’ultimo sollievo: Mihi, amissis ornamentis iis quae ipse commemoras,
quaeque eram maximis laboribus adeptus, unum manebat illud solatium
quod ereptum est …Non enim, ut tum me a republica moestum domus
excipiebat quae levaret, sic nunc domo moerens ad rempublicam confugere
possum, ut in eius bonis acquiescam. Itaque et domo absum et foro…
4
3
Cfr. Fam. VI, 6 “hoc tempus, quod est totum ad unius voluntatem accommodandum”.
4
Ibid.
7
Schiacciato da una situazione così angosciante, Cicerone cercò rifugio nella
filosofia, animi medicina
5
, aprendo la stagione delle sue grandi opere
filosofiche, dall’Hortensius agli Academica, dal De Finibus alle
Tusculanae disputationes ed al De Natura deorum. Ad inaugurare questa
nuova fase creativa fu proprio una Consolatio per la morte di Tullia, che
purtroppo ci è giunta in pochi frammenti, buona parte dei quali
rappresentati da citazioni presenti in altre opere dell’Arpinate.
6
L’ epistolario di Cicerone, preziosissimo nell’illuminare aspetti della sua
vita privata che, diversamente, non ci sarebbero noti, testimonia in più
punti che amici ed anche avversari politici gli inviarono lettere di
condoglianze in occasione della morte di Tullia: fra questi Dolabella (ex
genero di Cicerone)
7
, lo stesso Cesare
8
, L. Lucceio
9
, Bruto
10
, Servio
Sulpicio Rufo, governatore dell’ Acaia.
Proprio il vecchio amico di Cicerone
11
,come nota il Buresch
12
,scrisse la
più bella delle lettere a noi giunte, inaugurando a tutti gli effetti un genere,
5
Tusc. 3, 6.
6
L’opera incontrò una vasta fortuna, specialmente nelle opere dei cristiani (Girolamo, Ambrogio) come
ha dimostrato C.Buresch in Consolationum Graecis Romanisque scriptarum historia critica, “Leipz.
Studien zur class. Phil. “, 9, 1887, in part. pp. 97-107.
7
Cfr. fam. IX, 11.
8
Cfr. ad Att. XIII, 20, 1.
9
Cfr. fam. V, 15 che è la risposta di Cicerone alla sua lettera di condoglianze, purtroppo perduta..
10
Cfr. ad Att. XII,14, 4 e ad Brut. 1, 9, 1.
11
A Sulpicio dedicò un elogio nella IX Filippica.
12
C. Buresch op. cit., p.94: “Et huius quidem pulcherrima consolatio nobis ipsa servata”.
8
quello consolatorio, che fino a quel momento era stato appannaggio della
letteratura greca (in particolar modo di quella filosofica). La consolatio
13
di
Sulpicio è strutturata per argomentazioni giustapposte
14
tutte destinate a
convincere Cicerone che è inutile consumarsi nel dolore di fronte ad un
evento ineluttabile, data la natura mortale dell’uomo, tanto meno quando a
soffrire è un uomo pubblico del calibro dell’ Arpinate. Sulpicio invita
l’amico a riflettere sulla difficilissima situazione che Roma sta vivendo
15
,
asserendo che in momenti simili è addirittura preferibile la morte alla
vita
16
,e sottolinea la necessità che Cicerone si comporti da esempio per i
suoi concittadini
17
. Fra gli altri,la consolatio introduce un’argomento che
sarà bene riportare per intero:
Quae res mihi non mediocrem consolationem attulit volo tibi
commemorare, si forte eadem res tibi dolorem minuere possit. Ex Asia
rediens cum ab Aegina Megaram versus navigarem, coepi regiones
circumcirca prospicere. post me erat Aegina, ante me Megara, dextra
13
ad Fam IV, 5.
14
Tutte analizzate da Rudolf Kassel in Untersuchungen zur griechischen und römischen
Konsolationsliteratur München, 1958 pp. 98-103.
15
Ad Fam. IV, 2 “…cogita quem ad modum adhuc fortuna nobiscum egerit; ea nobis erepta esse quae
hominibus non minus quam liberi cara esse debent, patriam, honestatem, dignitatem, honores omnis…”
16
ibid., 3 “…sine dolore licitum est mortem cum vita commutare!”
9
Piraeus, sinistra Corinthus, quae oppida quodam tempore florentissima
fuerunt, nunc prostrata et diruta ante oculos iacent. coepi egomet mecum
sic cogitare: 'hem! nos homunculi indignamur si quis nostrum interiit aut
occisus est, quorum vita brevior esse debet, cum uno loco tot oppidum
cadavera proiecta iacent? visne tu te, Servi, cohibere et meminisse
hominem te esse natum?
18
Un viaggio nell’Egeo e la visione di città quodam tempore florentissima,
adesso in rovina, diventano per Sulpicio lo spunto per una riflessione di
carattere universale sulla condizione mortale: se anche le città hanno un
loro ciclo di vita, la morte di un uomo è spogliata di qualunque
eccezionalità, diventa addiritura insignificante
19
. La sproporzione è la
stessa che intercorre, in quanto a dimensioni, fra l’uomo ed il grande
monumento, che pure è stato costruito per superare i limiti umani.
Il paragone implicito nelle parole di Sulpicio, fra la sorte degli esseri
umani e quella delle città, ha l’effetto di sminuire ogni lutto privato
17
Ibid. “Denique noli te oblivisci Civeronem esse, et eum qui aliis consuerit praecipere et dare consilium:
neque imitare malos medicos, qui in alienis morbis profitentur tenere se medicinae scientiam, ipsi se
curare non possunt”.
18
Ibid., 4.
19
Più avanti Sulpicio. Arriva a dire: “Modo tempore tot viri clarissimi interierunt: de imperio populi
Romani tanta deminuitio facta est: omnes provinciae conquassate sunt: in unius muliercula animula si
iactura facta est, tanto opere commoveris?”
10
diluendolo in una vicenda assolutamente più generale: è il mondo stesso ad
andare in rovina e questo progressivo disfacimento interessa
necessariamente tutto ciò che del mondo fa parte, in primo luogo le
costruzioni dell’uomo ed i suoi ricordi, legati a questi monumenti.
Egina, Megara, il Pireo, Corinthus, “…oppida quodam tempore
florentissima fuerunt “, ma chi osserva non si ferma a considerare ciò che
questi nomi richiamano alla mente, come se alla rovina delle cose si
accompagnasse ormai anche il silenzio su cosa queste città
rappresentarono. In tal senso è anche importante notare come la descrizione
di Sulpicio taccia del tutto sulle circostanze che hanno determinato il
passaggio da oppida florentissima ad oppidum cadavera: la rovina di
queste città è ormai un dato di fatto, è il punto di partenza per una
riflessione che non necessita di ulteriori specificazioni. Soffermandosi sulle
cause del loro declino, Sulpicio avrebbe caratterizzato troppo storicamente
queste città, facendo in definitiva perdere loro la funzione di esempi
universali.
L’unica precisazione temporale fatta da Sulpicio è quella dell’ opposizione
tra quodam tempore, intorno a cui si ammassano i nomi celebri delle città e
11
la notazione della loro prosperità passata, ed il nunc che apre la descrizione
della loro decadenza
Il tono, come ha notato Francesco Orlando nel commentare questo passo
20
,
è quello dell’ ammonizione solennemente consolatoria, questa solennità, a
mio parere, rende impossibile una lettura pre-romantica del sentimento che
ispira Sulpicio: la visione della rovina non precede un ripiegamento
malinconico dell’osservatore su se stesso e sulla considerazione intimista
della propria caducità, ma è la premessa di un’ esortazione filosofica a
considerare la vicenda umana come inserita nel ciclo di distruzione
universale. Sulpicio non recrimina contro l’ingiustizia della condizione
umana, né si abbandona all’autocommiserazione, sentimento, del resto, che
egli tenta di scacciare dall’animo del destinatario della sua consolatio, non
mi sembra, insomma, che a prevalere siano i toni malinconici, il che è
dovuto certo al particolare contesto del discorso.
Il genere consolatorio ebbe una grandissima importanza in tutte le
principali scuole filosofiche dell’antichità
21
, e ci è possibile seguirne le
20
Cfr. Orlando, Op. cit., pgg. 81 sgg.
21
Cfr. C. Buresch, Op. cit. p. 4-5 : “Poetae utem quamquam...praeierunt in hoc genere philosophis (multi
erant hac in materia Orphici), et epicediorum et trenorum genus antiquissimum non solum mortuos
deflebat sed etiam superstites consolabatur, tamen florentibus quidem litteris in eo minus quam rhetores et
philosophi se exercebant. Qui quidem tam accurate totam materiam conlegerant et pro variis lugendi
occasionibus disposuerant, ut mox separatim certae scholae exsisterent, quae non solum de morte sed de
12
vicende in un arco di tempo vastissimo, che va da Democrito (in particolare
con il libello, perduto, per� t�n �n �Aidou) alla Consolatio Philosophiae
di Boezio. Credo che il passo di “rovinismo antico” su citato risenta molto
di un sostrato filosofico, verosimilmente stoico, che ne sostiene le
immagini, il suo contesto è quello di un “ragionamento”,di un’
argomentazione che “antropomorfizza l’inanimato, per accomunarlo agli
animali umani nella morte”
22
.
L’ antropomorfizzazione è evidente se consideriamo i termini che
descrivono le città in rovina: prostrata et diruta ante oculos iacent e, più
avanti, oppidum cadavera proiecta iacent. Se è vero che già il participio di
prosterno può essere utilizzato per gli esseri umani
23
, è nel passaggio da
diruta a cadavera proiecta che le rovine smettono di essere un ammasso di
pietre e si trasformano in cadaveri insepolti lasciati ad imputridire, come se
Sulpicio, più che un paesaggio osservato dal mare, descrivesse ciò che resta
su un campo di battaglia dopo lo scontro.
exilio, de interitu patriae, de servitute, de debilitate , de caecitate, de omni casu in quo nomen poni solet
calamitatis, dicerent et scriberent”.
22
Orlando, op. cit. p.82.
23
Cfr. se ad pedes alicuius prosternere.
13
Con Sulpicio il tema della morte delle città entrava come topos nella
letteratura consolatoria, destinato ad una fortuna grandissima, come avremo
modo di considerare più volte all’ interno di questa trattazione.
Soffermiamoci adesso su ciò che ci sembra costiturne la premessa
necessaria: la convinzione che il mondo stesso sia mortale.
Il Timeo di Platone, dopo il racconto della leggenda di Atlantide, sviluppa
una cosmologia
24
aperta dalla distinzione fra Essere e Divenire: il primo è
eterno ed immutabile, oggetto di ragionamento, il secondo, all’ opposto è
sempre in cambiamento, gign�menon ka� �poll�menon
25
, mai realmente
esistente, oggetto della sensazione irrazionale. L’ uno rappresenta la sfera
ideale, l’altro la fenomenica, ed è evidente che l’ universo sensibile
appartiene a questa, di conseguenza anch’ esso nascerà ed andrà in rovina.
Il cosmo, inteso come totalità, ha un’ anima, è uno z�on logik�n
26
, da
questa anima “totale” hanno origine tutte le anime individuali, quindi la
vita di tutti i singoli esseri viventi
27
. Cicerone, nel secondo libro del De
Natura deorum, in cui è illustrata la teologia stoica, riprenderà questa
24
Tim. 27 C e sgg.
25
Ibid. 28 A.
26
cfr. in part. 30 C e D : “o�twj o�n d� kat� l�gon ton e�k�ta de� l�gein t�nde t�n k�smon z�on
�myucon �nnoun te t� alhqe�v di� t�n to� qeo� gen�sqai pr�noian”.
27
cfr. M. Pholenz, L’ uomo greco, Firenze, 1962. Pp.414 ssg.
14
concezione del mondo come essere animato: “ita efficitur animantem,
sensus, mentis, rationis mundum esse compotem”
28
La fisica stoica non si era allontanata affatto da questa concezione del
cosmo
29
: esso è un tutto unico e continuo, in sé concluso, informato in tutte
le sue parti dall’ unica divinità. Tutto ciò che queste parti hanno in sé
(movimento, anima, ragione etc.), deve trarre origine dal cosmo stesso che
sarà così “ un animale dotato d’anima, di intelligenza e ragione”
30
.
La divinità, unica, si manifesta nella unicità del mondo “ma questa sua
unicità , nel numero e nella qualità, vale solo per il suo stato attuale. In
realtà Zenone era convinto,non meno di Epicuro, della giustezza di questi
due princìpi: “Nulla può nascere dal nulla né finire nel nulla. La sostanza
universale è quindi indivenuta ed imperitura”
31
. Ma nello stesso tempo era
ugualmente forte in lui il sentimento che il mondo attuale è soggetto al
28
Nat. Deor. II, 47. Questa affermazione si inserisce in un ragionamento composto da “due sillogismi
intrecciati: a- PREMESSA MAGGIORE: dio è superiore a tutto
PREMESSA MINORE: il mondo è superiore a tutto
b- PREMESSA MAGGIORE: il mondo è superiore a tutto
PREMESSA MINORE: ciò che è superiore a tutto ha sensibilità, mente e ragione ;
b- CONCLUSIONE: il mondo ha sensibilità, mente e ragione
a- CONCLUSIONE: il mondo è dio.” Cfr.Cic. De Natura deorum.a cura di Nino Maritone,
Firenze, 1960. Pg.127.
29
Cfr. a riguardo: M. Pohlenz, La Stoa, trad. it. Firenze 1967, vol I, pp. 144 e sgg.
30
SVF 110. Per la traduzione di questo frammento e di quelli che seguono mi rifaccio a Stoici antichi:
tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, Milano, 1998.
31
Per la hyle �g�nhtoj ka� �fqartoj o�te ple�wn gignom�nh o�te el�ttwn vedi SVF I 88, 87, II 597,
599.
15
divenire e al perire.”
32
Arriviamo così all’ assunto su cui ci sembra
poggiare la riflessione di Sulpicio sulle città che muoiono.
Consideriamo SVF 87: “sostengono che la sostanza di tutte le cose sia la
materia prima…. Zenone chiama in due modi la sostanza e la materia, a
seconda che sia riferita al tutto o alle parti. La sostanza-materia del tutto
non è suscettibile né di aumento né di diminuzione, quella delle parti,
invece, è suscettibile sia di aumento che di diminuzione”
33
. Su questa
distinzione la fisica stoica fondava la negazione dell’eternità del mondo
attuale, ed introduceva il tema dell’ ekpyrosis, la conflagrazione universale
in cui si dissolve ciclicamente il cosmo : “…gli Stoici sostengono che il
cosmo è uno, che dio è la causa della sua generazione , ma non della sua
dissoluzione, la quale è invece determinata dall’ azione del fuoco
inestinguibile all’ interno delle cose: azione che nel lungo periodo dissolve
in se ogni realtà. Però, a partire da essa, anche il mondo si rigenera, grazie
alla provvidenza dell’ artefice. Così secondo loro si può sostenere che il
mondo sia e non sia corruttibile: sia corruttibile in ragione del suo ordine
(diak�smhsij), e sia incorruttibile in ragione della conflagrazione
(�kp�rwsij) e a motivo del fatto che la rigenerazione ciclica e incessante
32
M. Pholenz, Max, La Stoa, cit. p. 147.
33
SVF I 86.
16
gli conferisce immortalità.”
34
Il cosmo, in conclusione, è eterno come
sostanza del mondo, è nato ed è perituro in quanto diakòsmesis,
dispiegamento, cioè, della sostanza nell’attuale varietà di forme.
35
Fra gli argomenti dei quali Zenone si serviva per suffragare la sua ipotesi
sulla corruttibilità del mondo, uno mi sembra degno di particolare
attenzione: “E’ destinato a completa corruzione ciò le cui parti nella loro
totalità sono corruttibili; ma tutte le parti del cosmo sono corruttibili, e
dunque anche il cosmo lo è[…]Le pietre, anche le più dure non è forse vero
che imputridiscono e vanno in disfacimento ?”
36
. Nello stesso frammento il
cosmo e gli esseri umani appaiono affiancati in un destino comune di
morte: “Se il cosmo fosse eterno, anche gli esseri viventi sarebbero eterni e
a maggior ragione il genere umano per la superiorità che vanta rispetto alle
altre specie.[…]E se l’ uomo non è eterno, non lo sarà neppure alcun altro
vivente, né i luoghi che li ospitano: la terra, l’ acqua e l’aria. Da ciò
chiaramente deriva che il mondo è corruttibile.”
37
Volendo trarre un’ immagine più letteraria dal sillogismo di Zenone sembra
quasi che la caducità degli uomini sia contagiosa e si estenda ai “luoghi che
34
SVF II 620.
35
M. Pholenz La Stoa, op. cit. p.149.
36
cfr. SVF I 106.
37
Ibid. I, 106a.
17
li ospitano”, le città, appunto, che abbiamo visto ridotte in macerie sotto gli
occhi del governatore dell’ Acaia.
La meditazione di Sulpicio qui risulta rovesciata: non sono gli uomini a
morire come le città, ma è il mondo a morire come gli uomini. L’ effetto di
questa inversione dà alla descrizione della rovina una funzione del tutto
nuova: quella che in Zenone era una prova scientifica su cui fondare una
cosmologia, in Sulpicio diventa una meditazione sull’ uomo e sul suo
destino di morte. Il percorso, nella lettera consolatoria, non è dall’ uomo-
parte del tutto al cosmo, la riflessione, dopo essersi allargata a considerare
il destino delle città, ritorna e si chiude sull’ uomo, pur annulandolo, come
ho detto prima, nella sproporzione del paragone: “hem! nos homunculi
indignamur si quis nostrum interiit aut occisus est, quorum vita brevior
esse debet, cum uno loco tot oppidum cadavera proiecta iacent? visne tu te,
Servi, cohibere et meminisse hominem te esse natum?”
La centralità dell’ uomo e della sua condizione in questa riflessione segna il
passaggio da un’ argomentazione di tipo filosofico-scientifico come quella
di Zenone ad un’ altra di tipo consolatorio, diventando anche la principale
nota di differenzazione fra passi che mi sembrano, per il resto, molto vicini
fra loro.