INTRODUZIONE
“Osservate con quanta previdenza la Natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere
ovunque un pizzico di follia” queste le parole iniziali del celebre saggio di Erasmo da
Rotterdam con cui l’autore sottolinea, immediatamente, un aspetto essenziale: alla follia
apparteniamo poiché essa, alla stregua della normalità, è insita nella naturalezza umana. E
allora dobbiamo chiederci, dove nasce la follia? Laddove inizia la normalità, potremmo
opinare. L’uomo, infatti, ha eretto la propria storia sulla base di tale dicotomia, definendo –
dunque delimitando – il campo d’azione e di pensiero che può essere definito normale, da
quello che va considerato folle, utilizzando come criterio la ripetibilità. I comportamenti
attuati con ripetuta frequenza, da un ampio numero di persone, verranno allora definiti
normali, quelli dissennati, sfuggenti alla ragione, saranno invece tipici dei folli, poiché più rari
da incontrare e, ancor più, da comprendere.
Etimologicamente il termine folle rimanda alla parola mantice, recipiente vuoto, ovvero testa
piena d’aria. La parola, di derivazione greca, racchiude in sé il phatos, la sofferenza, e il
patiens, il paziente, il malato, la persona – appunto – sofferente. Sin dal principio delle civiltà,
pertanto, emerge come l’accento non venne posto sulle bizzarrie di cui una persona al di là
del normale, dove per normale intendiamo il comunemente accettato, possa farsi portatore
ma, al contrario, ci si focalizza sulla dimensione dolorosa che questi può alimentare, in se
stesso e negli altri. L’irrazionale sfugge per definizione ai parametri interpretativi di cui la
ragione si nutre, pertanto l’angoscioso timore che spinge l’uomo a dover conoscere il mondo
nel quale si muove, lo porta ad allontanare ciò che non riesce a comprendere e, meglio ancora,
a controllare. Tale bisogno nasce dalla necessità dell’animo umano di sentirsi al sicuro,
pertanto l’alienus, destabilizzatore dell’ordine per antonomasia, viene percepito come una
minaccia e, in quanto tale, deve essere allontanato.
Tuttavia, per gli strateghi della normalità l’allontanamento non sembra una strategia
convincente: chi è lasciato libero di andare conserva, infatti, anche la libertà di tornare.
Bisogna allora elaborare uno stratagemma nuovo, capace di limitare questa angosciosa
possibilità.
La storia dell’uomo ci insegna che meno si è liberi più si è al sicuro, pertanto necessario non è
allontanare l’ignoto ma riuscire a controllarlo. La limitazione della libertà si è spesso tradotta
in repressione, sicché non potendo lasciare il folle in circolazione per le strade del mondo si è
ben deciso di tenerlo vicino, laddove il Genio dell’uomo normale avrebbe potuto limitare le
sue stravaganze: nascono così i primi luoghi di detenzione.
5
Obiettivo di questo elaborato è ricostruire il trattamento che la società normale ha riservato
alla follia criminale che, in passato, era considerata alla stregua di qualsiasi altra devianza per
assumere, oggi, le connotazioni una peculiare malattia psichica, il cui portatore non è più un
individuo alienato dal resto del mondo ma una parte sofferente di esso.
Pertanto nel primo capitolo concentreremo la nostra attenzione su questo cambio visionale, al
quale si deve la nascita di apposite istituzioni dedite allo studio degli alienati, che si
concretizzerà su un doppio versante: da un lato la contenzione del pericolo, dall’altra il suo
superamento, dato dalla possibilità di guarigione. Questo secondo obiettivo si rende
necessario quando illustri uomini di scienza iniziarono a definire la follia come una malattia
organica, per la quale l’individuo in sé non ha colpa, ma dalla quale è comunque necessario
difendersi, al fine di evitare un’epidemia. Questa esigenza di tutela è resa esplicita quando la
follia si incrocia con la criminalità: un individuo privo di razionalità o meglio, dotato di una
razionalità alterata, non può essere lasciato libero di manifestare i propri istinti, dai quali
derivano azioni non solo bizzarre, ma anche criminali, ovvero attentatrici dell’ordine sociale.
Il rischio di criminalità legato alla follia emerge come insicurezza dominante in tutta l’Europa,
dal medioevo al secolo dei lumi, sicché prioritaria divenne l’elaborazione di una strategia
neutralizzante. Questa venne individuata quando le idee di Pinel, padre della Psichiatria
classica, entrano in contatto con quelle di Lombroso, fondatore della criminologia: nasce il
manicomio criminale.
Nel primo capitolo analizzeremo i presupposti teorici che hanno costituito la base del
trattamento riservato dalle nostre società al folle reo non imputabile per vizio di mente. La
non imputabilità implica l’impossibilità di rimproverare un soggetto incapace di intendere e
volere, il quale appare non responsabile per le proprie azioni. Sebbene non cosciente dei gesti
compiuti, o seppur cosciente ma impossibilitato ad agire altrimenti, per cause indipendenti
alla propria volontà, tali individui non possono essere lasciati liberi in funzione della loro
pericolosità sociale, derivante – appunto – dalla mancanza di autocontrollo che presentano,
seppur giustifichiamo quest’ultima attraverso il nome di malattia. Ci addentreremo, dunque,
tra i poli della responsabilità e della colpa, cercando di ricostruire in che misura questi siano
da ritenersi presenti in una persona affetta da malattia mentale e, soprattutto, quanto
l’infermità sia capace di influenzare il comportamento umano per stabilire, alla luce delle
considerazioni fatte, quale sia il trattamento penale da riservare al criminale reso tale dalla
malattia. La presenza di un’alterazione psichica, infatti, non indica sempre l’assenza di
colpevolezza, poiché in alcuni casi l’individuo può conservare un proprio margine di scelta,
qualora questa non attacchi la sua capacità volitiva in maniera assoluta. È pertanto necessario
effettuare un accertamento sulla colpa che l’individuo ha rispetto al reato compiuto, al fine di
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stabilirne il grado di responsabilità in base al quale graduare la pena. L’accertamento dovrà
tener conto, secondo quanto previsto dal nostro codice penale, degli elementi oggettivi e
soggettivi del reato, mediante i quali dovrà costruirsi il nesso eziologico tra l’illecito
commesso e il suo autore. Appurato ciò bisognerà accertare se l’imputato sia effettivamente
imputabile. Cercheremo, pertanto, di ricostruire il concetto di imputabilità adottato
dall’ordinamento italiano, attraverso la sua visione in negativo, ovvero elencando le cause che
potrebbero escluderla. Tra queste si annovera, appunto, il vizio di mente, che viene così fatto
rientrare nella categoria delle presunzioni giurisprudenziali. A queste viene poi ricondotto
anche il tema della pericolosità sociale, considerata dal legislatore degli anni trenta sempre
presente negli individui con infermità mentale. Questi soggetti vengono a trovarsi in una
situazione del tutto peculiare: risultano colpevoli di aver commesso un reato, ma non
responsabili per le proprie azioni, dettate dalla malattia che ha alterato la capacità di intende e
volere dell’individuo considerato, pertanto, non imputabile. Allo stesso tempo, però, il
soggetto infermo di mente viene identificato come individuo socialmente pericoloso, il quale
non potendo essere sottoposto alla pena – poiché non in grado di comprenderne il valore
punitivo e rieducativo – sarà destinato a scontare una misura di sicurezza fin quando la sua
pericolosità non verrà considerata nulla. Combinando le idee della scuola Classica a quelle dei
Positivisti il nostro sistema penale assume l’assetto del “doppio binario”, elaborando una
strategia di prevenzione basata sul controllo di quegli individui non punibili con gli strumenti
tradizionali, ai quali verranno affiancati, appunto, delle disposizioni alternative – che poi, in
realtà, alternative non saranno nella misura in cui potranno applicarsi anche ai soggetti
imputabili, laddove in seguito all’aver scontato la pena ordinaria verranno considerati ancora
pericolosi. Analizzeremo, pertanto, il sistema delle misure di sicurezza con i suoi presupposti
di applicazione, il cui perno è costituito – come già emerso – dalla presenza di pericolosità
sociale.
L’accertamento di quest’ultima verrà effettuato dagli psichiatri forensi, la cui opinione
orienterà il giudice nel verdetto finale. Si passeranno in esame tutte le criticità connesse a tale
strumento valutativo, giudicato in realtà poco idoneo per definire il percorso trattamentale da
riservare al folle reo. Ciò verrà inserito nel più amplio dibattito tra psichiatria e giustizia,
analizzando l’evoluzione del loro rapporto e quindi degli strumenti, degli istituti, delle nozioni
giuridiche di cui la scienza penalista si è avvalsa nel corso del tempo per determinare il
destino del soggetto non imputabile affetto da vizio mentale.
Si osserverà l’evoluzione giuridica del concetto di pericolosità sociale come presupposto
applicativo delle misure di sicurezza: dall’essere una presunzione
7
giurisprudenziale, ovvero elemento da ritenersi sempre presente nel caso di infermità psichica,
diventerà una qualità solo eventuale e non necessaria della persona mentalmente inferma, la
cui presenza richiede un accertamento concreto, caso per caso, dal quale dovrà
necessariamente discendere un trattamento individualizzato per il folle reo, che non guardi
solo alle istanze di tutela della società ma si basi sulla possibilità di cura e reinserimento
sociale di cui quest’ultimo diviene meritevole o, meglio – con l’affermarsi dei diritti
costituzionali – detentore.
La misura di sicurezza ideata per contenere la pericolosità del folle reo è, come abbiamo
affermato, il manicomio criminale. Pertanto, nel secondo capitolo concentreremo la nostra
attenzione all’analisi di questo istituto, ripercorrendone l’evoluzione dall’instaurazione
iniziale al suo definitivo superamento. L’istituzione manicomiale italiana restò in vigore per
più di sessant’anni, conservando intatta la sua forma originale. Solo in periodi recenti la
necessità di riformare il sistema delle misure di sicurezza ad esso legate è divenuta
improrogabile.
Il folle è da sempre vittima di azioni segreganti ma tale segregazione ha assunto nel corso
della storia forme differenti, pertanto proveremo ad analizzarle in relazione ai criteri adottati
per giustificarle. La necessità di separare gli individui mentalmente infermi da tutti gli altri
devianti si fece evidente quando la follia venne associata al concetto di malattia, che portò
alienisti e politici a collaborare nell’ideazione di una struttura appositamente dedicata a scopi
di contenzione ma anche di cura. Il secondo capitolo si apre dunque in questo modo, offrendo
un primo sguardo alla legislazione che inizialmente autorizzò la nascita di una simile
istituzione. Ciò avvenne con il codice Zanardelli che, adottando un’ottica liberale, prevedeva
la possibilità di curare l’anomalia mentale in manicomio senza nessuna presunzione di
pericolosità, sebbene questo fosse un elemento essenziale per stabilire l’esecuzione del
ricovero. Alla sua istituzione il manicomio risultava ancora privo di una disciplina legislativa
che ne organizzasse, in maniera ufficiale, il funzionamento. A ciò si pose rimedio nel 1904,
quando vennero promulgate le prime leggi sugli alienati e i manicomi, mediante le quali si
ufficializzò la prevalenza delle istanze securitarie rispetto alle necessità di cura dei pazienti.
Sulla stessa linea restò poi il codice Rocco del 1930, mediante il quale malattia mentale e
pericolosità sociale diventano elementi inseparabili, essendo la seconda considerata come una
conseguenza diretta ed inevitabile dell’infermità psichica. Viene così a generarsi una Terza
Scuola, che ingloba in sé le idee della scuola Positiva e di quella Classica. Da questo
momento in poi, il destino dell’autore di reato verrà stabilito in base al giudizio di
imputabilità: il soggetto imputabile sconterà la pena, seguendo l’ottica retributiva promossa
8
dai classicisti, mentre il soggetto non imputabile verrà inserito nel sistema delle misure di
sicurezza, secondo la strategia preventiva messa in atto dai positivisti, per i quali era inutile
punire un individuo incapace di intendere rimprovero che gli si voleva muovere, ma che
andava in ogni caso neutralizzato, per evitare che la sua pericolosità producesse rinnovati
danni.
Dunque in un primo momento verrà analizzato il percorso legislativo che ha condotto
l’ordinamento italiano ad accettare l’istituzione manicomiale come luogo di detenzione e
controllo dell’infermo mentale autore di reato. Dalla colpevolezza utilizzata come
presupposto di pena, si passa pertanto all’irresponsabilità, giustificante di azioni preventive
come può essere appunto l’instaurazione del sistema a doppio binario, strumento di garanzia
contro le istanze di pericolosità che gli individui imprevedibili, come appunto i folli rei,
alimentano. Tuttavia, inseguito all’instaurazione della Repubblica e alla consequenziale
stesura della carta costituzionale, il sistema ideato negli anni trenta inizia a sembrate piuttosto
anacronistico rispetto ai rinnovati diritti dell’uomo, primo tra tutti quello alla vita, dunque alla
salute, nonché alla dignità, elementi troppo spesso dimenticati all’interno delle mura
manicomiali. Dopo aver elencato le incostituzionalità di cui si è macchiato il nostro
ordinamento, si passerà all’esame delle modifiche ideate dai governi italiani al fine di
ripristinare la legalità di tale istituto, precisando come intenzione del legislatore non fu mai
quella di abolire il sistema a doppio binario quanto, semmai, di adeguarlo ai nuovi principi
promossi dalla Costituzione. il primo passo compiuto verso tale direzione venne attuato a
livello terminologico abolendo l’antica nomenclatura di manicomio criminale per adottare
quella più moderna – e umanamente accettabile – di Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Tale
cambiamento serviva a spiegare la nuova ottica con cui psichiatria e giurisprudenza avrebbero
dovuto osservare la malattia o meglio il malato: non più individuo in preda ad una follia
criminale senza limiti e censure ma un soggetto costretto a soffrire per cause legate ad
un’infermità psichica, paragonabile a tutte le altre malattie e, pertanto, meritevole di cure,
ovvero di un impegno costante da parte di quelle istituzioni che troppo allungo avevano
ignorato le sue necessità, preferendo far fronte alle istanze di difesa sociale. Questo primo
intervento di riforma del sistema penale, che porta alla scomparsa del manicomio criminale,
sostituito dall’OPG mostra però, come intenzione del legislatore non fosse superare tale
istituto quanto piuttosto migliorarlo, alla luce delle condizioni di violenza e abbandono cui
erano sottoposti gli internati, inconciliabili con la nuova visione di malattia mentale, in
funzione della quale era necessario sviluppare una reazione morale volta alla promozione del
benessere psichico del suo portatore.
9
Quella appena descritta è solo una delle tante riforme mancate che hanno caratterizzato il
nostro ordinamento penale. Vedremo, infatti, come questo resti estraneo alla rivoluzione
psichiatrica avviata con la Legge Basaglia, che porterà alla chiusura degli ospedali psichiatrici
civili, ma eviterà accuratamente di addentrarsi nei meandri della psichiatria forense, riuscendo
però ad influenzarla in maniera indiretta e generandovi, forse, conseguenze negative. Se gli
anni 70 sono dunque stati caratterizzati da tentativi di riforma alquanto blandi, un passo avanti
si compie negli anni ottanta, quando vengono finalmente abolite le presunzioni di pericolosità
sociale del malato di mente, definito tale solo in funzione della sua malattia. Non negando che
l’infermità psichica possa generare comportamenti che sarebbe meglio prevenite,
l’accertamento della pericolosità sociale resta sempre criterio cardine per l’applicazione delle
misure di sicurezza però la sua presenza andrà accertata caso per caso, al fine di individuare
anche un trattamento personalizzato del reo in base alle sue reali necessità di cura.
L’attenzione alla dimensione terapeutica inizia finalmente ad emergere e, anche se non viene
anteposta alle esigenze societaria di tutela, risulta quanto meno posta sullo stesso piano. Da
questa rinnovata posizione saranno avviati numerosi tentativi di riforma per elaborare nuovi
percorsi trattamentali capaci effettivamente di fronteggiare i bisogni sanitari del folle reo, pur
senza dimenticare le necessità di tutela sociale. In tal senso procederanno il progetto Grosso,
quello Nordio e quello Pisapia che proporrà una visione alternativa dei presupposti di
applicazione per le misure di sicurezza, ipotizzando la possibile sostituzione della pericolosità
sociale con il “bisogno di cura” dei singoli pazienti. Il diritto alla salute sancito dalla
Costituzione, nonché l’uguaglianza di trattamento e il rispetto della persona umana portano
alla necessità di trasferire la gestione della sanità penitenziaria alle competenze del servizio
sanitario nazionale, passaggio che si verifica nel 2008, attraverso il DPCM del 1 aprile, nel cui
allegato C viene per la prima volta in assoluto avanzata l’idea o meglio, la necessità, di
superare il sistema manicomiale una volta per tutte, non tramite una sua riforma ma attraverso
una vero e proprio smantellamento.
Il superamento dell’ospedale psichiatrico penitenziario, infatti, sarà l’argomento trattato in
modo specifico nel terzo capitolo del nostro elaborato. Questo prende avvio con le rivelazioni
effettuate dalla Commissione Marino rispetto alle disumane condizioni cui vertono le strutture
che dovrebbero essere chiamate ospedali, ma vengono definite come immense latrine, in cui i
pazienti più che uomini paiono essere trattati come bestie, costretti a forme di contenzione
inaccettabili per una società degna di tale nome. I rilevamenti effettuati dai sopralluoghi
presso i sette ospedali psichiatrici presenti nella penisola hanno condotto ad una sola
possibilità: la chiusura immediata di tali strutture. Pertanto, nel 2012 è stata emanata la
10
prima legge per il definitivo superamento degli OPG, ancora assimilabili ai vecchi manicomi
giudiziari. Verranno esaminati i singoli passaggi che hanno consentito, nel 2015, dopo due
anni di proroghe, l’abbandono di tali istituti. La vera e propria riforma del sistema delle
misure di sicurezza avverrà solo con la promulgazione della Legge n.81 del 2014, che in
sostituzione agli OPG istituisce l’apertura di nuove strutture residenziali denominate REMS,
proprio per indicarne la finalità, ovvero l’esecuzione delle misure di sicurezza una volta chiusi
gli antichi istituti dediti a tali finalità. Tuttavia tale riforma non risulta esente da criticità
applicative, la maggiore delle quali ricondotta alla mancata modifica delle parti corrispondenti
al Codice Penale sulla disciplina di tali misure. Necessario è, infatti, riformare i principi
cardine del nostro ordinamento, inerenti le nozioni stesse di imputabilità e pericolosità sociale,
in funzione delle nuove elaborazioni in merito alla definizione delle infermità psichiche e del
rinnovato concetto di responsabilità in seno al malato mentale. Verrà pertanto analizzato il più
recente progetto di riforma del codice penale, elaborato ad opera della commissione
parlamentare presieduta dal Dott. Pelissero, in base al quale il governo, autorizzato dalla legge
delega n.107 del 2017 ha elaborato uno schema di decreto legge per le modifiche al Codice
Penale e all’ordinamento penitenziario, analizzato in questa sede nelle parti inerenti le misure
di sicurezza e la loro applicazione. Tuttavia, nel luglio del 2018 in merito all’accettazione di
tale progetto è stato espresso un parere contrario, siamo pertanto ancora in attesa di una
riforma che supporti concretamente quella avvenuta o, forse sarebbe meglio dire a questo
punto avviata, dalla legge del 2014.
Pertanto, nel quarto capitolo, in attesa di ulteriori modifiche, concentreremo la nostra
attenzione sulla misura di sicurezza ad oggi riservata al folle reo non imputabile per vizio di
mente: la REMS. Partiremo da alcuni dati indicativi per comprendere il passaggio dalla
chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari all’apertura delle nuove struttura, utilizzando
rilevamenti statistici per analizzare come le varie regioni italiane abbiano implementato le
REMS nei propri territori. Ci concentreremo sugli aspetti innovativi di tale istituto, sui nuovi
requisiti strutturali ed organizzativi che esso presenta, sulle differenze rispetto agli OPG,
analizzando punti di forza e criticità per comprendere e ricostruire la nuova posizione assunta
dal folle reo nell’ordinamento italiano che, alla luce di tutti i mancati tentativi passati,
dovrebbe trovarsi in una situazione privilegiata rispetto ai detenuti folli degli altri paesi,
essendo l’Italia la prima nazione al mondo ad aver abbandonato l’obsoleto istituto del
manicomio giudiziario, camuffato da ospedale. Infine, nella parte conclusiva, riporteremo il
resoconto di un’intervista effettuata con la Psicologa Francesca Cuccurullo, rappresentante
dell’unica REMS attualmente attiva nel territorio cosentino, situata nel comune di Santa Sofia
11
d’Epiro. Il colloquio ha permesso di approfondire aspetti interessanti inerenti questo nuovo
sistema terapeutico giudiziario ancora poco conosciuto, evidenziando punti di forza e limiti di
questa sperimentazione.
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CAPITOLO UNO
La malattia mentale nel nostro ordinamento penale:
constatazioni medico-giuridiche tra cura e pericolosità
1.1 Frustrazione securitaria della esistenza umana, quando la follia genera
insicurezza
Il sistema penale italiano è recentemente giunto ad un nuovo livello di maturazione,
introducendo nel nostro ordinamento la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici
giudiziari, sostituiti dalle nuove Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Tale
innovazione rende l’Italia il primo paese al mondo senza ospedali psichiatrici. Scopo che
questo elaborato si propone è quello di ripercorrere le tappe essenziali di tale evoluzione, per
concludere, in una seconda parte, con un’analisi prettamente focalizzata su queste nuove
strutture, prendendo la REMS di Santa Sofia d’Epiro (CS) come caso studio specifico.
Inizieremo il nostro percorso cercando di comprendere come il folle sia divenuto oggetto
d’attenzione penitenziaria nella sua qualità d’essere, oltre che malato, considerato anche
soggetto pericoloso.
Per comprendere tale fenomeno appare necessario soffermarsi un attimo a riflettere sui
meccanismi che regolano la nostra società, quelli che ci consentono di funzionare.
A fornire una delle più interessanti visioni rispetto alle caratteristiche essenziali affinché una
società possa esistere è il filosofo inglese Thomas Hobbes
1
. L’uomo, nel momento iniziale
della propria esistenza, viveva in uno stato pre-sociale caratterizzato dalla possibilità, per
ciascun individuo, di esercitare una libertà assoluta, che non incontra limitazioni neanche
dinnanzi alla libertà altrui. Tale situazione rappresenta uno stato di guerra continua:
l’insicurezza vige sovrana tra individui incapaci di proteggere e proteggersi. Nello stato pre-
sociale vige il principio bellum omnium contra omnes, «la guerra di tutti contro tutti, in cui
ogni singolo uomo diviene lupo per gli altri uomini»
2
. La decisione adottata dagli individui
per fronteggiare questa insicurezza esistenziale fu quella di cedere, ognuno,
contemporaneamente, una porzione della propria libertà ad un soggetto terzo: lo Stato. Questo
1
T. Hobbes, Leviatano, BUR Rizzoli, Milano, 2011.
2
M. Santilli, Sociologia della Devianza, Primiceri Editore, Padova, 2017, p.8.
13
esercitando la giustizia attraverso delle apposite leggi, avrebbe tutelato la porzione di libertà
rimasta a ciascuno. Il bisogno di protezione – secondo Hobbes – costituisce l’imperativo
categorico per costruire una società e, in essa, poter vivere. L’essere protetti, dunque, non è
una caratteristica appartenente alla natura umana ma un senso da essa costruito, una
dimensione che appartiene, in maniera sostanziale, agli individui di una società moderna
3
.
L’uomo appare così come una vittima di quella che potremmo chiamare frustrazione
securitaria,
4
che lo spinge verso una ricerca di sicurezza e, di conseguenza, verso incessanti
richieste di protezione. Tale bisogno non sempre nasce da una reale minaccia, quanto
piuttosto da un senso di minaccia: noi pretendiamo sicurezza psicologica
5
. Questa deriva
dalla presenza, nelle nostre vite, di alcune routine, fondate su regole certe, sulla prevedibilità
dei comportamenti umani. Di conseguenza, ciò che non rientra in questi schemi, viene
percepito come imprevedibile e quindi rischioso
6
.
Assumendo come senso del rischio una situazione, un comportamento, un’azione che possa
verificarsi e incidere negativamente, sulla quale non è possibile però esercitare previsione e
controllo, ecco che ritorna a presentarsi il tema dell’insicurezza, dunque la necessità di
difendersi, di contrastare la situazione rischiosa direttamente alla fonte. Questa
neutralizzazione, nel corso della storia, il più delle volte ha coinciso con un’opera di
allontanamento: si allontana il rischio, ci si pone al sicuro.
3
R. Castel, L’insicurezza sociale, che significa essere protetti, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2011, p.56,
versione pdf.
4
R. Castel, L’insicurezza sociale. Che cosa significa essere protetti?, Torino, Einaudi, 2011, p.6.
5
J. Kirshnamurti, Domande e Risposte, Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1983, p.15.
6
M. Douglas, Come percepiamo il pericolo: antropologia del rischio, Feltrinelli, Milano, 1991, in Percezione del
rischio della criminalità urbana, di R.Polzano, S. Ceravi, M. Borelli, Università degli studi di Trieste.
14
1.2 Da una follia indiscriminata alla connotazione specifica di malattia
Il senso di insicurezza che caratterizza l’esistenza degli individui sin dalle proprie origini,
costituisce il nostro scenario di fondo per la comprensione del destino subito dal folle-reo.
Quando la follia perde il suo alone di sacralità il destino del folle viene a coincidere con
quello del criminale diventando, come molti altri, semplicemente un marginale. Considerati
pericolosi, attentatori degli equilibri sociali, folli e criminali vennero reclusi e abbandonati.
Tale trattamento rappresenta la risposta adottata dalla società per fronteggiare la loro
pericolosità, desunta dalla mancata capacità di controllarne i comportamenti nonché
dall’impossibilità di una concreta guarigione. Solo quando i folli saranno considerati tali a
causa di una malattia, diventeranno soggetti detentori di diritti ma, al contempo, oggetto di
studio il che, associato alla idea permanente della loro pericolosità, li colloca ancora in un
regime detentivo.
Un breve accenno sulle forme assunte dalla follia nel corso della storia ci mostra come queste
siano state influenzate dalla cultura e dalle convenzioni del periodo, le quali intaccano di
conseguenza anche il trattamento che la società riservò agli individui considerati folli.
Il termine follia deriva dal latino follis, ovvero vuoto, mantice. Indica genericamente una
condizione psichica caratterizzata dal mancato adattamento del soggetto rispetto alla società,
manifestato attraverso comportamenti, relazioni interpersonali e stati psichici alterati, spesso
fonte di sofferenza per il soggetto.
Per molti anni l’origine della follia venne fatta risalire a cause esterne scatenanti, non
riconducibili al soggetto stesso.
Nelle prime concezioni animistiche e per tutto il mondo classico, la follia venne ricondotta
alle divinità, benevoli o maligne, in grado di influenzare il comportamento degli esseri
umani
7
. Il folle era portatore di un messaggio divino, andava quindi ascoltato, interpretato
8
.
In epoca medievale questo sentimento comprensivo scomparve e il folle divenne una creatura
del demonio per istigazione stessa del diavolo all’essere frenetico e pazzo
9
. Assumendo la
follia una chiara connotazione maligna, essendo questa radicatasi nell’animo dell’individuo,
andava allora estirpata. L’esorcismo del male chiamato follia prevedeva spesso
l’annientamento del corpo, giustificato dal più elevato fine di salvaguardare l’anima. Tale
liberazione, affidata ai monaci e agli ordini religiosi che accoglievano i sofferenti nelle loro
mura, può forse essere considerata la prima forma di esclusione cui la follia fu sottoposta, che
7
G. Ziboorg, G. Henry, Storia della psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1963, p.22.
8
V. Andreoli, Istruzioni per essere normali, Rizzoli, Milano, 1999 pp. 11-18.
9 Mental Heart History Timeline, in www.studymore.org.uk.
15
assunse in seguito i connotati propri di un internamento. Questa impostazione segregante –
eccezion fatta per una breve parentesi rinascimentale in cui alcuni personaggi dell’epoca
provarono a diffondere l’idea di un folle rispettato, lasciato libero – si protrasse fino al
Settecento, quando è possibile incontrare i folli ancora detenuti nelle carceri per mancanza di
strutture sanitarie specifiche. A fronte di questa esigenza in Francia, Germania e Inghilterra
nascono i primi istituti specializzati, che costituirono il presupposto di fondo del nuovo
secolo, un Ottocento in cui la follia da naturale aberrazione diviene oggetto d’attenzione per la
comunità scientifica. I primissimi studi a riguardo abbracciano la visione della Scuola
Positivista, la quale ritiene il folle assimilabile ad una macchina rotta, cioè lesionata nel
cervello
10
. La follia, identificata ora come malattia, quindi distinta scientificamente da
qualsiasi altra devianza, diviene competenza della psichiatria. È qui che assistiamo al
superamento dell’internamento indiscriminato per giungere all’istituzione di una speciale
struttura destinata alla cura della sola follia: il manicomio. Notiamo come la percezione della
follia sia gradualmente mutata rispetto alla sua connotazione marginale. Inizialmente
l’incomprensibile folle venne inserito in un contesto trattamentale indiscriminato rispetto a
quello delle altre devianze, escludendo ogni sua peculiarità. Questa emerge quando,
successivamente all’affermazione scientifica di follia come malattia, la sua competenza viene
affidata alla psichiatria, scienza volta allo studio delle infermità mentali. Tali studi, tuttavia,
focalizzano la loro attenzione su un particolare aspetto della malattia, ovvero la connotazione
di pericolosità che la caratterizza. Dinnanzi alla figura di un pericoloso matto, accanto
all’esigenza di tutela per l’individuo disadattato al contesto sociale, si fa largo la necessità di
difendere la società da quei comportamenti incomprensibili e, per supposto, pericolosi che
l’individuo folle mette in atto.
10
V. Andreoli, Istruzioni per essere normali, Rizzoli, Milano, 1999 , pp. 11-18 .
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