INTRODUZIONE
Il percorso come studentessa in Scienze della Formazione nelle Organizzazioni
mi ha permesso di indagare i processi di apprendimento legati alle forme di
partecipazione, motivata dalle esperienze vissute durante i due anni di svolgimento
del tirocinio con Ater seguendo il processo di riqualificazione energetica del borgo.
Il mio interesse nasce durante una passeggiata di quartiere, orientata dalle
tecniche etnografiche che è stata proposta durante il corso di filosofia della
formazione in quel periodo. Iniziai a considerare la possibilità dei processi di
apprendimento come proprietà presente nell’interazione tra istituzione e abitanti, in
cui sono disponibili forme di mediazione capaci di rendere possibile la
partecipazione attiva degli attori coinvolti. La riflessione che ne derivò fu la
consapevolezza delle pratiche partecipative come il fondamentale strumento per la
ricostruzione non solo del territorio ma anche dei processi sociali e di una visione
politica coerente.
La complessità di coinvolgere gli abitanti rimane un ostacolo che grazie alle
pratiche di mediazione sociale possono essere superate, in quanto mettono in
connessione due istanze opposte, quelle di abitanti e quelle delle istituzioni, che si
pongono attraverso due linguaggi differenti, storicamente lontane e sfiduciate le
une verso le altre.
La forte espansione urbanistica, l’emarginazione delle classi svantaggiate,
l’insostenibilità ecologica ed economica dei modelli insediativi sono monito di un
doveroso ripensamento sullo sviluppo del territorio in quanto sviluppo di
apprendimento collettivo. L’attenzione da rivolgere non è più soltanto alla
dimensione fisica della riqualificazione bensì alla prospettiva socio-economica e
ad un adeguato coinvolgimento del pubblico nel rinnovo del territorio, una
possibilità che fino a quel momento non avevo preso in considerazione.
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I dati raccolti qui presentati emergono dalle osservazioni etnografiche e dalle
interviste non strutturate rivolte agli attori coinvolti nel piano di riqualificazione
del quartiere, nonché abitanti e mediatori sociali.
La presente ricerca qualitativa fa riferimento alla letteratura preesistente
affinché possa trovare un riscontro scientifico.
Il primo capitolo propone una visione generale dell’abitare attraverso la voce di
diversi autori in letteratura: il significato etimologico dell’abitare, dunque l’origine
e la storia del termine abitare, e del suo senso figurativo come detto di sentimenti,
che si connette alle relazioni sociali e all’appartenenza al territorio. Risponde
all’avere il luogo in cui si abita, l’abitante “ha” la casa in cui abita, il cittadino “ha”
la città di cui è abitante., ogni abitante del nostro pianeta “ha” il mondo.
Come Heidegger ricorda, “abitare è costruire”. L’essere al mondo come abitante
significa quindi costruire un mondo. La costruzione di un mondo è sempre,
tuttavia, ricostruzione del mondo già dato, che ci circonda e ci attraversa. E’
l’ambiente naturale. L’abitare non è la mera allocazione in un luogo, non è lo
stabilirsi senza consapevolezza, senza cognizione, senza che non vi sia un vero
trasporto emozionale, ed una rete di relazioni sociali.
Il capitolo prosegue con l’excursus sull’edilizia popolare in Italia, toccando
alcuni punti fermi delle svolte legislative passate e degli interventi di edilizia
popolare.
Un altro paragrafo è dedicato ai Contratti di Quartiere, assolutamente innovativi
e progettati per ridare dignità a molti di quei quartieri italiani che per anni hanno
sofferto del degrado sociale e dello stato di abbandono da parte delle istituzioni.
Il secondo capitolo mostra la storia del Borgo. Qui si affrontano le tematiche del
disagio e dell’emarginazione sociale. Si discute la costruzione del quartiere come
ghetto. Una delle cause è da imputare alla vera e propria volontà razionale da parte
delle istituzioni e delle società del tempo di relegare certe aree della città,
delimitate e lontane del centro, per destinarle a quella fetta di popolo costituita da
reietti, diseredati e disoccupati, affinché non si mescolassero con il resto dei
cittadini.
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I CdQ in questo senso sono stati una rivoluzione: essi hanno apportato
rigenerazione urbana e modifiche non solo in ambito edilizio ma soprattutto nella
mentalità delle politiche sociali e in quelle di chi l’edilizia popolare la progetta;
ponendo attenzione alle esigenze degli abitanti e alla loro partecipazione nelle
pratiche di riqualificazione.
Il terzo capitolo approfondisce il concetto di progettazione partecipata, il
processo per il quale i destinatari prendono parte e sono parte di un organismo. Si
tratta di una prospettiva metodologica che prevede la collaborazione degli attori
coinvolti nell’ideazione e realizzazione di un progetto all’interno di una comunità,
con l’obiettivo di far emergere ai partecipanti il senso di appartenenza al territorio
e al gruppo.
L’origine di questo tipo di progettazione deriva dalla teoria della ricerca
partecipata di Lewin (1946), il quale trova la ricerca come una forma di
conoscenza e di trasformazione della realtà, affinché l’oggetto di studio diventi
attivo e partecipante.
Nell’elaborato si evidenziano i criteri necessari affinché la progettazione
partecipata sia efficace ed evidenziando anche i rischi possibili.
L’aspetto poi della mediazione sociale, come strumento per la partecipazione
attiva, viene dimostrata dal caso di Studio Guglielma per la riqualificazione di
Borgo Nuovo.
Il quarto capitolo si concentra sul complesso abitativo denominato la Nave,
rimasto per quarant’anni fatiscente e ad oggi rinnovato grazie alla riqualificazione
energetica, ancora in corso.
Il quinto capitolo raccoglie le voci di chi il quartiere lo vive tutti i giorni, di
quelli che alla Nave hanno cresciuto i loro figli e pure i nipoti. Una estemporanea
sui lavori di riqualificazione, le aspettative, le criticità e i bisogni dei residenti.
Attraverso i dati emersi verrà proposta una riflessione che pone l’attenzione
sulle varie complessità del quartiere, l’evoluzione storica, vecchie e nuove paure
degli abitanti e il senso di fiducia/sfiducia nelle istituzioni.
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Le metodologie utilizzate ai fini di questo elaborato sono state l’intervista non
strutturata come metodologia di ricerca qualitativa, rivolta agli abitanti della Nave
e del quartiere, per la quale si è realizzato il paragrafo le interviste; un altro
strumento qualitativo usato è l’osservazione partecipante, dalla quale sono emersi i
dati raccolti nella sezione osservazione etnografica: una passeggiata nel quartiere
e il diario di una tirocinante.
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1.
ABITARE IL QUARTIERE
Mente locale per abitare
Il termine abitare deriva dal latino habitare, frequentativo di habere (avere) che
significa soler abitare, aver consuetudine in un luogo, abitarvi. Dall’etimologia
habeo, che contiene il concetto del possesso, si evince l’esigenza dell’interazione
con il territorio, e non la mera allocazione. Significa “appropriarsene attraverso le
pratiche sociali ”. Si traduce altresì in indossare abiti, ovvero assumere le abitudini
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e la cultura del luogo di appartenenza, “indossando” il proprio ambiente,
sentendosi parte integrante del gruppo sociale di appartenenza.
A questo proposito ritengo doveroso fare un riferimento alla teoria dell’identità
sociale di Henry Tajfel, dove si evidenzia la tendenza naturale degli individui a
percepirsi come membri di un gruppo sociale, unito al significato valutativo ed
emotivo che tale appartenenza suscita.
Abitare è dunque la percezione relativa alla qualità delle relazioni vissute
all’interno del contesto stesso. L’attaccamento al territorio non è un fattore
assoluto dell’identità socioculturale di un gruppo e lo spazio fisico non assume i
caratteri del territorio se non investito da un complesso di rapporti sociali, di riti, di
credenze, di valori; dunque il senso della territorialità non può essere separato
dalle istituzioni quali la famiglia, la comunità, il quartiere che necessariamente
esprimono l’ambiente geografico. Scrive Gardini: “L’abitare è un’attività sociale,
forse la principale condizione che genera appartenenza, senso del luogo (…).
Abitare significa orientarsi, riconoscersi, sapere chi si è e da dove si viene, essere
consci di condividere con altri la presenza nei luoghi (…). Anche il nomade, la cui
Gardini E., Ombre nella prossimità. Studi sociali sulle pratiche di vicinato, Franco Angeli,
1
Milano 2012, p. 39.
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identità di insediamento colonizza i luoghi disabitati, mette radici in ogni dove
cambiando di volta in volta esperienza ”.
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Come osserva Adriano Paolella , essenziale è il mantenimento del luogo
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usufruendone le potenzialità senza che queste vengano distrutte. Ciò non dipende
dalla capacità (e sensibilità, aggiungerei) dell’uomo ma da fattori esterni quali
l’abbondanza di tecnologie che oggigiorno risultano eccedenti rispetto alle
esigenze e l’industrializzazione che tende ad uniformare i prodotti di
sovradimensionate capacità tecniche, così da risultare sempre adeguate alla loro
destinazione d’uso. Prosegue: “Il benessere è ottenuto non con la specifica risposta
dell’abitazione alle specifiche necessità dell’abitante, ma attraverso l’impegno di
una quantità di energia e di risorse tanto significativa da recuperare le
approssimazioni e gli errori. Nel fare questo, nel non relazionarsi al contesto, si
perpetua un enorme e insostenibile spreco di risorse”.
Nella sua riflessione emerge il concetto di disordine, ovvero quella modalità
complessa e naturale che l’uomo adotta nel costruirsi il suo habitat, adattandolo a
sé stesso e adattandosi ad esso affinché il suo abitare corrisponda all’idea di
benessere. Tratta di un disordine come trasformazione operata dall’abitante che
non può essere precostituita né imposta dall’alto. Sarebbe, a detta di Paolella,
come passare “dalla ricchezza del bosco, dalla sua complessità, alla semplicità del
giardino urbano” .
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Abitare è ambientarsi. Non né la semplice territorialità ma è l’identificarsi con il
luogo anche in un processo di sopravvivenza sociale e culturale, oltre che fisica; è
la presa di possesso dell’ambiente circostante in un continuo allargamento e
adattamento dell’individuo al gruppo e al luogo, andando oltre i confini del noto,
acquisendo conoscenze che permettono l’accesso ad una “mente locale” , quella
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costruzione culturale che porta ad un adattamento profondo, al rendersi conto del
Ibidem, p. 39-40.
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A. Paolella è docente di Tecnologia dell’Architettura presso l’Università Mediterranea di Reggio
3
Calabria, esperto in progettazione ambientale.
A. Paolella, Progettare per abitare. Dalla percezione delle richieste alle soluzioni tecnologiche,
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Elèuthera, Milano 2003, p. 58.
F. La Cecla, Mente locale, Elèuthera, Milano 2011.
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mondo, non solo a percepirlo. L’individuo interiorizza il luogo, e il luogo si
sedimenta nell’individuo.
Come sostiene La Cecla, la mente locale non è semplicemente il sentirsi a casa
ma la capacità di trasformare lo stare al mondo in una messa in campo,
nell’alloggiare sotto le tende, profondamente, in un “accampamento innamorato ”.
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Le fasi dell’abitare e la crisi dell’edilizia popolare
Attraverso il progetto di rigenerazione energetica realizzata presso uno degli
edifici popolari del quartiere Borgo Nuovo, ho potuto concretizzare ciò che fino a
quel momento era solo un concetto, un’astrazione, quello dell’abitare.
Lo studio di caso è stato realizzato mediante l’osservazione etnografica che mi
ha permesso di partecipare alle pratiche sociali, in una posizione neutra tra
istituzioni e abitanti, portando sul campo le mie conoscenze che si sono sviluppate
in funzione di una progettazione che permettesse agli inquilini di partecipare alle
decisioni del rinnovo. Ho potuto dunque far emergere i significati che questi
abitanti danno al concetto abitare, confrontandoli attraverso la mia personale
esperienza e le mie competenze. Ho realizzato l’esistenza di una moltitudine di
significati e di valori, per i quali ritengo ci sia un’urgenza nel sensibilizzare tutto
quel sistema politico che governa l’urbanizzazione, affinché si possa, in una
definizione compatta, raccogliere tutti quei significati.
Le politiche abitative in Italia per anni sono state marginali, nonostante
l’aumento del fabbisogno residenziale delle classi meno abbienti: il primo
ordinamento normativo che regolamentava l’intervento dello Stato riguardo
l’edilizia popolare fu la legge Luttazzi n. 251/1903 con l’obiettivo di facilitare la
costruzione di alloggi popolari attraverso l’istituzione di enti intermedi, finanziati
grazie alle casse di risparmio e le società di mutuo soccorso. Si istituirono così gli
Ibidiem.
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