5
roots democracy” e di “democrazia capillare”. Infine, l’esame dei suoi
tre programmi principali (controllo delle acque, incremento della
produzione agricola e produzione ed erogazione di energia elettrica)
dimostrerà come l’ente sia riuscito a risanare e a ridare vita a una
vasta regione (il bacino del fiume Tennessee, appunto, comprendente
ben sette stati) fortemente depressa ancora prima delle recessione
economica dei primi anni Trenta.
Proprio perché argomento poco conosciuto nel nostro paese, il
materiale bibliografico è stato raccolto prevalentemente negli Stati
Uniti, e più precisamente alla New York Public Library, nella Library
of Congress di Washington e nella Hodges Library dell’Università di
Knoxville, Tennessee.
Si sono usate molte fonti di prima mano, sia ufficiali sia private,
che risalgono al periodo di prima sperimentazione della T.V.A.; il che
quindi ha permesso la presa diretta delle varie fasi di istituzione e di
applicazione del programma. Molto utili sono state poi la visione e la
lettura del materiale originale dell’epoca avvenute presso la Library of
Congress di Washington (mi riferisco soprattutto alle varie leggi del
Congresso, agli Hearings, all’atto costitutivo dell’ente, nonché le
sentenze della Corte Suprema).
6
Ringraziamenti
Ringrazio tutto il personale delle seguenti biblioteche per la
preziosa collaborazione e per il valido aiuto datomi durante le varie
fasi di ricerca, di raccolta e di consultazione del materiale: Biblioteca
Panizzi di Reggio Emilia, New York Public Library di New York,
Library of Congress di Washington D.C., Hodges Library di
Knoxville, Tennessee, Franklin Delano Roosevelt Library di Hyde
Park, New York, Biblioteca della Fondazione Luigi Einaudi di Torino.
In modo particolare, desidero ringraziare: la Sig.ra Ivana Grossi
e il Sig. Antonio Chiarenza della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia;
il Sig. Edmund Koeppel della New York Public Library di New York;
il Sig. David Kelly della Library of Congress di Washington D.C.; e il
Sig. Jan McPeek della Aaron’s Free International Booksearch &
Bookworm’s Buffet di Columbiana, Ohio, che mi ha seguito nella
ricerca bibliografica iniziale.
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CAPITOLO 1
GLI ANNI DELLA CRISI
1. LO SCENARIO
Negli ultimi trenta anni del XIX secolo gli Stati Uniti
assisterono alla loro rivoluzione industriale che li fece gradualmente
trasformare in una moderna società industriale. Fu una rivoluzione
decisamente rapida (solo quarant’anni) se paragonata, ad esempio, con
il paese della Rivoluzione Industriale per eccellenza, la Gran
Bretagna; qui, infatti, il processo verso l’industrializzazione durò circa
un secolo. Ne risultò un cambiamento nella leadership economica
mondiale: gli Stati Uniti diventarono la prima nazione industrializzata
del mondo, prendendo il posto che fino ad allora era stato proprio
della Gran Bretagna. Infatti, alla fine del secolo gli americani
producevano circa il 30% dei manufatti industriali fabbricati in tutto il
mondo. Simbolo del nuovo paese industrializzato fu la città di
Pittsburgh, Pennsylvania, con gli altiforni, le ciminiere, l’aria densa di
fumo, le acciaierie e i suoi cittadini, tutti immigrati provenienti da
ogni parte del mondo.
Sia la struttura economica sia quella sociale del paese subirono
profondi cambiamenti. Iniziò l’era delle macchine, dell’elettricità,
dell’acciaio, del telefono, dei grandi gruppi industriali e dei monopoli.
8
Ma iniziò anche l’era degli squilibri e dell’instabilità, dovuti
all’impatto che una così rapida rivoluzione ebbe sull’aspetto
economico e sociale: tra i problemi più gravi si collocano l’ingiusta e
sbilanciata distribuzione della ricchezza, la concorrenza spietata, i
conflitti sociali e quelli nel mondo del lavoro.
Lo sviluppo industriale fu favorito dalla guerra di secessione del
1860. Il bisogno di soddisfare le esigenze belliche avviò l’incremento
della produzione, incoraggiò l’uso di nuove tecnologie, pose nuovi
problemi di riorganizzazione e di economia di scala e offrì nuove
opportunità agli imprenditori attraverso un sistema bancario e
creditizio più efficiente. Importante per l’industrializzazione fu la
grande disponibilità di materie prime (ferro, petrolio, carbone, rame e
manganese) di cui il suolo statunitense era ricco: tale fattore rese
quindi l’intero continente autosufficiente in molti settori. A ciò si
univa anche la grande disponibilità di manodopera (anche
specializzata) a basso costo, composta prevalentemente da immigrati.
Tipica dell’organizzazione economica dopo la guerra di
secessione fu la tendenza alla fusione di aziende concorrenti. Gli scopi
di tale strategia erano molteplici: limitazione del ribasso dei prezzi
causato dalla concorrenza, riduzione dei costi di produzione e di
gestione, miglioramento della specializzazione nei vari settori e
facilitazione all’accumulo dei capitali. Le ferrovie, i servizi di
pubblico interesse e la metallurgia furono i settori più coinvolti nella
tendenza e furono quindi dominati da ristretti gruppi di gigantesche
compagnie. Al contrario, l’industria tessile e l’abbigliamento non
9
conobbero tale fenomeno, rimanendo articolate in piccole e medie
imprese.
Ben presto si svilupparono nuove forme di concentrazione
economica ed industriale. La prima fu il pool: si trattava di un accordo
informale per limitare la produzione o per suddividersi i mercati.
Proprio perché non si basava su atti legalmente inoppugnabili questo
fenomeno ebbe vita breve, scomparendo subito dopo il 1880.
Diverso è invece il discorso per quanto riguarda una seconda
forma di concentrazione: il trust. Era un’intesa che comportava
l’integrazione di diverse imprese sotto un’unica direzione. Questo
fenomeno rimase a lungo presente nella storia economica degli Stati
Uniti, a tal punto da diventarne sia un tratto caratteristico, sia uno dei
problemi con cui dovettero confrontarsi tutti i presidenti del nuovo
secolo.
Sono entrati nella storia. Andrew Carnegie il “signore
dell’acciaio”; John D. Rockefeller, “signore del petrolio”; John P.
Morgan, il “re delle banche”.
Già verso la fine del 1880 l’opinione pubblica americana
cominciò a dimostrarsi scettica nei confronti dei trust, grazie
soprattutto all’azione di un ristretto gruppo di giornalisti scandalistici,
i cosiddetti “muckrakers”
1
(lett. “rastrellatori di letame”), così definiti
da Theodore Roosevelt nel 1906 in tono spregiativo. Gli americani
1
La definizione è tratta dal “Viaggio del pellegrino” di John Bunyan, il cui protagonista, l’“uomo
con il rastrello di letame”, appunto, era talmente fissato sulle cose terrene da non vedere la corona
celeste che gli pendeva sul capo.
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temevano infatti che questa concentrazione di poteri nelle mani di
pochi potesse minacciare le istituzioni democratiche del paese e che la
limitazione della concorrenza significasse anche la fine delle
possibilità di migliorare la propria condizione economica e sociale. In
più si erano perfettamente resi conto delle conseguenze di tanta
concentrazione di potere: corruzione politica, ricchezza mal
distribuita, divisioni sociali sempre più nette e aspri conflitti
industriali.
2
Il governo, da parte sua, teso a soddisfare le esigenze del
mondo degli affari e a proteggere gli interessi delle grandi industrie,
non forniva alcuna garanzia, contribuendo anzi ad alimentare ancor di
più un clima di diffusa incertezza. Non a caso, i primi provvedimenti
per l’eliminazione dei trust ebbero carattere locale e non federale. Si
rivelarono, quindi, inefficaci e facilmente aggirabili: era sufficiente
cambiare il nome o trasferire la sede legale della compagnia per non
incorrere in esse.
Solo nel 1890 venne approvato lo Sherman Antitrust Act che
dichiarava illegale ogni forma di monopolio.
3
Ma la legge rimase quasi completamente inefficace. La sua
formulazione, infatti, si rivelò essere molto vaga: non c’erano
definizioni precise dei termini “trust, cospirazione, monopolio
ostacolo al commercio”. Queste imprecisioni resero possibile ai
tribunali e soprattutto alla Corte Suprema, dominati entrambi in quegli
2
L. Huberman, Storia popolare degli Stati Uniti, Einaudi, Torino, 1977, pp.249-250.
3
S.E. Morison, H.S. Commanger, Storia degli Stati Uniti d’America, tr. It., La Nuova Italia,
Firenze, 1961, vol. II, pag. 196.
11
anni principalmente dai sostenitori della libera iniziativa privata, di
svilire la sostanza del provvedimento.
La situazione però cambiò decisamente durante le presidenze di
Theodore Roosevelt, di William Howard Taft e di Thomas Woodrow
Wilson. Il governo di Roosevelt prima e quelli di Taft e di Wilson
poi, portarono in tribunale i grandi colossi della finanza. Roosevelt fu
il primo presidente ad essere definito dalla stampa, per questa sua
opera, con il soprannome di “trust buster”(distruttore di trust). Ma
Roosevelt non voleva propriamente eliminare il monopolio, quanto
solo regolamentarlo. Egli era infatti convinto, come i suoi successori,
che le associazioni di capitali e di poteri economici fossero un
processo naturale dello sviluppo industriale; tali concentrazioni, però,
diventavano negative e pericolose se perseguivano solo un “benessere
individuale”, ristretto cioè solo a pochi gruppi di persone e noncuranti
quindi delle necessità della massa.
Il presidente Wilson intervenne anche in materia monetaria e
bancaria. Due erano i problemi fondamentali: ogni banca operava
autonomamente e non c’era alcun organismo preposto al controllo
delle loro attività; in più le banche nazionali emettevano banconote in
misura superiore alla quantità di titoli di stato in loro possesso. Wilson
varò il Federal Reserve Act del 1913; con esso il paese veniva diviso
in dodici distretti, ognuno dei quali aveva una Federal Reserve Bank
che svolgeva la funzione di agente fiscale per le banche della zona. In
più tutte le operazioni venivano a loro volta controllate da un Federal
Reserve Board formato dal ministro del tesoro, dal controllore della
12
circolazione monetaria e da cinque membri eletti dal presidente. Ogni
banca doveva versare il 6% del capitale in un fondo comune della
Federal Bank che serviva poi, in caso di crisi, per aiutare gli istituti in
difficoltà. Il Board operava aggiustamenti sui tassi di interesse per
combattere l’inflazione o per stimolare gli affari. Il problema
fondamentale del sistema così creato era che l’obbligo di iscrizione al
Board era ristretto alle sole banche nazionali; quelle statali e locali,
invece, continuarono ad operare liberamente.
La rivoluzione industriale fece sicuramente arricchire i più
ricchi, ma servì anche a migliorare le condizioni di vita degli operai.
Però non tutti, all’interno della classe lavoratrice, si avvantaggiarono
allo stesso modo: i lavoratori specializzati ebbero aumenti di salario
più consistenti di quelli generici, i membri del sindacato ebbero, in
alcuni casi, più vantaggi dei non iscritti; al Nord si guadagnava di più
che al Sud. Un rapporto della Commissione Federale per le relazioni
industriali del 1915, affermava che da un terzo alla metà di tutte le
famiglie dei salariati degli Stati Uniti vivevano al di sotto del limite di
povertà.
La rapida industrializzazione non vide un’altrettanto rapida
formazione di organizzazioni sindacali in grado di contrastare il potere
degli imprenditori. La ragione fondamentale di questo lento sviluppo
va ricercata nella manodopera composta, come abbiamo già detto,
prevalentemente da immigrati provenienti da diverse parti del mondo,
divisi tra loro da differenze di religione, cultura e soprattutto lingua.
13
Ma ancora più rilevante è il fatto che la manodopera bianca, sia
americana che immigrata, rifiutava una qualsiasi forma di
associazione con dei lavoratori di colore. I datori di lavoro seppero
molto spesso sfruttare a loro vantaggio le differenze che dividevano i
vari gruppi e fecero ricorso a spie, ricatti e anche alle armi per
contrastare la formazione di una qualsiasi organizzazione sindacale.
Il sindacato con più iscritti era l’American Federation of Labor
(AFL), fondata nel 1881 dai rappresentanti di alcuni sindacati operai e
riorganizzata nel 1886. L’AFL era una federazione di sindacati
nazionali, ognuno dei quali conservava una propria autonomia; in base
a ciò essa rifiutava l’idea di un unico grande sindacato a direzione
centralizzata. Il suo obiettivo era quello di trovare un accordo
sull’aumento dei salari, sull’orario di lavoro e sulle condizioni di
lavoro.
L’arma più forte su cui gli industriali potevano contare nella
loro lotta al sindacato, era costituita dall’appoggio che veniva loro dai
tribunali. Il punto massimo di ostilità venne raggiunto nel 1905 per il
caso Lochner. La Corte Suprema decise che una legge che fissava in
dieci ore la durata della giornata lavorativa era da ritenersi priva di
fondamento e quindi ingiustificata, perché ledeva il diritto che ogni
lavoratore aveva di contrattare le proprie ore di lavoro.
4
4
M.A. Jones, Storia degli Stati Uniti, Bompiani, Milano, 1984, p.284.
14
Ironia della sorte, lo Sherman Act venne usato più
frequentemente contro i sindacati che non per lo scopo per cui era
stato adottato. Le azioni di sciopero e di boicottaggio, infatti, venivano
considerate dai giudici come “ostacoli al commercio” e quindi punibili
come violazioni allo Sherman Act. Insomma, tale disposizione veniva
presa come appoggio giuridico per preparare ingiunzioni contro una
qualsiasi forma di protesta sindacale.
Il prestigio del sindacato, oltre che dai tribunali, veniva messo a
dura prova anche dal terrorismo radicale. Gli attentati dinamitardi si
succedevano per tutto il paese e fecero sempre di più perdere la
fiducia che l’opinione pubblica aveva nell’organizzazione.
Theodore Roosevelt fu sicuramente il presidente che ascoltò
maggiormente le richieste dei lavoratori, rispetto ai suoi predecessori,
arrivando anche a fare da mediatore tra le parti (è il caso dello
sciopero dei lavoratori delle miniere di antracite del 1902). Ma si
oppose sempre all’assunzione esclusiva degli iscritti al sindacato, al
boicottaggio e all’uso della forza da parte degli scioperanti. Il suo
intervento in materia stava a significare che gli interessi del paese
erano importanti esattamente quanto quelli dei due contendenti; per
dimostrare ciò, non esitò a far intervenire l’esercito in Arizona,
Colorado e Nevada per porre fine a scioperi in corso.
Anche Wilson intervenne a favore dei lavoratori. Il già citato
Clayton Act conteneva anche disposizioni in materia sindacale. Questa
legge sosteneva che il lavoro di un essere umano non doveva essere
15
considerato come avente lo stesso valore di una merce; che le norme
antitrust non dovevano essere interpretate come una proibizione dei
sindacati; che se perseguivano scopi legali le organizzazioni operaie
non dovevano essere considerate cospirazioni illegali che
ostacolavano il commercio; e che i tribunali chiamati a decidere in una
vertenza di lavoro, dovevano emettere ingiunzioni solo quando fosse
realmente necessario per prevenire danni irreparabili alla proprietà.
Purtroppo, però, i tribunali continuarono nella loro opera di ostacolare
il sindacato e privilegiare la proprietà e molte società continuarono a
porre come condizione all’assunzione di operai l’impegno da parte di
questi di non iscriversi ai sindacati.
2. IL NUOVO SUD
Dopo la fine della guerra di secessione alcuni sudisti (i
cosiddetti “Borboni”)
5
pensarono che la ricostruzione economica della
loro regione dovesse basarsi in parte anche sull’industrializzazione. Il
“vecchio Sud”, secondo loro era troppo attaccato alla schiavitù e
all’agricoltura; ora bisognava rivolgersi anche al capitalismo, al Nord
e allo sviluppo industriale. Tale spirito venne ben descritto dal
direttore dell’Atlanta Constitution, Henry W. Grady in un suo articolo:
5
Sono stati così definiti dai loro avversari politici. A differenza dei sovrani francesi tornati sul
trono dopo la caduta di Napoleone, questi esponenti democratici non volevano restaurare la società
e i valori prebellici.
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“Nel Vecchio Sud tutto dipendeva dalla schiavitù e dall’agricoltura, e si era incuranti del
fatto che queste non potevano creare né mantenere uno sviluppo sano. Il Nuovo Sud presenta una
democrazia perfetta... un sistema sociale compatto e serrato, meno splendido in superficie ma più
forte in sostanza (cento fattorie per piantagione, cinquanta case per ogni palazzo), e un’industria
diversificata che soddisfa le complesse esigenze di quest’epoca completa”.
6
In economia, questi fautori dello sviluppo industriale sudista
avevano idee molto simili a quelle dei capitalisti del Nord, essendo
loro stessi i rappresentanti di una borghesia agiata di commercianti e
di industriali. Adottarono, quindi, una politica liberista, di laissez-
faire, garantendo esenzioni fiscali e privilegi a imprese finanziarie e
capitani d’industria.
La produzione di alcuni prodotti agricoli (tabacco e cotone),
come anche le industrie ad essi collegate (quella tessile in particolar
modo), conobbero un notevole sviluppo. Il progresso industriale del
Sud fu comunque solo apparente, come pure la presunta competitività
con il Nord. Il processo procedeva lento e senza dare grandi profitti;
anche nei settori più sviluppati (il tessile ad esempio) il Sud produceva
generalmente dei prodotti semi-lavorati che venivano poi inviati al
Nord per le ulteriori fasi di lavorazione. I motivi dell’arretratezza della
regione erano dovuti principalmente alla mancanza di capitali propri e
allo stretto controllo sui prezzi e sugli investimenti praticato dagli
affaristi del Nord per scoraggiare la concorrenza. Il Sud rimase quindi
sempre dipendente e tributario del Nord, arretrato rispetto al livello di
ricchezza e al tenore di vita del resto del paese. Nel 1900 con un
6
G.B. Tindall, D.E. Shi, La grande storia dell’America. Dalla guerra di secessione ai giorni
nostri, Mondadori, Milano, 1992, vol. II, p. 450.
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reddito medio nazionale pro capite di 1165 dollari, la media del Sud
era di 509 dollari.
Il Sud rimase, quindi, sostanzialmente un paese agricolo; forse
un ruolo importante nel fallimento del progetto industriale fu giocato
dalla mentalità delle persone da sempre abituate più a fronteggiare i
problemi della terra che non quelli di una macchina.
Anche in campo agricolo ci furono degli importanti
cambiamenti; la guerra di secessione aveva trasformato
profondamente il mondo rurale.
La più grande innovazione portata dal conflitto fu la scomparsa
delle piantagioni ed il loro frazionamento in piccole fattorie. Infatti,
molti proprietari non erano più in grado di conservare le loro terre
perché pesantemente ipotecate e gravate da tasse; il loro possesso era
così passato ad affaristi delle città del Nord, a banche o a società
finanziarie.
La rivoluzione fu segnata dal passaggio da un’economia
casalinga e da una produzione di sostentamento a un’agricoltura
meccanizzata e a una produzione di tipo commerciale; scomparve la
concezione della fattoria come un’unità economica chiusa, nella quale
si produceva in funzione di quello che si riusciva a consumare.
Nacque, invece, l’idea della fattoria come un ingranaggio del sistema
industriale, che doveva quindi fornire un prodotto di base e doveva
essere funzionale (collegata cioè con banche, ferrovie o altri mezzi di
trasporto).
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Il grande sviluppo agricolo fu dovuto a tre fattori principali:
l’espansione della superficie coltivata; l’applicazione della meccanica
e della biologia ai processi agricoli; l’uso dei moderni mezzi di
trasporto (ferrovie e piroscafi transoceanici) per portare i prodotti ai
mercati interni prima e a quelli mondiali poi.
Tipiche della struttura agricola sudista post-guerra di secessione
furono tre pratiche di possesso dei terreni: la mezzadria, l’affitto in
compartecipazione e l’ipoteca sui raccolti. Nella mezzadria chi
lavorava la terra lo faceva per conto del proprietario e da lui riceveva
in cambio la casa, un mulo, gli attrezzi agricoli, le sementi e una parte
del raccolto (generalmente la metà). Nell’affitto in compartecipazione,
invece, il contadino doveva provvedere da solo all’alloggio e a tutto il
necessario per coltivare la terra, versando poi al proprietario un
canone di locazione in natura (da un terzo a un quarto del raccolto).
Entrambi i sistemi erano però avvilenti, umilianti e soprattutto
improduttivi, perché non davano né ai mezzadri né agli affittuari degli
incentivi per curare la fattoria, assoggettandoli solo al controllo
opprimente del proprietario.
Anche il sistema delle ipoteche sui raccolti (lien system) ebbe
conseguenze negative. Si basava su un accordo tra negozianti locali e
contadini, secondo cui i primi fornivano ai secondi crediti e provviste
ricevendo in ipoteca una quota del futuro raccolto. Tale sistema però
finiva per imporre la monocoltura perché il negoziante di solito voleva
disporre di un prodotto facilmente vendibile, come il cotone.