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3. Il welfare aziendale in Italia
3.1. Un quadro estremamente frammentato
Uno dei vari rami del secondo welfare che negli ultimi anni è cresciuto sempre più, è quello
relativo al welfare aziendale. Nonostante l’assenza di analisi sistematiche su base nazionale
(Santoni, 2018), è possibile, presentando alcuni dati di varie ricerche, descrivere questa
evoluzione monodirezionale. Se nei contratti aziendali stipulati nel 2015 dalla Cgil, il welfare
aziendale era contenuto nel 22,8% dei documenti, si sale al 26,4% nel 2016 e al 27,2% nel 2017
(Cgil, 2019). In una ricerca svolta sui contratti integrativi aziendali stipulati nel 2018, invece,
ADAPT calcola che il welfare aziendale è presente nel 43% dei casi (ADAPT, 2019). Infine,
Welfare Index Pmi, in un’indagine su 4.561 aziende di qualsiasi dimensione e settore su tutto
il territorio italiano, ha rilevato che nel 2019 un’impresa su due è attiva sul welfare (Welfare
Index Pmi, 2019). Oltre a questa costante crescita in termini di aziende in cui il welfare
aziendale è presente, a crescere negli anni è anche il numero di servizi che le aziende offrono
ai propri dipendenti. Si pensi che, stando sempre a quanto riportato da Welfare Index Pmi
(2019), il 20% delle aziende che eroga benefit ai lavoratori può essere considerato molto
attivo, cioè ha almeno sei aree di welfare attive. Se si considera che nel 2016 lo erano soltanto
il 7% delle aziende, l’incremento è evidente.
Alla base di questo sviluppo, oltre ai già evidenziati problemi che incombono sul welfare
State, vi sono sia trasformazioni economiche e sociali di vasta portata, sia processi di
riassestamento dei sistemi di relazioni industriali (Pavolini et al., 2013).
Ciò che ci interessa qui presentare, è, però, il risultato di questa rapida, e tuttora
persistente, crescita e diffusione del welfare occupazionale nelle imprese italiane. Lo scenario
che si è andato a costituire è ben lungi dall’apparire come un quadro omogeneo. Infatti, vi è
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una forte segmentazione in termini di presenza o assenza di welfare nelle aziende italiane.
Molte sono le variabili che favoriscono o inibiscono l’esistenza di servizi di questo tipo
all’interno delle imprese della nostra penisola.
Pavolini et al. (2013), dopo l’analisi di quattro diverse banche dati che cercavano di
fotografare la situazione italiana ed europea circa i servizi erogati dalle aziende ai lavoratori,
sono giunti alla conclusione che la diffusione del welfare nelle aziende italiane è
estremamente frammentata. Tale situazione, nonostante si presenti all’interno di un contesto
che ha visto un aumento delle erogazioni e un coinvolgimento sempre più elevato di
lavoratori, evidenzia “alcune problematiche che riflettono quelle più generali del sistema di
welfare italiano e del funzionamento del mercato del lavoro […]” (Pavolini et al., 2013, p. 189).
Due sono i grandi dualismi che caratterizzano la situazione italiana: quello esistente fra
insider e outsider rispetto al mercato del lavoro e all’accesso al sistema di welfare, e quello
presente su base territoriale fra Centro-Nord e Sud del paese.
Per quanto riguarda il primo punto il tipo di contratto è la condizione che determina la
possibilità di usufruire o meno delle prestazioni offerte dall’azienda. Pavolini et al. (2013)
affermano che:
“Il welfare occupazionale, coprendo soprattutto il lavoratore tradizionale con
contratto a tempo indeterminato, in realtà rafforza ancora di più il dualismo fra insider
e outsider. Nessuna delle prestazioni analizzate copre in almeno la metà delle aziende
anche i lavoratori con contratto a tempo determinato. Inoltre […] i lavoratori usciti
dall’azienda – sia nel caso di licenziamento che di pensionamento – spesso perdono
l’accesso a tali prestazioni” (Pavolini et al., 2013, p. 189).
Ne deriva che anche l’età si inserisce come un elemento da considerare, poiché sono per
lo più i giovani ad essere assunti con contratti atipici. Perciò, a causa del loro fragile
inserimento nel mercato del lavoro, i giovani hanno meno accesso agli interventi di welfare
rispetto ai lavoratori più anziani.
Per quanto riguarda, invece, il secondo punto, come conseguenza della diversa
configurazione della struttura produttiva, del diverso funzionamento del mercato del lavoro e
delle diverse caratteristiche del settore pubblico, che vi sono tra Centro-Nord e Sud, anche la
diffusione del welfare aziendale non è omogenea tra le due zone.
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“Le prestazioni di welfare risultano, inoltre, fortemente differenziate a seconda
della collocazione geografica dell’azienda: ad eccezione dei prestiti agevolati, di poco
superiori nel Meridione rispetto al Centro-Nord, tutte le altre prestazioni di welfare
sono molto più diffuse in questa ultima parte del paese” (Pavolini et al., 2013, p. 189).
Nella diversa distribuzione del tipo e della quantità di prestazioni di welfare un ruolo
centrale lo svolge poi la grandezza dell’impresa. Potremmo sinteticamente affermare che al
crescere del numero di impiegati nell’impresa, crescono sia le probabilità che vi siano
erogazioni di welfare, sia il numero dei servizi che l’azienda offre.
“Le imprese di grandi dimensioni possono mettere in campo più facilmente
flexible benefit in proprio, ovvero schemi di retribuzione che integrano il salario del
dipendente con servizi per sé e per la sua famiglia, che altrimenti si sarebbero dovuti
reperire all’esterno, sfruttando le strutture e la numerosità legate proprio alla loro
dimensione” (Ciarini, Lucciarini, 2015, p. 48).
Oltre a questi principali dualismi, si possono individuare anche altre frammentazioni che
caratterizzano la situazione italiana. Per esempio, le prestazioni si differenziano anche a
seconda del settore produttivo a cui l’azienda appartiene. Pavolini et al. (2013) hanno creato
tre raggruppamenti in base alla diffusione di prestazioni di welfare. I settori bancario-
assicurativo e quello dei servizi alle imprese sono quelli che, assieme ai settori forti della
manifattura, prevedono il maggior numero di interventi; in seconda posizione il settore
chimico/energetico; in terza una serie di altri settori come il metalmeccanico, il commercio, il
turismo e i trasporti, che non hanno ancora sviluppato un robusto sistema di servizi per i propri
lavoratori. Chiaramente la questione si complica se si va, però, a osservare la diffusione, volta
per volta, di ogni specifico intervento di welfare
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.
La proprietà pubblica o privata dell’azienda tende a favorire o a sfavorire una maggiore
diffusione di pratiche di welfare, così come, più in generale, il lavoro nel privato o il lavoro nel
pubblico. Se in passato molte esperienze di welfare si erano sviluppate all’interno del settore
pubblico, negli anni più recenti vi è stata un’inversione di tendenza (Pavolini et al., 2013). Se
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Ciarini e Lucciarini (2015) osservano, ad esempio, che gli interventi che hanno a che fare con la flessibilità
del lavoro e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro sono presenti sia nelle grandi che nelle piccole aziende
in egual misura. Al di là dei minori costi che l’azienda deve sostenere, il motivo è da ricercarsi nel fatto che questi
servizi sono anche quelli di cui le piccole aziende hanno più bisogno in virtù della loro particolare struttura
produttiva, più esposta ai margini di flessibilità richiesti dai cicli produttivi.
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nel settore privato si moltiplicano le misure e le attività attente al benessere dei dipendenti,
nella pubblica amministrazione si rileva ancora un grande ritardo (Scansani, Ruffini, 2017).
Anche la qualifica lavorativa è una variabile cui prestare attenzione, con, ad esempio,
fondi sanitari e pensioni complementari che si differenziano in base alla qualifica del
personale, oppure prestazioni più elevate e generose per alcuni lavoratori piuttosto che per
altri (Pavolini et al., 2013).
Ulteriore discriminante nell’accesso o meno al welfare aziendale è l’essere un lavoratore
dipendente o un lavoratore indipendente. Il welfare occupazionale, infatti, ha come proprio
destinatario il lavoro alle dipendenze. Ne restano, dunque, esclusi i lavoratori indipendenti,
che in Italia rappresentano circa un quarto degli occupati (Pavolini et al., 2013).
Infine, si può individuare un’ulteriore serie di variabili che, seppur in minor misura, ha
effetti sulla diffusione del welfare aziendale. Per esempio, più un’azienda è storica, maggiore
è la probabilità che nel tempo abbia istituito, mantenuto e consolidato una serie di servizi per
i dipendenti. In sostanza si crea una sorta di “tradizione del welfare” che è, talvolta, associata
a un ambiente contrattuale favorevole (Cgil, 2019). Anche il far parte di gruppi aziendali tende
a sviluppare maggiori interventi di welfare, così come la presenza nell’impresa di personale ad
alta qualificazione (lo si vuole attirare e fidelizzare) o una forte incidenza di forza lavoro
femminile (più bisognosa di interventi di conciliazione tempi di vita e tempi di lavoro).
Più complessa la questione sulla sindacalizzazione che, in alcuni casi, sembra non essere
significativa, in altri, sembra avere effetti soltanto qualora vi sia una buona frequenza di
incontri annuali tra impresa e rappresentanti dei lavoratori. Del resto in Italia vi è un forte
divario nella densità sindacale: “Il Sud presenta valori molto elevati di densità sindacale,
mentre il Nord è ben al di sotto della media nazionale. Il dato è spiegabile per la forte presenza
al Sud di dipendenti pubblici (che sono storicamente molto sindacalizzati) ma è anche
sorprendente per via della maggiore presenza di piccole imprese nelle regioni meridionali”
(Colombo, Regini, 2014, p. 60). Tuttavia, come si è detto, è soprattutto al Nord che si
registrano la maggior parte di servizi che le aziende erogano. Infatti, “nonostante una densità
sindacale così elevata nelle regioni del sud, l’influenza negoziale del sindacato nei luoghi di
lavoro appare piuttosto ridotta. La contrattazione aziendale è poco diffusa […]” (Colombo,
Regini, 2014, p. 60).
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Per concludere, vi è da sottolineare che, a complicare ulteriormente il quadro, oltre alla
frammentarietà relativa alla quantità di prestazioni che le aziende erogano, estremamente
ampia è la forbice relativa anche agli importi medi pro capite versati dalle aziende. Per
esempio, rispetto alle pensioni complementari il 72% delle aziende versa al massimo 24 euro
a lavoratore, mentre il 18,4% ne offre oltre 200. Discorso analogo per i fondi sanitari, con un
terzo delle imprese che versa meno di 24 euro e un altro terzo che ne versa oltre 200 (Pavolini
et al., 2013).
3.2. Il welfare aziendale in numeri
Stando anche a quanto già riportato nel paragrafo precedente, come si è visto, nonostante
un quadro generale piuttosto diversificato e frammentato, tra gli studiosi vi è accordo sul fatto
che in Italia il welfare aziendale continua a crescere di anno in anno. In un qualsiasi articolo,
rapporto o documento che affronta l’argomento se ne può trovare la conferma. Se a questa
medesima conclusione generale, così come al relativo scenario che ne deriva, giungono
all’unanimità tutti gli studi, la questione si complica se si cerca di entrare nel dettaglio
numerico dei risultati a cui le varie ricerche approdano. Gli stessi dataset utilizzati da Pavolini
et al. (2013), per giungere alle considerazioni riportate più sopra nel testo, presentano in
termini di dati numerici valori a volte diversi tra di loro e, in alcuni casi, addirittura
incongruenti in certi punti. Perciò, se dal confronto di diverse indagini si giunge a conclusioni
e rappresentazioni della situazione generale piuttosto corrispondenti, molte, invece, sono le
divergenze riscontrabili tra una ricerca e l’altra in merito, ad esempio, alla quota precisa di
aziende italiane all’interno delle quali vi sono prestazioni di welfare aziendale, oppure a
proposito delle percentuali puntuali relative a quanti e a quali benefit le imprese offrono, a
quali sono i servizi più frequenti e a quali quelli più rari, a qual è il loro valore monetario.
D’altronde, non potrebbe essere altrimenti, data la complessità del campo e date le molteplici
variabili in gioco che possono influenzare le conclusioni a cui si può giungere.
Innanzitutto, si pensi alla costruzione del campione da analizzare: non tutte le aziende
sono uguali. Abbiamo già esplicitato nello scorso paragrafo quante sono le variabili che
favoriscono o inibiscono il welfare in un’impresa. La grandezza, il settore produttivo, la
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locazione e le caratteristiche della popolazione aziendale sono variabili più che sufficienti
affinché i risultati di due ricerche che trattano tali proprietà in maniera diversa giungano a
risultati sulle stesse materie anche molto distanti tra loro. A ciò si aggiunge la soggettività dei
ricercatori nella definizione degli oggetti che stanno analizzando e, quindi, della scelta di che
cosa considerare e di come considerarlo. Basti pensare, ad esempio, alla sanità integrativa
come servizio di welfare aziendale. Essa può provenire dalla possibilità data al lavoratore di
convertire il PdR in contributi sanitari o dalla predisposizione dell’azienda di un portafoglio
welfare che concede la medesima possibilità all’occupato, ma può derivare anche da
contributi aggiuntivi a carico dell’azienda o da assicurazioni o fondi di assistenza sanitaria
aggiuntivi. Quali modalità conteggiare come welfare aziendale? Tutte o soltanto alcune? Vi
sono poi fondi chiusi di categoria, ma anche fondi aperti o fondi aziendali di secondo livello o,
ancora, polizze sanitarie aziendali. Che cosa inserire nell’analisi? Segue la questione sulla
provenienza di tali servizi di assistenza sanitaria integrativa. In certi settori possono essere
previsti dal CCNL, in altri solo dal contratto integrativo aziendale, ma a volte sono istituiti da
un regolamento interno o da scelte unilaterali dell’azienda. Su quali, tra questi istituti,
soffermarsi? Ancora, i beneficiari possono essere tutti i lavoratori dell’impresa, i lavoratori e
anche i loro familiari, oppure soltanto alcune categorie di lavoratori. Insomma, le variabili in
gioco, da un lato, sono molte, dall’altro, sono rilevabili e trattabili in più modi. Non meno
importante, infatti, anche il come raccogliere questi dati. Analizzando i contratti delle aziende
o intervistando i dirigenti e i lavoratori?
Da quanto premesso è evidente la difficoltà nell’arrivare ad avere dei dati in termini
numerici sull’attuale condizione italiana, anche perché, a tutte queste possibili
“problematiche”, si aggiunge la precarietà di un risultato che è continuamente soggetto ad
un’incessante e rapida evoluzione.
Tra le tante ricerche e i tanti studi che affrontano la questione del welfare aziendale in
termini numerici, per poter presentare una panoramica generale sulla situazione italiana
abbiamo voluto concentrarci su due Rapporti, che raccolgono e analizzano i dati in modo
simile tra loro. I due studi, inoltre, potranno in seguito esserci utili anche per quella che sarà
la nostra ricerca sul campo.
Il primo rapporto è il V Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia nell’anno
2018 (“La Contrattazione Collettiva in Italia”, 2019). Il titolo è, in parte, fuorviante, poiché,
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oltre alla contrattazione collettiva, il report si interessa anche di contrattazione territoriale e
di contrattazione aziendale, nonché di una parte monografica su contrattazione collettiva e
lavoro autonomo, materie di salute e sicurezza, contrattazione pirata. Due sono i motivi per i
quali questa ricerca può esserci utile. In primo luogo, si tratta di dati estremamente recenti. Il
Rapporto è stato pubblicato nel 2019 e si riferisce all’anno 2018. In secondo luogo, il nostro
interesse verte sul welfare aziendale proveniente dalla contrattazione di secondo livello (in
seguito verrà presentato il lavoro che abbiamo svolto sui contratti integrativi aziendali). La
parte relativa alla contrattazione aziendale ci è utile per avere una panoramica recente sulla
situazione italiana all’interno di questo campo. Il lavoro svolto da ADAPT è, infatti, eseguito
sui contratti di secondo livello, dunque è paragonabile al nostro. In particolare, sono stati
analizzati 313 contratti integrativi aziendali sottoscritti nel 2018 appartenenti a diversi settori
merceologici.
La seconda indagine utilizzata è quella svolta dalla Cgil nel 2019 e che ha dato vita al
“Primo Rapporto sulla Contrattazione di Secondo Livello”. La ricerca è stata eseguita a partire
dagli accordi contenuti nell’”Archivio Cgil della contrattazione decentrata” nei tre anni
compresi tra il 2015 e il 2017. In particolare, dei 2.167 contratti presenti ne sono stati analizzati
1.700. La selezione è stata ragionata in base al tipo di accordo, all’anno di stipula, alla zona
geografica e alla categoria firmataria. Nonostante gli accordi siano meno recenti (dunque ci si
deve aspettare valori leggermente inferiori a quelli che proverranno dallo studio di ADAPT), i
punti di forza della ricerca, che l’hanno resa ai nostri occhi interessante, sono l’elevato numero
di accordi e, soprattutto, il focus sui soli contratti integrativi aziendali stipulati dalla Cgil, che
è quello su cui in seguito ci soffermeremo anche noi.
Innanzitutto, per quanto riguarda il welfare, ADAPT rileva che esso è presente nel 43% dei
contratti stipulati nel 2018. Al contrario, nei contratti firmati tra il 2015 e il 2017 la Cgil ha
conteggiato il tema del welfare aziendale nel 26% delle aziende.
L’istituto maggiormente discusso è quello relativo al premio di risultato e alla sua
welfarizzazione. Nel 30% dei contratti analizzati da ADAPT è presente un premio convertibile
in welfare. Il dato, in realtà, è leggermente in calo rispetto a quello del 2017, dove la
welfarizzazione del premio c’era nel 35% dei contratti. Inferiori i valori rilevati dalla Cgil: nel
40,4% dei contratti si parla di premi di risultato e la conversione è possibile nel 28% di questi,
ovvero solo nel 11,4% degli accordi totali. Come si osserva, questo secondo dato è
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decisamente più basso rispetto a quello presentato da ADAPT. Tuttavia, si ricorda che i
contratti utilizzati dalla Cgil sono più vecchi e alcuni sono datati 2015, dunque prima che la
Legge di Stabilità del 2016 rendesse conveniente la conversione dei premi in welfare
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.
Per poter osservare il rapido sviluppo negli anni del numero di contratti aziendali che
prevedono premi di risultato convertibili in welfare, possono essere utili le rilevazioni
effettuate dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla documentazione di secondo
livello delle aziende italiane. A luglio 2016 gli accordi che prevedevano al loro interno elementi
di welfare erano il 17%. A novembre 2017 la percentuale era salita al 33% circa e un anno
dopo, a novembre 2018, toccava il 46%. Il dato più recente, datato 18 marzo 2019, ci racconta
che nel 51% dei contratti di secondo livello si possono trovare istituti di welfare aziendale
(Santoni, 2019).
I principali servizi contenuti nei contratti analizzati da ADAPT hanno a che fare con: buoni
pasto (20% dei contratti), previdenza complementare (16% dei contratti), assistenza sanitaria
integrativa (15% dei contratti), convenzioni varie (10% dei contratti), asili nido (4% dei
contratti) e borse di studio per i figli (3% dei contratti). Simile l’ordine dei principali benefit
rilevati nell’analisi della Cgil, ma valori chiaramente più bassi: buoni pasto/mense aziendali
(15,3% dei contratti), previdenza complementare (8,1% dei contratti), assistenza sanitaria
integrativa (7,9% dei contratti), istruzione e servizi educativi (5,4% dei contratti), trasporti
collettivi e individuali (5,1% dei contratti). Tra gli ulteriori servizi concordati nel 2018 ADAPT
segnala anche la possibilità dell’acquisto di prodotti aziendali a prezzi agevolati e la
sottoscrizione di convenzioni con società esterne che offrono sconti ai lavoratori. Rare, invece,
le aziende che concedono prestiti vantaggiosi ai propri dipendenti.
Una delle materie più contrattate nei vari accordi è l’orario di lavoro. Molti sono gli
elementi relativi alla conciliazione tempi di vita e tempi di lavoro presenti nei contratti.
Nell’indagine svolta dalla Cgil l’orario di lavoro è presente nel 35,5% dei contratti, risultando,
dopo il trattamento economico (63,7%) e le relazioni e i diritti sindacali (53,4%), il terzo tema
più trattato.
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Si rinvia al paragrafo 2.4. per gli approfondimenti relativi alla welfarizzazione del premio di risultato e ai
benefici fiscali per aziende e lavoratori che la Legge di Stabilità del 2016 ha comportato.
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ADAPT rileva che nel 11% dei documenti analizzati è prevista la possibilità di una certa
elasticità nell’orario di entrata o di uscita dal lavoro. Nel report stilato dalla Cgil tale
percentuale si attesta al 4,4%.
Più elevata la quota di contratti che introduce la possibilità per il lavoratore di convertire
il proprio orario di lavoro da full-time a part-time come mezzo di sostegno per una maggiore
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro: 17% dei contratti nella ricerca svolta da ADAPT, 8,7%
negli accordi della Cgil.
Buona la percentuale di aziende che nella ricerca di ADAPT concede congedi (14%) e
permessi (17%) retribuiti e non ai propri dipendenti. I principali motivi per cui vengono offerti
hanno a che fare con la questione della genitorialità. Nella ricerca della Cgil i permessi per i
figli minori sono nel 3,3% dei contratti. Si annoverano permessi in caso di malattia dei figli,
permessi per il loro inserimento a scuola o per il loro accompagnamento a visite mediche
specialistiche. Vi sono, poi, sostegni economici aggiuntivi per i periodi di congedo parentale e
vengono aumentati i giorni di permesso per il lavoratore padre in caso di nascita di un figlio.
Infine, vi sono permessi concessi per l’assistenza di genitori anziani o per eventi straordinari
come i matrimoni o le unioni civili o, ancora, per il conseguimento di titoli di studio. Più rari i
periodi di aspettativa non retribuita per le procedure di adozione.
Tra gli elementi che hanno a che fare con il tema della conciliazione tempi di vita e tempi
di lavoro vi sono anche gli istituti dello smart-working e del telelavoro. Essi, oltre alla maggiore
libertà nell’organizzazione dei tempi di lavoro, impattano anche sull’organizzazione delle sedi
di lavoro, che cessano di essere necessariamente i soli luoghi dell’azienda. ADAPT rileva che
lo smart-working è presente nel 18% dei contratti. Nel 2017 era contenuto soltanto nell’8%
dei documenti, dunque in un anno è salito di 10 punti percentuali. Negli accordi stilati tra il
2015 e il 2017 era, invece, in appena il 3,1% dei contratti (Cgil, 2019). Più raro, invece, il
telelavoro: 3% dei contratti analizzati da ADAPT, 1,8% di quelli presenti negli archivi della Cgil.
Infine, anche la formazione costituisce un’importante materia di contrattazione. ADAPT
rileva che nel 37% dei contratti se ne parla in termini di “sviluppo professionale”. Sebbene
“essa risponde generalmente alle esigenze concrete delle imprese, sia strutturali che
contingenti, alla luce delle loro strategie di sviluppo; tuttavia, non mancano accordi che
sottolineano il ruolo della formazione come funzionale anche alla crescita professionale
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individuale” (ADAPT, 2019, p. 68). Inquadramento e formazione sono tematiche presenti
anche nel 30% dei contratti analizzati dalla Cgil.